Planet 0081

di Banana_Mecha
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Oggi sono passati quasi quattro mesi da quando sono tornata in Italia.
I dieci mesi passati in Giappone sono stati avvolti nella nebbia tipica dei sogni, dove niente sembrava reale quanto questo asfalto grigio su cui cammino e questo cielo blu che mi sovrasta.
Risvegliarsi è stato come tornare a respirare, intenso e morbido come il tiramisù che si scioglie in bocca, consolante come camminare in strada d’estate mangiando un ghiacciolo al limone e sentire il profumo della biancheria stesa fuori ad asciugare.
 
Non ero felice, là in Giappone. Si può dire che sia stata sfortunata, che sia stata colpa mia, che è così che doveva andare. Si possono dire tante cose, ma io preferisco guardare tutto con distacco, pensando che quel che è fatto è fatto ed è inutile piangersi addosso.
 
Il Giappone è un posto meraviglioso, e ci sono giorni in cui il mio unico pensiero è tornarci, viverci per sempre, farne la mia casa.
Altri in cui la malinconia mi assale e mi ricorda quant’è stato bello uscire da quell’aeroporto, il 28 giugno scorso, e sentire l’odore umido e inebriante della notte estiva italiana.
Vorrei raccontare tutti gli eventi con calma, ma prima mi sembra doveroso fare un’anticipazione.
 
Il Giappone mi ha mangiato l’anima.
Mi ha addormentata, mi ha anestetizzata e mi ha strappato via tutto senza che me ne rendessi conto.
Ora è troppo tardi.
Della ragazza entusiasta, positiva, piena di sogni, fiduciosa ed estroversa che è partita da Roma il 28 agosto 2013 è rimasta solo la scatola vuota da buttare.
Avrei voluto salutare meglio i miei, lasciare che mi guardassero meglio, che mi accarezzassero ancora un po’ perché quella sarebbe stata l’ultima volta che mi vedevano.
E invece ho pensato solo al mio egoismo e ai miei sogni ciechi, li ho salutati spicciamente, ho sorriso loro e poi mi sono messa in fila per il check-in. Mi sono voltata una sola volta e ho fatto “ok” con la mano. Mia madre aveva gli occhi lucidi e non mi scollava gli occhi di dosso.


Non mi sono pentita di essere andata in Giappone e di aver fatto quel che ho fatto, ma i miei sì.
Mio padre mi guarda disperato e cerca di ripescare nel mio sguardo qualche barlume fioco della luce che aveva prima. Mia madre piange spesso.
Mi dicono che sono cattiva e insensibile, e io mi sento un verme perché li faccio soffrire con la mia apatia, la mia cattiveria, la mia mancanza d’affetto, la mia introversione. Più che chiudo dentro di me il disagio e la rabbia dell’essere rimasta sola contro tutti, più che non chiedo aiuto, e più che loro sprofondano nel mare nero dell’impotenza.
Mi guardano sperando che torni normale, desiderandolo più della loro vita.
Ma non posso tornare quella di prima neanche volendolo.
E’ come chiedere a una rana di tornare un girino, a un biscotto inzuppato nel caffèlatte di ridivenire compatto.
 
So di tante persone che hanno vissuto un’esperienza meravigliosa, che hanno conosciuto famiglie stupende che li hanno aiutati, capiti e amati. Li ho visti con i miei occhi abbracciarsi all’aeroporto e sono morta dentro.
Studenti con tutti i compagni di classe ad abbracciarli e a piangere.
Mi sono chiesta quanto effettivamente ho sbagliato io e quanto sia stata colpa del caso.
 
E pensare che all’inizio mi era sembrato tutto perfetto. 




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