VIAGGIO
(quando l’esistenza si
ferma a guardare)
Riccardo
Brevi. Uomo calcolato, immerso appieno nella folle frenesia del suo
mondo, e del suo tempo. Mai un momento di riposo, una vita di corsa, di
poche parole, poche quanto bastano. E c’è chi
riesce ancora ad intravedere un cuore limpido, aperto, puro, dentro
queste persone, che a favore della meccanizzazione della propria vita
hanno perso tutto: famiglia, amore, tempo libero, la vita stessa
(forse). O forse no.
Riccardo Brevi. Ogni mattina sempre lì, alla
fermata dell’autobus, puntuale. Le otto meno dodici. Tra meno
di venti minuti sarà a lavoro, al calduccio dietro la sua
scrivania di “freddo” avvocato. In attesa delle
solite facce, delle solite frasi, dei soliti fascicoli, delle solite
scene di vita mediocre. Ora, intanto, sta qui, tra gente che come lui
aspetta questo autobus che sembra non arrivare mai. Un minuto, due, di
ritardo, possono voler dire tanto, troppo per un uomo come lui. E anche
un minuto d’anticipo può voler dire tanto: un
ottimo inizio, non c’è che dire.
Finalmente l’autobus è arrivato.
Sale per prima la signora Merli. Saluta, educatamente,
l’autista. Lui no. Oblitera il suo biglietto, di corsa. Non
vuole rubare tempo a quelli saliti con lui. Anche questa è
educazione. Si siede. A quell’ora non sono tanti, e
c’è da sedere per tutti, tutti meno uno. Vito, il
giovane commesso alla pasticceria del centro, non siede. È
sempre lì, immerso in se stesso, arruffato attorno al
paletto, un tutt’uno con l’autobus, un
tutt’uno con il sonno che lo tormenta. Ha fatto le ore
piccole, come da suo solito.
Lì vicino siede il ragionier Reni: è
buffo; alita come un bambino sui vetri appannati, sorride ingenuamente
guardando fuori, scruta l’insondabile che
c’è nei cuori dei passanti che attraversano la
strada. Di fronte a lui la signorina Ricci: sulla quarantina
(quarantacinque a non voler essere gentiluomini), sola, e si vede. Non
s’è mai voluta sposare. Non l’ha mai
cercato il suo amore. L’avrebbe potuto trovare. Era bella un
tempo, bellissima. Ora gli anni l’hanno abbruttita,
trascurata da se stessa e dagli altri, che non le hanno mai saputo dare
quello di cui un’anima fragile come la sua aveva veramente
bisogno.
Nel posto parallelo al suo siede Gianni. Tutti lo chiamano
così. Dice d’essere un poeta, lui. Ma non ci crede
nessuno. C’è gente che racconta di vederlo ogni
mattina scendere da quell’autobus, e con la sua consueta aria
intellettuale attraversare rapidamente la strada e perdersi in un
piccolo bar senza nome. Il naso e le guance confermano in pieno.
Dietro di lui, con gli occhi chiusi, immersi in un sogno che
è sempre più bello della cruda realtà,
il vecchio Nanni; va a trovare ogni mattina la sua amorosa. Lui
ottant’anni suonati, lei pochi meno. Tutti e due vedovi. Ma
la morte non sa spegnere anche la passione, e l’amore che
colora gli animi di tutti noi, anche di chi un giorno ha pensato di
farla finita. Come Stefano, ventitré anni, seduto dietro al
conducente. Lui l’amore l’ha perso; un amore di
gioventù, tanto velleitario quanto intenso e straziante. Il
suo amico più caro, Mario l’ha salvato, o meglio
l’ha convinto che la vita che viviamo non è degna
del suicidio.
Poi ci sono i fratelli Sartetti, che vanno ad aprire il loro
negozio di sete preziose, e vicino a loro Cisti, fornaio che ritorna a
casa e che a quell’ora profuma tutto di dolci; un brutto
affare per la pancia di Riccardo Brevi, che anche stamattina, per la
fretta, ha saltato la colazione. Anche il piccolo Andrea ha saltato
qualcosa: la scuola. Grande “marinatore”, lui.
Tredici anni e già una carriera da far invidia. Un giorno a
scuola e tre a casa. Ah la cultura! Che peso! Come sarebbe molto
più bello vivere nell’ignoranza. Come i cani: loro
stanno lì, ci guardano e non capiscono. O forse non vogliono
capire: e fanno bene. Voi immaginate un cane con tutte le
preoccupazioni effimere ed insulse che affliggono un uomo. Non sarebbe
più un cane. È come voler mettere a tutti i costi
un gonna lunga a coprire le cosce di una puttana. Non
s’è mai vista una cosa del genere. Chiedetelo un
po’ alla Nelly, quella con le labbra che occupano un quinto
del volto e le cosce belle sode coperte (si fa per dire) da un paio di
calze a rete tutte smagliate e ricche di buchi un po’ qua e
un po’ là, che vanno ad arrestarsi nervosamente
lì dove inizia la gonna, la minigonna, più vicina
alle tette che alle ginocchia. Nelly siede davanti a Riccardo Brevi.
Lei pensa che lui sia carino. Lui, invece, vede in lei solo una troia.
Ed eccoci finalmente al nostro eroe moderno, il pensiero che
doma la voglia di vivere fattosi carne, la ragione fredda che fa a
pugni col caldo di un cuore destinato alla sconfitta prima ancora di
iniziare il feroce duello. Né vincitori né vinti.
O forse no. O forse c’è spazio anche per il cuore,
talvolta. Per l’emozione, il ricordo, l’Amore. Non
quello sessuale, non quello che lega due persone in un formale connubio
chiamato matrimonio, quanto l’amore puro, lo slancio vitale,
che si prova per le altre persone, qualunque sia il loro sesso, la loro
storia e la loro condizione.
Sì: Riccardo Brevi sa Amare. È un
amore privo di parole, dettato da sguardi taglienti, da
un’attenzione fisiognomica, che scava nelle persone, a
partire dai loro tratti somatici, dalle loro mani, dai loro occhi, per
risalire alla loro essenza, alla loro purezza, per colpire di nascosto
e cullare in un morbido abbraccio il loro fragile cuore. Pure questo
è amore.
Riccardo Brevi non conosce i passeggeri che ogni mattina
dividono con lui quel breve spazio di tempo; lui non conosce i suoi
compagni di viaggio, ma è come se li conoscesse da sempre.
Perché i suoi compagni di viaggio sono tutti quelli come
lui, tutti gli uomini che un giorno, per bizzarria divina o per sfizio
del dolore, sono comparsi su questa terra che hanno saputo sporcare e
rendere ostile ai propri fratelli. Sono quelli nati con lui, prima di
lui e pure dopo. Sono quelli che come lui non hanno ancora capito il
senso della vita, e mai lo capiranno. Sono quelli che hanno saputo
leggere nell’esistenza tante trame differenti fra loro, ma
un’unica trama di fondo che non può essere in
alcun modo cambiata. Ed è così che Riccardo Brevi
partecipa alle loro emozioni, alle loro gioie, ai loro dolori.
È diventato una scheggia della loro anima, e viceversa. Il
breve viaggio che sta facendo, e che fa meccanicamente ogni mattina,
è in realtà un viaggio ben più
profondo ed esteso: è la sua vita. È per questo
che Riccardo Brevi è anche Nelly, è anche i
fratelli Sartetti, è anche il ragionier Reni, ma soprattutto
è se stesso (o tutto o niente).
Il puzzle che ricompone con i suoi occhi penetranti, con il
suo filosofeggiare limitato a questo breve ma intensissimo momento
della sua giornata, è tanto grande quanto incompiuto.
È l’armonia, la vera pace interiore. Ed
è allora che i suoi occhi si lasciano sfuggire una fragile
lacrima di cristallo ad ogni compagno di viaggio che scende alla
propria fermata d’arrivo, come a voler sintetizzare
l’emozione legata ad un doloroso addio. Ed è
allora, proprio allora che lui prova a sforzarsi, a sentirsi un uomo
migliore, realizzato con e negli altri; è proprio allora che
può capire anche se non vuole, che può rompere le
catene che lo inchiodano alle sue vuote ambizioni programmatiche
affogate nella ruvida quotidianità; è proprio
allora che può ma non deve, perché a qualcuno sta
bene così.
Ma tutto questo si infrange al capolinea, i sogni
svaniscono, volano via come falene al sorgere del sole.
L’attimo purificatore ora è solo un ricordo
annebbiato, prepotentemente scalzato dalla ferocia della routine.
L’uomo è ritornato nella sua
condizione. Non si capisce bene se l’uomo vero è
il sognatore di prima o l’ingranaggio di adesso. Fatto sta
che ora Riccardo Brevi sta per entrare nel palazzo ottocentesco dove ha
sede il suo ufficio. Guarda la grande facciata grigia, intaccata dallo
smog. Riflette, anche se non gli è consentito. Ancora pochi
istanti e poi entrerà, e l’uomo che è
in lui si annienterà nuovamente del tutto. Ancora pochi
istanti, giusto il tempo di ripensare a quel bel culo della Nelly.
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