Il
fiore bianco
Quando
Andrea seppe della morte di suo fratello Julian, si sentì mancare il
terreno
sotto ai piedi. In verità, lei non era mai andata particolarmente
d’accordo con
lui e, anche se erano fratelli, erano cresciuti distanti di pensiero e
di giochi:
mentre lei passava i pomeriggi dai suoi nonni in campagna a raccogliere
fragole, Julian si allenava per diventare calciatore. Non si erano mai
capiti e
forse non ci avevano mai provato; tuttavia, dopo la morte dei suoi
adorati
nonni, quella di Julian fu una botta piuttosto pesante da digerire.
Decise di
ritornare a casa e di prendersi un anno sabbatico dagli studi.
Stanca
dal viaggio spossante di due ore di aereo, Andrea vedeva appena i
vialetti e i
parchi colorati che riempivano i suoi pomeriggi da bambina. Un po’ le
erano
mancati, ammetteva, ma non voleva dimenticare il motivo per cui se
n’era
andata: la vita nelle strade sterrate di Chalk, il suo villaggio
natale, le era
troppo stretta.
Ansimò,
mettendo piede sul terreno polveroso non distante da casa sua,
guardandosi
attorno con velata nostalgia. Sua madre le corse incontro quasi
inciampando sui
suoi piedi, visibilmente commossa, mentre suo padre le diede una pacca
su una
spalla e poi un moderato abbraccio. «Bentornata a casa».
In
questi anni, notò che i suoi genitori non erano cambiati affatto:
l’aspetto
fisico forse si era arrotondato un po’, ma la voce squillante e i modi
di fare
sbarazzini di sua madre e la durezza quasi inespressiva di suo padre
l’avevano
riportata indietro nel tempo. Mancava solo Julian: quella presenza a
tratti
invisibile ma forte, con il suo temperamento vivace. A mettere piede in
casa,
eppure, le pareva ancora di sentirlo.
«Com’è
successo?». Non poteva non fare quella domanda, l’aveva tenuta per sé
tutta la
sera ma non riusciva a mandare giù la sua minestra, quello stesso
giorno a
cena, se ripensava a lui che non c’era più. I suoi genitori la
guardarono
appena. Un incidente, le dissero al telefono. Ma Andrea sapeva che non
era
vero, c’era dell’altro che non le volevano dire. Ma non lo avrebbe
scoperto
quella notte. Andò a dormire con un peso sullo stomaco e restò sveglia
per la
maggior parte del tempo, rigirandosi fra le lenzuola.
La
mattina, Andrea si svegliò di soprassalto. Aveva sognato suo fratello
in
trappola nell’oscurità e lei non era riuscita a fare niente per
aiutarlo,
sommergendosi nell’angoscia e nelle lacrime. Ciò che più le aveva fatto
paura,
tuttavia, era vederlo in trappola insieme ad una bestia feroce. Si
rigirò fra
le coperte per degli attimi interminabili prima di decidere di alzarsi,
bevendo
subito dell’acqua per calmare il suo cuore. C’era qualcosa nella
scomparsa di Julian
che non riusciva a capire. Si rivestì di corsa e chiudendosi ben
stretta fino
al collo una vecchia camicia, sentendosi ancora parte integrante di
quel mondo che
era Chalk, decise di andare a trovare il vecchio Bob, l’anziano ma
sempre
efficiente sceriffo della zona.
Una
volta varcato l’ingresso ad arcata, tutti smisero di fare ciò che
facevano e
andarono ad abbracciarla, felici del suo ritorno a casa.
«Non
ci credo… Che mi venga un colpo!», esclamò una voce grossa,
accompagnata da un
uomo altrettanto robusto, dai pochi capelli bianchi e dai baffoni
argentei. Era
come rivedere un vecchio filmino per Andrea, uno qualsiasi dei suoi
primi compleanni,
poiché quell’uomo era sempre uguale.
«Bob»,
gli sorrise e lo abbracciò come si doveva a un vecchio amico di
famiglia.
«La
nostra stellina è tornata finalmente a casa, eh?», disse lui con un
sorriso
estasiato ma Andrea ricambiò solo appena, ricordandosi il motivo per
cui era
veramente tornata.
«Già,
per…», alzò un braccio e lo ribatté sui fianchi, abbassando lo sguardo.
«Julian.
Sono corsa appena ho potuto». I suoi occhi azzurri si posarono su
quelli grigi
dell’uomo, che spense il suo sorriso e la involse con un braccio,
spendendo
appena mezza occhiata per guardarsi intorno.
«Sì,
piccola, è stata una cosa terribile», rispose e la trascinò lentamente
nel suo
ufficio, chiudendosi la porta alle spalle.
Andrea
si guardò intorno senza interesse, fermandosi alla scrivania,
sistemandosi la
coda bassa dei suoi capelli. Aspettava di risentirlo parlare ma lo
sceriffo ci
stava impiegando più del dovuto e la cosa la mise sulle spine: cos’era
successo
davvero a suo fratello?
«Julian
era scomparso da un po’ ma non ci siamo spaventati subito, sai
com’era…», il
suo volto sbiancò, afferrando la sedia della scrivania e porgendola
alla
ragazza, che rifiutò di sedersi. «Sai anche tu com’era fatto… quel
santo
ragazzo! A volte lo si cercava ma dormiva fuori, sono cose che
succedono».
Andrea aveva una terribile voglia di bloccarlo, perché il suo
sproloquiare era
diventato sintomo di nervosismo, che stava contagiando anche lei,
mordendosi un
labbro. «Beh, per farla breve… Mi dispiace», prese una breve pausa,
«piccola,
tuo fratello è stato ucciso».
Si
sentì inghiottire e prese un grande respiro, guardandosi attorno,
abbassando e
rialzando lo sguardo, trattenendo le lacrime.
«Da
chi? Perché?», chiese subito ma Bob scosse la testa.
«Ancora
non lo sappiamo», spalancò le braccia, interrotto dalla porta che si
era aperta
all’improvviso da un giovane in divisa. Quest’ultimo stava per parlare
ma
notando che lo sceriffo non era solo si zittì e i due si scambiarono
un’occhiata d’intesa.
Era
strano, perché Andrea era sicura di conoscere tutti quelli che
abitavano a
Chalk, ma quel giovane non era un viso noto né aveva nulla di
familiare.
Dovendo aver notato l’aria interrogativa stampata sul volto di Andrea,
lo
sceriffo fece accomodare il ragazzo e lui si mise ritto con la schiena,
presentandosi
con una calda stretta di mano. «Hugh Thomas, vicesceriffo».
«Andrea
Armell, piacere».
Appena
le loro mani s’incontrarono, Andrea sentì una strana scarica
adrenalinica mai
provata. Chi era quel ragazzo? Possibile che non l’avesse mai visto
prima?
I
due si chiusero dentro l’ufficio e Andrea, tagliata fuori, decise di
andarsene.
Non
aveva voglia di rivedere i suoi genitori né tanto meno la sua stanza da
letto,
troppo vicina a quella di suo fratello che ora somigliava quasi ad un
museo a
lui dedicato, e decise di passeggiare. Era davvero da troppo tempo che
non si
perdeva fra i suoi pensieri, senza preoccuparsi troppo degli esami che
doveva
dare e quando, senza studiare e senza l’angoscia di non farlo mai
abbastanza.
In verità, tuttavia, avrebbe preferito pensare agli esami che a suo
fratello. Doveva
ancora ambientarsi a quell’idea della sua morte, poiché era abituata a
non
averlo intorno, e pensava di poterlo rivedere a breve, da un momento
all’altro.
Ucciso. Quella parola le stava
rimbombando nella testa agli stessi ritmi del suo cuore, insieme al
pensiero di
aver conosciuto quel vicesceriffo. Quel ragazzo aveva qualcosa di
strano,
continuava a ripetersi, e non l’aveva mai visto.
Pensava
che il ricordo di suo fratello era ancora così vivido da poter udire
nella sua
testa il rumore del suo pallone da calcio che rimbalzava, finché non si
voltò
e, dietro un albero, un pallone bianco e nero non volò per davvero
oltre un
cespuglio, incantando Andrea.
«Mi
dispiace per tuo fratello». Riconobbe subito quella voce e le entrarono
i
brividi, rivoltandosi di scatto a fissare il volto duro del
vicesceriffo. «So
che era un bravo ragazzo», aggiunse poco dopo e Andrea si girò di
spalle,
scoprendo che il pallone da calcio era sparito.
«Sì»,
rispose lei, abbassando lo sguardo. Ancora non si capacitava del tutto
di ciò
che era successo. «Ci sono stati risvolti?», chiese poi e l’altro alzò
gli
occhi al cielo che si faceva più nuvoloso.
«Forse»,
ammise, prendendo il completo interesse di lei. «Ma è qualcosa di cui
devo
parlarti in privato». La fissò negli occhi e Andrea fece qualche passo
indietro, entrando nell’erba e calpestando qualche fiorellino,
facendosi
seguire. Si nascosero dietro un albero e lei si appoggiò ad esso,
pronta ad
ascoltare ciò che aveva da dirle. In verità, Andrea trovava un po’
strano che il
vicesceriffo appena conosciuto volesse parlarle in privato, lontano
dalla stazione
di polizia; ma era pronta ad ascoltare qualsiasi cosa pur di far luce
sulla
morte di Julian.
«Hai
sentito anche tu…», quando il ragazzo esordì con queste parole, Andrea
spalancò
gli occhi, colta alla sprovvista; «quando ci siamo sfiorati, ho capito
subito
chi eri».
«Scusami?»,
apostrofò, storcendo un sopracciglio.
«Non
è un caso che tu sia la sorella del ragazzo trovato morto», biascicò
ancora e
Andrea dovette fermarlo e farlo ripetere, perché non capiva di cosa
stesse
parlando. «C’è una ragione se tu sei qui, adesso…».
«Perché
mio fratello è morto», rispose lei, inacidita, «e voglio scoprire cosa
gli è
successo».
«No.
Sei qui perché è stato profetizzato», replicò il vicesceriffo,
osservando le
sue mani. «Lo stesso vale per me. Noi siamo connessi, Andrea».
Lei
storse anche l’altro sopracciglio e sbuffò, visibilmente seccata. «Ok.
Io
credevo volessi parlare di Julian ma a quanto pare sei un matto… Dirò a
Bob di rivedere
la tua carica». Stava per svoltare l’albero quando lui la fermò ad un
braccio e
lei si spaventò, sussultando.
«Puoi
non credermi ma accadrà. Sta già accadendo. Dobbiamo uccidere la
Bestia»,
sussurrò e Andrea si liberò facilmente della presa, fissandolo per un
breve
attimo. Voleva dirgli qualcosa ma la delusione si era fatta più pesante
e lo
lasciò solo, ritornando al paese.
Una
volta a casa, ebbe il modo di pensare a cosa le era successo. Constatò
che qualcosa,
in fondo, era davvero cambiata a Chalk: si era fatta più scura. Si era
accorta
di piangere mentre tentava di scrivere quella lettera di addio che
avrebbe
letto al funerale di suo fratello, e così guardò fuori, alla luce della
Luna
che le faceva compagnia. Udì l’insolito rumore di un pallone che
rimbalzava e
sbatteva contro un muro, così si alzò e abbassò lo sguardo oltre la
finestra,
scoprendo ancora quel pallone dal calcio che si fermava a poco da casa.
Le gelò
il sangue quando vide un ragazzino camminare lento verso di esso e
prenderlo
tra le mani. Le pareva di conoscerlo. Sapeva benissimo chi era. Quando
Julian
alzò lo sguardo verso di lei, di riflesso chiuse le tende e si
allontanò dalla
finestra con una mano alla bocca. Non poteva essere lui. Julian era più
grande,
era più alto, era morto. Si accostò alla finestra pian piano e scoprì
la tenda
lentamente, con visibile titubanza, tremando. Doveva essere un bambino
che
ancora non conosceva, magari dei vicini. Lo avrebbe scoperto a giocare
e poi la
madre lo avrebbe riportato a casa con una mano all’orecchio. Non poteva
essere
altrimenti, pensava, deglutendo. Guardò giù con paura ma scoprì che non
c’era
più nessuno. Il bambino se n’era andato. Tirò un sospiro di sollievo,
voltandosi e ritrovandosi il ragazzino davanti alla porta della sua
camera con
il pallone tra le braccia.
Se
qualcuno glielo avesse raccontato, non ci avrebbe mai creduto. Era
assurdo
anche solo immaginarlo per una persona come lei, dove la razionalità
veniva
prima di ogni cosa. Stava seguendo quel Julian fra gli alberi del bosco
da
parecchi minuti ormai e lui non accennava a fermarsi, né a rallentare.
Seguiva
costante un sentiero preciso e lei cercava di richiamarlo a sé con
insistenza,
senza riuscirci. Era sicura fosse Julian ma che lo chiamasse o meno,
per lui
era indifferente; voleva solo che lei lo seguisse. Quando si fermò,
d’improvviso, quasi gli andò addosso finché non vide dove si trovavano:
la casa
dei nonni. Proprio come se la ricordava, sorgeva su una collinetta
appena
fiorita, con il cancello che circondava la proprietà. Si chiedeva
perché
l’avesse riportata in un luogo a lei tanto caro e si abbassò per
cercarlo,
scoprendo che era sparito ancora; solo il rumore del pallone da calcio
che
rimbalzava le dava la sua posizione e lo seguì. Il pallone era dentro
al
cancello e aveva appena smesso di rimbalzare, fermo sul prato del
giardino. Del
bambino non c’era traccia e Andrea si guardò attorno circospetta.
Perché aveva
lasciato lì il pallone? Dov’era andato? Voleva che lo raggiungesse?
Sfiorò
appena il cancello ma una grossa mano la fermò dal farlo e lei urlò,
provocando
un rumore sinistro all’interno della casa dei nonni.
«Sei
matta? Che ci fai qui?».
Il
vicesceriffo Hugh Thomas le prese la mano e la strinse tanto forte dal
farle male,
trascinandola via fra gli alberi, rifacendo il percorso contrario.
Sentì un
susseguirsi di rumori sempre più pesanti e sinistri all’interno della
casa e il
cancello che, cigolante, si era aperto. I brividi le salirono lungo la
schiena,
cominciando a correre più veloce. Tentò di chiedere al giovane cosa
stava
succedendo e chi abitava nella casa dei suoi nonni deceduti, ma lui
continuava
a correre senza degnarla di risposta. Vedevano l’erba che si muoveva
sempre più
vicina a loro, accompagnata da terribili rumori gutturali più simili ad
un
animale che ad un uomo. Quando si ritrovarono fuori dal bosco, Hugh
Thomas si
fece seguire fino alla stazione di polizia e chiuse il portone. I
segretari
all’interno del piccolo edificio continuavano il proprio lavoro
incessanti e
indifferenti all’arrivo dei due, così che lui le prese ancora la mano e
la
trascinò all’interno di un ufficio. La sua furia era palpabile ma la
ragazza
era troppo spaventata per darci peso.
«Cos’era?
Cosa ci stava seguendo?», quasi urlò e lui si passò una mano sulla
fronte,
asciugando il sudore.
«La
Bestia», enunciò il ragazzo. «Ancora non mi credi? Sei stata attratta
in quel
luogo perché sei una delle Chiavi».
Lei
si appoggiò ad una scrivania e spalancò gli occhi, terrorizzata,
allungando lo
sguardo oltre la finestra, dove quel bambino tanto simile a Julian
teneva
ancora il pallone fra le braccia e la fissava con insistenza. «Dimmi…
cosa sta
succedendo», biascicò. Non era ancora certa di voler credere a profezie
e
bestie, ma dopo la corsa per scappare da un qualcosa che preferirebbe
non
incontrare mai e quel Julian che non la lasciava in pace, temeva di non
poter
fare altrimenti, almeno per il momento. Forse quel bambino cercava di
dirle
qualcosa e tutto era collegato alla morte di suo fratello.
«Io
sono la Spada», disse il vicesceriffo con una luce di convinzione negli
occhi. «Tuo
fratello era l’altra Chiave ma è morto prima che potesse esserci
utile».
Notando lo sguardo sempre più sconcertato di lei, il giovane prese un
grande
respiro e decise di riprovare dall’inizio. «La profezia è arrivata a me
da mia
nonna. Lei abitava qui a Chalk prima di morire e me l’ha raccontata
spesso
quando veniva a trovarci: chiaramente io non ci credevo, per me era
solo una
favola come un’altra, finché non sono venuto qui per lavoro e ho
trovato quella
casa. Ho
capito così che tutto
stava per avverarsi e che dovevo trovare le Chiavi se volevo che tutto
finisse.
Sfortunatamente, tuo fratello morì il giorno stesso che mi trasferii
qui»,
buttò d’un fiato e Andrea lo squadrò perplessa. Non sapeva perché
credergli, ma
quando rivedeva il bambino nella finestra sempre più vicino a loro
deglutì e
pensò di dargli un’occasione. «Magari ti sembrerà assurdo ma è la
verità. È la
maledizione di Chalk. Mi ha raccontato che qualche decennio fa, una
ragazza
della nostra età era stata sedotta e abbandonata da un uomo; lei aveva
grandi
progetti, pensava di costruirsi un futuro, finché non scoprì che lui
aveva
un’altra e che lei era stata solo un passatempo per lui. I due erano
prossimi
al matrimonio e lei, che era una strega, lanciò la maledizione: come
lui era
stato un animale a comportarsi con lei e ad averla ingannata, sarebbe
nato un
bambino con istinti animali tanto feroci che, una volta ragazzo,
avrebbe
compiuto le più atroci nefandezze a Chalk, per vendicarsi al suo
posto»,
aggiunse il vicesceriffo.
«Cos’è
successo alla strega?», chiese di punto in bianco e il viso del giovane
s’incupì.
«È
morta. I suoi parenti l’avevano spinta al suicidio per disonore».
Le
Chiavi avevano le carte giuste per sopravvivere all’interno della casa
dove si
trovava la Bestia e la Spada era la sola a poter eliminare il male.
Così aveva
proseguito a raccontarle ma Andrea si sentiva stanca e voleva solo
tornare a
casa a riposarsi. Salutò Bob, che le disse di avere una pista
sull’assassinio
di Julian, e tornò a casa guardandosi intorno come se, da un momento
all’altro,
potesse fare la stessa triste fine di suo fratello. Hugh Thomas era
convinto
che la Bestia avesse ucciso una delle Chiavi perché, senza di loro, la
Spada
non avrebbe potuto vincere. La prossima era lei. Disse che la giovane
donna era
buona ma si era sentita umiliata, e per questa ragione aveva lanciato
la
maledizione ma lasciato un modo per poterla rompere.
Si
chiuse in casa e spiò attraverso le finestre per minuti che sembravano
un’infinità, prima di essere sorpresa da suo padre, che la chiamò per
mangiare
qualcosa. Andrea passò l’intera serata a guardarsi attorno per paura di
veder
riaffiorare quel bambino o la Bestia che abitava a casa dei suoi nonni.
Si
domandava il perché avesse scelto proprio quella casa per nascondersi e
perché
lei stessa, impaurita, decise di non chiedere nulla ai suoi genitori.
Lei
era la Bussola. O così le aveva rivelato il vicesceriffo.
Indispensabile per
poter arrivare alla Bestia ma non era sicura di volerla affrontare.
Julian era
invece l’Innocenza. La Chiave dell’Innocenza avrebbe aiutato la Spada a
trovare
i punti deboli della Bestia, che sua nonna gli aveva raccontato essere
invulnerabile se non per dei dettagli. Andrea si domandava se, senza
suo
fratello, sarebbero stati comunque capaci di farcela.
Andò
a letto presto quel giorno e si coprì fino alla punta del naso,
prendendo sonno
per necessità.
Vide
ancora il piccolo con il pallone fra le braccia ma questa volta era più
sicura
che mai che fosse suo fratello Julian da bambino. Stava giocando a
pallone
sotto un filtro scuro di tenebra e Andrea, anch’essa una bambina dalle
lunghe
trecce, si accostava a lui con indecisione. Voleva salvarlo, questa
volta. Urlò
il suo nome un paio di volte ma lui non la degnava di attenzione,
proprio come
quando erano davvero bambini e giocavano distanti. Poi però, una luce
irruppe
nel sogno e una figura incappucciata corse incontro ad Andrea,
sbattendole
addosso, gettandola a terra con forza. Ritrovandosi a poco dal viso
della
figura coperta, scoprì che non era nient’altro che un bambino un po’
più grande,
ma il suo viso era tumefatto, con gli occhi l’uno diverso dall’altro e
i denti
sporgenti, dove una fine bava a lato di essi minacciava di caderle
addosso. Il
ragazzino con il cappuccio si alzò solo quando il pallone di Julian gli
finì ai
piedi e i due si fissarono intensamente, prima che Andrea si
svegliasse.
Che
quel bambino incappucciato rappresentasse la Bestia? Pensò Andrea,
rivestendosi,
quella mattina. Scese le scale per fare colazione e stava per salutare
i suoi
genitori quando si accorse di essere sola a casa, così uscì. Doveva
assolutamente rivedere Bob e parlare con lui in merito ai progressi
sulla morte
di Julian. Si guardò intorno con interesse ma sembrava che anche quel
fantasma
del passato avesse deciso di lasciarla sola, al momento. La porta della
stazione
di polizia era spalancata come tutte le mattine ma una lunga fila di
persone
entrava e usciva, mostrando i loro visi coperti di incredulità e
tristezza.
Corse gli ultimi metri quando capì che qualcosa non andava. La porta
dell’ufficio di Bob era aperta e tutti entravano e uscivano dal suo
interno; la
colpì molto una delle segretarie che piangeva a dirotto, con gli occhi
arrossati. In quel momento Andrea capì e quasi le mancò l’aria,
cercando di
divincolarsi fra la folla per raggiungere Bob. Lui era a terra, il
corpo
massacrato e il sangue schizzato ovunque all’interno delle mura del suo
ufficio.
Andrea
tremò e si sentì mancare le forze, ma proprio mentre le gambe stavano
per
cederle, due mani la mantennero in piedi e la trascinarono via, fuori
dalla stazione.
Hugh Thomas aveva il terrore negli occhi ma si manteneva
straordinariamente
lucido, mentre le viscere di Bob rimbalzavano nella testa di Andrea
come in un
vecchio film del terrore.
«Dobbiamo
ucciderla», tuonò il giovane, stringendo i pugni. «Dobbiamo trovare la
Bestia e
ucciderla. Oggi. Sappiamo chi è stato, non possiamo permetterci che
ammazzi ancora».
Sapeva
che aveva ragione ma non riusciva a pensare ad altro se non a quel
vecchio
amico di famiglia steso a pezzi sul pavimento del suo ufficio, dove per
trent’anni aveva cercato di abbattere il crimine nella sua cara Chalk.
Le
faceva male la testa, i colori cominciavano a sembrarle più forti e
quasi cadde
a terra, in un tentativo di allontanarsi dal vicesceriffo. Voleva solo
trovare
i suoi genitori e piangere fra le loro braccia; o in alternativa
accasciarsi a
terra e ripensare a tutto quel sangue. Per un attimo rivide sfocato il
piccolo
Julian che aveva iniziato a far rimbalzare il pallone, non distante da
lei, e
poi decise di correre via. Hugh Thomas non aveva avuto tempo per
fermarla. Rientrò
in casa e sbatté la porta; stava per gridare colta dalla paura ma si
fermò,
quando udì dei singhiozzi fini e leggeri che volavano nell’aria. La
voce era
indubbiamente quella di sua madre e la prima cosa che venne in mente ad
Andrea,
era che, anche loro, avevano appena saputo della morte di Bob. Trascinò
i piedi
fino alle scale che portavano alla cantina, cercando di mantenersi per
un
attimo lucida e fermando le lacrime. I suoi genitori discutevano a
bassa voce,
lì, al sicuro fra la lavatrice e gli scatoloni degli addobbi natalizi.
Perché
parlarne lì? Cos’era tutto quel mistero? Fece un passo in più verso gli
scalini
e la voce di suo padre si fece più forte di punto in bianco: «È stato
lui,
ormai non c’è più alcun dubbio! Smettila di rifiutare quest’idea».
Andrea
deglutì ed aguzzò le orecchie. Lui?
«Julian
aveva detto che…», esordì sua madre con un filo di voce appena chiaro
ma suo
padre quasi le parlò sopra, interrompendola.
«Julian
è morto! Mettitelo in testa! Ci ha mentito e lui lo ha ucciso».
La
testa le girava ancora vorticosamente e nell’intento di non cadere
dalle scale,
Andrea fece scricchiolare troppo il legno degli scalini e i suoi
genitori si
bloccarono, alzando la testa e scoprendo la figlia ad origliare.
Dopo
pochi attimi di incertezza, i signori Armell accettarono la figlia nel
loro
piccolo angolo di discussione e lei scese le scale con la gola in
fiamme. Loro
sapevano qualcosa e non le avevano mai detto nulla. E forse neppure a
Julian,
che era morto solo, con l’accusa di una bugia.
«Dobbiamo
dirti una cosa», annunciò suo padre. Andrea era certa che glielo
dicesse solo
perché temeva che avesse ormai ascoltato troppo del loro dialogo e che
era dunque
troppo tardi per tenerla all’oscuro delle cose. Sua madre abbassava lo
sguardo
con disapprovazione e si passava i denti sulle labbra con fare morboso.
Cosa
sapevano della morte di Julian? E dello sceriffo? Conoscevano anche
loro la
Bestia e la maledizione di Chalk? «Tu e Julian avevate un fratello»,
riprese
poco dopo e il cuore di Andrea si fermò, mentre spalancava i suoi
occhi. Un
fratello? Sua madre singhiozzò e scoppiò come un vulcano in eruzione,
quasi in
preda a delle urla.
«Mi
ha costretta a lasciarlo!», indicò l’uomo con furia cieca, mentre lui
stringeva
i denti e inarcava le narici, condannando l’accusa rivoltatagli. «Kit
era…
era».
«Un
mostro!», esordì nuovamente suo padre, stringendo i suoi pugni, «Era
nato
deforme, non era umano». Andrea rivide il volto del bambino
incappucciato del
suo sogno e un ricordo riaffiorò in quel preciso momento nella sua
testa, come
se potesse smuoverlo solo ora da una coltre di terra su cui era rimasto
coperto
per tutti questi anni.
Era
a casa dei suoi nonni e giocava sull’altalena, quando un bambino
coperto da un
cappuccio riuscì a superare il bosco e spalancò il cancello aperto,
fermandosi
all’entrata, guardando al di là di questa. Andrea si era fermata e
l’aveva
osservato a lungo prima di scendere e provare ad avvicinarsi a lui.
Raccolse un
fiorellino bianco fra i tanti del giardino e si avvicinò a lui con
quello fra
le dita, portandoglielo al viso, che non vedeva. Il bambino però parve
ruggire
e le sbatté contro. La nonna uscì di casa appena sentì l’urlo di Andrea
e
scacciò quel bambino, portando lei in casa. Dalla finestra, Andrea lo
vide
ritornare e prendere quel piccolo fiore che era caduto, prima di
andarsene. Kit.
Quello era suo fratello. Quella era la Bestia.
Quando
Hugh Thomas rivide Andrea riavvicinarsi alla stazione di polizia, la
prese
subito con lui e lei lo osservò rapita per attimi intensi. Aveva paura
ma era
irremovibile e avrebbe fatto di tutto per uccidere Kit. Ora la Bestia
aveva un
nome.
Gli
raccontò dei suoi genitori, immaginando che, il giovane uomo che aveva
sedotto
la strega e poi abbandonata, doveva essere suo padre allora. La
maledizione
aveva colpito da vicino la sua famiglia, rendendo uno dei loro tre
figli l’arma
della sua vendetta e gli altri due le Chiavi per fermarlo. Era orribile
come
suo padre avesse deciso di abbandonare quel bambino nato malformato
senza
battere ciglio, credendo alla maledizione lui stesso più di chiunque
altro. Lo
avevano tenuto nella cantina per tanti anni finché, alla morte dei
nonni, lo
avevano trascinato laggiù e lasciato solo, chiudendo il cancello. Gli
portavano
da mangiare ma ufficialmente avevano due figli soltanto.
«Pochi
mesi fa, tuo fratello Julian lo trovò. Disse di averlo ucciso perché
lui aveva
cercato di fare altrettanto», le aveva rivelato suo padre. «Tua madre
ed io
eravamo sollevati perché la maledizione si era sciolta… ma poi fu
Julian a
morire».
«Devo
vedere il corpo di mio fratello», espresse e Hugh Thomas impallidì.
«No!
Non c’è tempo per queste cose: non voglio svegliarmi domani mattina e
sapere
che sei morta, Andrea. Andremo ad uccidere la Bestia: adesso», replicò
lui e
impugnò la pistola, afferrandole una mano e trascinandola nel bosco. La
ragazza
decise di seguirlo e fargli strada, che se davvero era la Chiave della
Bussola
come aveva detto, lei lo avrebbe trovato, a patto, tuttavia, che uno
dei suoi
andasse a vedere il corpo di Julian. Voleva assolutamente capire
com’era morto.
Per quanto le facesse male il solo pensiero, doveva sapere se le
modalità di
uccisione erano le stesse del povero Bob. Doveva avere la certezza che
era stato
Kit ad ammazzare entrambi perché, anche se credeva alla furia omicida e
ormai
alla maledizione, quel bambino che raccolse il fiore bianco che le
voleva
donare aveva bisogno di una possibilità d’incertezza.
Vedeva
quel bambino, Julian e il suo pallone, ovunque. Camminava a passo
spedito verso
la casa dei nonni con il vicesceriffo a seguito, ma solo lei sembrava
vederlo: a
sinistra, a destra, davanti e dietro più alberi contemporaneamente. Si
sdoppiava e riappariva come una sagoma spenta e senza espressione. Si
chiedeva
se facesse parte dell’essere una delle Chiavi, l’avere le visioni. O
forse
cercava di dirle qualcosa che non riusciva ad afferrare.
Vide
il cancello e il pallone di Julian, proprio come il giorno prima, al di
là di
questo. Andrea deglutì e sentì Hugh Thomas tremare, sotto quello strato
di
fredda pelle scultorea. Il cancello era aperto e Andrea allungò una
mano,
afferrata dal giovane poco prima di toccarlo. Si spaventò e lo fissò
negli
occhi vitrei.
«Paura,
vicesceriffo?», lo canzonò.
Lui
non rispose e le lasciò andare la mano, chiedendole di proseguire.
Andrea aprì
il cancello e un rumore più simile ad un ruggito si udì all’interno
della casa,
mentre all’interno del giardino, quel Julian raccoglieva il suo
pallone.
Si
presero per mano e sorpassarono il giardino senza difficoltà. Per un
attimo,
Andrea sperava di potersi perdere in dolci ricordi d’infanzia ma il
cuore che
le batteva furioso al petto le ricordava cosa stava succedendo e che
non aveva
tempo per cose del genere; quando aprì la porta con uno scricchiolio e
vide
l’interno, capì che il suo cuore aveva ragione. L’ingresso addobbato di
quadri
d’uccellini che ricordava quando era bambina erano stati sostituiti da
un lungo
tunnel scuro: non si vedeva la fine né nient’altro che non fossero
pareti
rocciose. Un passo all’interno e la porta si chiuse, sparendo. Entrambi
tastarono con nervosismo il muro di pietra al suo posto e si guardarono
negli
occhi, sentendo in sottofondo il ruggito della Bestia.
Non
poteva essere così lontana ma ricordava la casa dei nonni molto più
piccola di
quel Labirinto di pietra. Labirinto, sì, se n’erano accorti dopo poco
con cosa
avevano a che fare: ad ogni passo che facevano, dietro Andrea si
formava un
filo argenteo e luminoso sul terreno, che ricordava loro la strada già
percorsa, mentre a sinistra e destra si disperdevano altri tantissimi e
lunghissimi tunnel. Se non fosse per la ragazza che era la Chiave della
Bussola, constava, Hugh Thomas si sarebbe certamente perso ed era
felice di non
aver mai provato ad entrare là dentro da solo. Tuttavia, il perdersi
non era
l’unico pericolo di quel luogo: si sentivano urla umane che niente
avevano a
che fare con la voce di Kit già sentita, cigolii sospetti, risate e
pianti di
bambini, qualcosa che si muoveva non distante dai due. Entrambi avevano
la
pelle d’oca e camminavano reggendosi a vicenda.
«Hai
pensato a cosa fare quando troveremo Kit?», domandò lei e lui deglutì,
tastando
con la mano libera se la pistola era ancora nella sua fondina dove
l’aveva
lasciata.
«Gli
sparo».
«Dove?
Non è invulnerabile? Non abbiamo Julian…», lasciò la frase sospesa,
irrigidendo
i suoi denti quando vide un’ombra spostarsi rapida su un muro del
Labirinto
all’altro. Si chiese se, forse, il bambino che continuava a vedere e
rappresentava suo fratello, potesse aiutarli in quello.
«Se
si rialza, troveremo un modo. Deve esserci», commentò e tacque
all’improvviso,
mentre l’aria si fece più pesante e si bloccarono, arrivando a tossire.
Una
nube densa si era nascosta in quel vicolo ed entrambi si mantennero la
gola,
come se stessero respirando veleno. La nube bruciava i loro occhi ma
Andrea,
che tentava con ogni costo di tenerli aperti, scorse di nuovo
quell’ombra e un
braccio gelato la strappò dalla stretta del ragazzo, che al tempo
stesso era
stato colpito e lo sentì rantolare al suolo. Non riusciva a parlare dal
dolore
provato e presto si sentì picchiare alle braccia, cercando di arrivare
al
volto, e tentò di coprirsi, mentre urlava dal dolore. Quando riaprì gli
occhi,
si accorse che la nube era scomparsa e che Hugh Thomas si reggeva la
testa con
le braccia, ansimando. Entrambi avevano segni di graffi ovunque e, con
fatica,
la ragazza si riaccostò a lui e cercò di tirarlo su. Erano stati
aggrediti ma
nessuno dei due sapeva ben definire da cosa. Sforzò i suoi occhi e nel
tentativo di riaprirli vide il viso di quel Julian bambino sul suo, che
la
fissava senza espressione. Lei urlò e tornò indietro due passi, mentre
il
bambino si rimetteva ritto con la schiena e fece rimbalzare il pallone,
riprendendolo
stretto fra le braccia. La bocca del piccolo si mosse, staccando un
labbro
dall’altro con fatica, come colla, creando filamenti; Andrea non riuscì
a non
fissare intensamente il buco nero dietro di esse. Il bambino sembrava
voler
parlare per la prima volta, ma il giovane vicesceriffo la prese alle
braccia e
distolse i suoi occhi arrossati, scoprendo che rivoltandosi lui era
sparito.
Si
rialzarono con fatica ma ancora non sapevano che cosa stava attendendo
loro oltre
quel Labirinto di roccia, dalle falene di rugiada che esplodevano a
contatto
con la pelle come lava, alle risate dei bambini distanti che sembravano
volerli
prendere in giro, alle urla incessanti che parevano poter far esplodere
le loro
teste, a un esercito di robottini giocattolo dalle labbra dipinte di
rossetto
rosso, che avevano inseguito i due, armati di piccole fiocine, per tre
lunghi
corridoi, rischiando di far loro riprendere strade già percorse. Il
vicesceriffo non voleva sprecare pallottole contro dei piccoli robot
guidati
alla cieca e i due non fecero altro che correre, cercando di essere più
veloci.
Una volta seminati, si accasciarono contro una parete e presero dei
gran
respiri, affaticati. Hugh Thomas vedeva la ragazza stremata e
sudaticcia,
voleva chiederle se stava bene, quando qualcosa vibrò all’interno del
suo
taschino e afferrò il cercapersone, stringendo i denti. Quasi strabuzzò
gli
occhi quando lesse il messaggio.
«Hector
è passato a vedere il corpo di Julian, come volevi…», esclamò, «non lo
ha
trovato».
«I-In
che senso? Come non lo ha trovato?».
«…
è… scomparso», i suoi occhi vibravano, increduli. Come poteva un
cadavere
scomparire all’improvviso? Chi lo aveva portato via? E dove?
Non
ebbero il tempo di guardarsi attorno che il ragazzo fu colpito di
spalle da un
corno che gli perforò la spalla. Sputò sangue, mentre Andrea,
paralizzata dal
terrore, si portò le mani alla bocca. Quando il corpo di Hugh Thomas
cadde,
dietro di lui comparve un uomo enorme, muscoloso, dalle narici gonfie e
dalla
pelle di più colori, con gli occhi diversi e i denti sporgenti. Kit, la
Bestia.
Manteneva in mano un lungo corno appuntito e ora zuppo di sangue
fresco, denso,
che gocciolava copioso. Si accostò ad Andrea ma ebbe un attimo di
esitazione,
il tempo che ci volle al vicesceriffo di impugnare la pistola e sparare
contro
quell’enorme ragazzo, che spaventato gli urlò addosso con tutto il
fiato che
possedeva, servendolo poi con un calcio.
Andrea
non sapeva cosa fare. Erano al capolinea. La Spada aveva fallito e lei
era solo
la Bussola, senza la forza necessaria né un’idea per abbatterlo. Il
fiore
bianco le ritornò alla mente e si chiese se veramente, dopotutto,
avrebbero
dovuto ucciderlo. Aveva visto con i suoi occhi la forza di cui era
capace Kit,
eppure qualcosa in lei la fermava. Era suo fratello. Il suo unico
fratello
ancora in vita e forse era sciocco desiderare di conoscerlo e di
rimediare alle
sue sofferenze ma… Quel ragazzo era davvero un mostro come lo aveva
etichettato
suo padre? Era stata davvero la maledizione della strega a renderlo
loro nemico
o erano state le sue esperienze con la vita a formarlo? Chi era davvero
quel
Kit, che le sbatté addosso con violenza ma raccolse il suo fiore?
La
Bestia l’osservò interi minuti senza muoversi, come se pensasse alla
sua
prossima mossa, iniziando poco dopo a girarle intorno e lei sbatté con
le
spalle al muro del Labirinto. Nemmeno si accorse di aver iniziato a
piangere. Hugh
Thomas le sibilò di scappare ma non riusciva a muoversi e non lo
avrebbe
lasciato lì a morire. Il Julian bambino comparve in quel momento alle
spalle di
Kit e per la prima volta, lo vide senza pallone e con un’espressione
sul volto:
era adirato. Perché Julian era arrabbiato? Perché entrambi loro avevano
fallito? Perché pensava di poter costruire qualcosa con quel Kit,
dimenticando
che era stato il suo assassino e quello di Bob? Poi le venne in mente
una cosa,
come una scintilla nel buio: quella Bestia non aveva alcuna intenzione
di farle
del male. La fissava intensamente, immobile. Insieme a quella
rivelazione, vide
dei petali bianchi scendere dallo scuro soffitto del Labirinto, come
neve. Era
stato Kit a crearli? Si ricordava del fiore bianco? E se era stato Kit
a
crearli, come? Come aveva creato il Labirinto? Come aveva creato quelle
insidie
che avevano superato prima di incontrarlo? Dei bambini che ridevano
nello
schernirli, dei giocattoli con la bocca segnata male con un po’ di
rossetto, delle
persone che li avevano picchiati… Allucinazioni. Esperienze di vita,
l’innocenza di Kit. Innocenza… Spalancò
gli occhi e tutto le corse limpido nella mente, come un vecchio film:
perché
nel suo sogno, era Julian quello nell’oscurità?
Vide
Hugh Thomas alzare il braccio e quasi premere il grilletto, ora che ce
lo aveva
davanti doveva essere più facile, ma Andrea sgranò gli occhi e gettò
Kit a
terra, sfiorando di poco il proiettile con un braccio.
«Sei
matta?», sperava di potergli gridare, con quel filo di voce. «La
Bestia… deve
morire».
«Non
è lui la Bestia! Non è lui», gli urlò e un pallone da calcio le rotolò
ai
piedi. Questa volta era certa che anche il vicesceriffo potesse vedere
quel
pallone, poiché lo seguì con lo sguardo.
«U-Ucci-Uccidere tutti», quella esaltata
voce femminile riecheggiò per il Labirinto e Kit si mantenne la testa
fra le
braccia, inchinandosi come se ne avesse timore. «Tu pensi di poterlo fermare,
ma la Bussola non può niente senza la
Spada e senza l’Innocenza che s’è perduta», rise. «E così sei solo tu, presto
morta».
Andrea
strinse i pugni e si asciugò le lacrime agli occhi. Voleva replicare ma
presto
ricomparve il piccolo Julian che non era più interessato al pallone, ma
a lei. La
bocca del bambino si spaccò e con crepe e filamenti formò un sorriso
altissimo,
scoprendo le tenebre al loro interno. Si stava pericolosamente per
avvicinare a
lei, quando una forte stretta le involse un braccio e Kit la strattonò
via,
correndo per il Labirinto.
«Fiore-bianco», continuava a ripetere,
come mosso da un sonnambulismo appena cosciente.
La
loro corsa si interruppe solo quando apparve quell’ombra alta, snella,
dai
capelli corvini. Julian. Quello vero, pensò Andrea, con nuove lacrime
agli
occhi. Suo fratello era vivo ma era cambiato, era diverso, era
malvagio. Glielo
lesse negli occhi scavati, dove solo tenebra sembrava poterci
albergare.
«Andrea»,
sussurrò lui, mostrando un tenero sorriso. La ragazza stessa stava per
commuoversi e l’idea di abbracciarlo si fece pesante, combattuta solo
dalla
lucida paura di Kit nel vederlo, che si era nascosto dietro di lei come
un
bambino.
«Cosa
gli hai fatto?», gli chiese e Julian frenò il suo entusiasmo.
«Mi
ha aiutato a inscenare la mia morte e l’ho addestrato alla Vendetta»,
sorrise
pacato. «Chalk deve pagare».
«Non
sei tu a parlare, Julian», urlò. «È lei! È lei, tu sei un ragazzo
buono».
Quella
voce femminile si rifece nitida presso le mura del Labirinto e
riecheggiò per
prenderla in giro, ricordandole che Julian era sempre stato così, che
non era
buono, ma era sempre stato il suo centro per vendicarsi del torto
subito. Lui
dopotutto non sembrava darle torto, sorridendo estasiato mentre una
manciata di
ombre avevano cominciato a colpirli e a strattonarli, gettandoli a
terra.
«Morirai, morirà,
morirete»,
ripeté
quella voce nell’aria, mentre il Julian bambino e la sua bocca
spalancata del
nero più buio si accostava con l’intento di mordere Andrea. Era finita.
Davvero, questa volta. Chalk era spacciata, squartata come il suo
povero
sceriffo ucciso nel suo ufficio. Avevano sbagliato e stavano pagando.
Non ci
sarebbe stato alcun lieto fine.
La
bocca del Julian bambino diventò enorme pronto per ingoiarla ma si
fermò,
quando le urla del vero Julian spezzarono la scena e tutto si fermò.
Kit gli
era saltato addosso e gli aveva strappato un braccio con tanta forza
che sbatté
contro una parete, svenendo. Julian rise dopo il momentaneo dolore
poiché era
sicuro della sua immortalità, ma non sapeva che Kit aveva dato appena
modo alla
Spada di trovare un punto scoperto: Hugh Thomas gli arrivò di spalle di
soppiatto e sparò così tanti colpi alla carne viva che spruzzò sangue
ovunque,
macchiando le pareti di vivido color rubino.
Andrea
restò in sospeso, osservando il corpo di suo fratello Julian che, senza
vita,
si accasciava a terra lentamente. Le parve di assisterci per
un’eternità.
Perché
doveva fare così male? Gli voleva bene, erano cresciuti distanti e
diversi, ma
voleva salvarlo, se non dalla morte, da se stesso. Non sapeva bene a
chi dare
la colpa di ciò che era successo, se al passato di suo padre, se a
quella
strega che aveva giocato con le loro vite, se a Hugh Thomas che gli
sparò così
tanti colpi da perdere il conto. Ma gli voleva bene. Per un attimo era
stata
felice di vederlo vivo tanto da poterlo anche solo toccare, ma era
stato solo
un incubo. Forse da quel momento in poi, avrebbe considerato suo
fratello
Julian come la vittima di una sfortunata serie di eventi.
Allungò
il suo sguardo a Kit, che dormiva con la testa poggiata ad una parete,
che pian
piano riprendeva il tenue castano del legno del soggiorno dei suoi
nonni. La
casa stava ritornando quella di un tempo perché Kit aveva sconfitto i
suoi
mostri.
Hugh
Thomas tossì e s’inginocchiò a terra dalla stanchezza, così lei gli
andò
incontro, pronta a reggerlo. Era messo male ma vivo.
«Pensavo…»,
mormorò lui, tentando di guardarla negli occhi, «di fare un viaggio…
Voglio
tornare a casa dai miei… Verresti con me, Andrea?».
Lei
arrossì appena, lusingata, ma osservò con la coda dell’occhio l’unico
fratello
che le era rimasto e si morsicò un labbro. «Non posso. Ho Kit adesso.
Mi
prenderò cura di lui».
Il
ragazzo ansimò e si distese a terra, in attesa dei soccorsi che aveva
chiamato
sul cercapersone. Andrea si rialzò e rivolse il suo sguardo ai mobili
antichi
dei suoi nonni ormai rotti e graffiati, segno del passato di Kit, da
solo. Si
avvicinò ad uno specchio quando vide che, appoggiato ad esso, vi era un
tenero
piccolo fiore bianco. Lui non aveva mai smesso di ricordare il loro
incontro. Lo
prese fra le dita e lo annusò, scoprendo come quell’odore le sapeva
d’infanzia.
Alzò lo sguardo e attraverso lo specchio vide rotolare un pallone da
calcio in
mezzo alla stanza. Spalancò i suoi occhi quando vide il Julian bambino
raccoglierlo e poi fissarla.
Eccomi con una breve shot!
“Chalk” in inglese
significa gesso, oppure creta. Non
è difficile capire perché abbia scelto proprio questo nome per chiamare
il
paese colpito dalla maledizione ^_^
Conosciamo tutti il
mito del Minotauro? No?
Allora… c’era una
volta (?) un re di nome Minosse,
che abitava a Creta. Un giorno, Minosse pregò il Dio del mare Poseidone
di
offrigli in dono un toro che avrebbe poi sacrificato al Dio stesso. Ma
quando
il toro giunse a corte, Minosse si accorse che era di una bellezza
inaudita e
non voleva ucciderlo, così ne sacrificò un altro. Siccome gli Déi sono
tutto
fuorché comprensivi, Poseidone s’incaz*ò non poco e inviò Eros, il Dio
dell’amore, per far innamorare Pasifae, che era la moglie di Minosse,
dello stesso
toro. E così, per attimi di estrema passione (D:) tra il toro e la
donna,
nacque un fanciullo bizzarro, metà umano e metà toro. La testa del
Minotauro
era completamente di toro e aveva istinti animali e feroci, così
Minosse decise
di rinchiudere il poverello all’interno di un labirinto per non
creargli
problemi. Tuttavia, quando il figlio di Minosse Androgeo perì ad Atene
perché
era troppo bravo nei loro giochi e gli ateniesi si sentivano un po’
presi per
il c*lo, lui decise di vendicare il povero figlio chiedendo agli stessi
di
inviare al mezzo bovino sette bambini e sette bambine ogni anno per
farlo
mangiare. Ci andava giù leggero. Così, di punto in bianco spuntò Teseo,
figlio
del re di Atene Ègeo, che si offrì volontario per far fuori la bestia.
Arianna,
figlia di Minosse e Pasifae, s’innamorò di lui, non voleva che crepasse
in
maniera orribile e l’aveva appena conosciuto, così offrì al giovane un
gomitolo
(il famoso “filo di Arianna”) per non perdersi lungo il labirinto. Una
delle
versioni del mito dice che il Minotauro era invulnerabile, così Teseo,
che non
poteva semplicemente abbatterlo con la sua spada, staccò un corno al
Minotauro
stesso e poi lo pugnalò con quello.
Non potevo riprendere
il mito pari pari, non solo
perché sarebbe stata una scelta infelice, ma perché Teseo mi è sempre
stato un
po’ antipatico, mentre ho sempre pensato che il povero Minotauro in
verità è un buono.
A suo modo. Dunque è già troppo se non ho fatto crepare Hugh Thomas,
che
“interpreta” Teseo nel mio scritto. Al contrario ho dato più risalto ad
Arianna, in questo racconto è la protagonista, Andrea. Invece che dare
un
semplice gomitolo, ho reso le cose un po’ più fighe (?) rendendola la
Bussola. Poi
ho voluto giocare con Julian e Kit, che sono entrambi sia il Minotauro
che Androgeo.
Alla fine del
racconto, Hugh Thomas parla di un
viaggio, ebbene questo c’è anche nel mito: Arianna salpa in volta di
Atene con
Teseo, solo che poi lui, come un pirla, l’abbandona su un’isola deserta
e da quel
punto in poi il destino della ragazza dipende dalle varie versioni del
mito, da
quello che la vede promessa sposa del Dio Dioniso, a quello che la vede
piangente e sola perché Teseo era cotto di un’altra. Simpatico, il tipo.
Beh, la mia versione
del mito è diversa, com’è
giusto che sia: in questo caso, lei rifiuta perché deve prendersi cura
di Kit. Tanto
i genitori sono due babbei, perciò…
Allora. Diciamo che
questo mio piccolo racconto è
una specie di “esperimento”. Normalmente, io una storia del genere
l’avrei
scritta in almeno cento paginette, con passi in più, dettagli e morti.
Una
long, non certo una shot. Sono prolissa ed è stato davvero difficile
per me
riuscire a scrivere così tanto in poco spazio! Queste sono appena nove
pagine e
mezzo.
Ebbene, questa piccola
storiella partecipa a ben
due contest; ho cercato di prendere due piccioni con una fava. Un
contest
doveva essere un horror di massimo dieci pagine di word, l’altro aveva
come
tema i miti greci, che io ho sempre adorato. Ho fuso le due cose, anche
perché
non avevo abbastanza tempo per pensare a due trame diverse se ci tenevo
a
partecipare ad entrambi.
Il contest sui miti
greci s’intitola Dal passato al
presente., ha come giudice Shinkari e si trova sul Forum di
EFP; l’altro è un
contest di un gruppo su Facebook, di artisti nottambuli. È la prima
volta che
partecipo a un contest di Shinkari, è la prima volta che partecipo a un
contest
di quel gruppo e su Facebook in generale… ed è la prima volta che tento
di
contenermi in così poche pagine! È tutto un grande esperimento °-°
Vedremo come
andrà…
Grazie per aver letto
fin qui e, se volete,
lasciatemi un parere in recensione ^_^
Chu!
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