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Ok, di questa storia sono abbastanza convinta nel senso che
a me piace sebbene mi sia leggermente bloccata e a causa dell’università non ho
molto tempo per scrivere. Quello che non so è se ai lettori piace, quindi
please, por favor, fate un piccolo sforzo e recensitemi, anche perché
in questo modo ho almeno una vaga idea se stò andando nella direzione giusta o
se è meglio fare dei cambiamenti!
III° CAPITOLO
GOCCE DI SANGUE
Misero di che
godi?
(…) di quel sangue
ogni stilla un mar di pianto(*)
“Non sei contenta? Stiamo andando nella tua terra natale”
disse Jack, una volta preso posto sull’aereo, a fianco di Savannah.
L’espressione della ragazza era inequivocabile: no, non era
contenta di ritornare in America.
“Ora che ci penso, io non so niente del tuo passato.”
“Posso dire la stessa cosa di te” rispose pronta Savannah,
con il tono serio di sempre.
Jack rise, per nulla scoraggiato dal comportamento della
collega. Oramai si era abituato ai suoi modi bruschi e, a dirla tutta, era ciò
che più lo divertiva di lei. Era una tipa tosta e non le importava cosa le
persona pensassero di lei.
“Però mi conosci” continuò Jack, sempre sorridendo. “Sai
come sono fatto e perché, non c’è bisogno di conoscere il mio passato per capire
chi sono, giusto?”
“Non è colpa mia se sei un semplicissimo libro aperto, con
tanto d’indice.”
“Cos’era, un tentativo d’insulto Savannah? Lo sai che puoi
fare di meglio” la stuzzicò.
Ecco uno dei giochetti preferiti da Joaquin Salvador, da
tutti chiamato con il diminutivo Jack: torturare e portare allo sfinimento le
persone. Niente era paragonabile alla sensazione di potere che si ottiene
innervosendo la gente. Niente, fatta eccezione per l’assassinio. Jack era un
killer nato. Non parlava per niente del suo passato, come tutti del resto, ma
per lui era diverso rispetto agli altri membri dell’agenzia. Era come se la sua
esistenza fosse cominciata dal momento in cui aveva deciso di non uccidere
Richard, accettando la sua proposta di lavorare con i Predators. Non se l’era
dimenticato il suo passato, semplicemente era poco interessante. “Perché perdere
tempo con il passato, quando nel presente ho la possibilità di essere pagato per
divertirmi?” questo era l’unico commento che si limitava a fare nei riguardi
della sua vita in Argentina. Ora uccideva e questo, per lui, era la cosa più
importante. Era quasi meglio del sesso, forse era anche meglio…sicuramente
dipendeva dalla donna!
Savannah espirò profondamente e, per la prima volta da
quando si erano messi a sedere sui seggiolini, si girò guardando gli occhi verdi
di Jack.
“Qual è il tuo segreto, tesoro?” chiese lui intrappolandola
con lo sguardo e dando un tocco di serietà alla sua espressione. “Perché non
sorridi mai?”
Savannah guardò alle spalle dell’amico, verso gli altri tre
membri dei Predators. Richard e Asriel stavano lavorando; mentre Sheril era
immersa in una specie di stato catatonico. Il loro vice soffriva di mal d’aereo
e quando era costretta a viaggiare per motivi di lavoro, si richiudeva in una
specie di barriera mentale dalla quale non usciva, fino a quando l’aereo non
toccava terra di nuovo. Nessuno, però, poteva dire con sicurezza se, realmente,
Sheril perdesse ogni contatto con il mondo o se, in realtà, ascoltava e
assorbiva tutto ciò che la circondava. Qualsiasi fosse la verità Savannah non
aveva intenzione di rischiare. Sheril era una sua collega, o per meglio dire,
era un suo superiore; ma ognuno dei Predators aveva i propri segreti.
Difficilmente uno dei cinque appariva agli altri per quello che era veramente,
fatta eccezione, forse, per Jack, la lui era un uomo strano.
“Jack, mi fai un favore?” chiese Savannah.
“Dipende tesoro, sei bene che non prometto favori a
casaccio” rispose il ragazzo.
Savannah avvicinò le labbra all’orecchio di Jack e
sussurrando il più possibile gli raccontò molte cose interessanti. Jack
ascoltava attento, di tanto in tanto annuiva leggermente, ma non osò mai
interrompere la biondina. Sapeva bene che i particolari poco approfonditi non
erano frutto di una dimenticanza.
Alla fine di quella specie di confessione, i due ragazzi si
allontanarono l’uno dall’altra.
“Va bene Savannah” disse serio lui. “Non ti prometto niente
perché per prima cosa noi lavoriamo per Richard e lui, ora, lavora per questo
Adam Smith, ma se avremo il tempo fai conto che sia già cosa fatta.”
I due si misero zitti, con le cuffie nelle orecchie ad
ascoltare un po’ di musica, senza aggiungere nemmeno una sillaba del discorso
che avevano appena terminato. Non avevano idea di quanto, in realtà avessero
fatto bene, perché quel poco che avevano detto ad alta voce, qualcuno lo aveva
recepito perfettamente.
Era vero, Sheril non amava volare. Non era una vera e
propria fobia, era più un astio che le nasceva dal ventre causandole un grosso e
vertiginoso cratere nello stomaco. L’aereo le ricordava un particolare periodo
della sua vita; era passato ma, a differenza di Jack, non riusciva proprio a
dimenticare. Al contrario della donna sicura e fascinosa che ora era, da
ragazzina era un po’ cicciotta, arrogante per difesa e imbranatissima quando
doveva mostrare i suoi sentimenti, di qualsiasi genere essi fossero. Era in
gamba, intelligente e furba ma, a volte, non sapeva come affrontare certe
situazioni; non perché fosse incapace di agire. Aveva semplicemente paura degli
altri, di sé stessa, di quello che provava; non si sentiva mai adeguata alle
situazioni e alle persone che la circondavano. Era una ragazzina segretamente
insoddisfatta. Aveva degli amici, pochi forse, ma decenti; sicuramente
imperfetti, ma capivano quando Sheril aveva bisogno di loro. All’età di
diciannove anni, dopo una serie di delusioni in campo di amicizia, era riuscita
a trovare la forza di aprirsi nuovamente, chiamando amiche un paio di ragazze
con cui aveva cominciato a stringere un legame in prima superiore! Era stato un
percorso lungo; probabilmente, un giorno, si sarebbe anche fidata, ma non aveva
fretta, per questo motivo evitava di esprimere la sua irrequietudine. In amore,
però, le cose andavano decisamente male.
Non si piaceva fisicamente, e questo la portava a vestirsi
con maglie larghe e scure; jeans di quattro taglie più grandi e capelli
perennemente legati. Scherzava e giocava con i ragazzi, si comportava da amica e
come tale era vista, con il risultato che all’ultimo anno di liceo non aveva
avuto molte esperienze e quelle poche erano finite abbastanza male. Tutto
cambiò, come in un film da quattro soldi, un pomeriggio all’aeroporto.
Era in Italia, in gita scolastica, l’ultima della sua vita
e pertanto si era ripromessa di viverla pienamente, sforzandosi, quindi, di
essere più espansiva e solare. Si stupì nel costatare che, dopo un po’, il nuovo
modo di fare le era molto più congeniale di quello che aveva previsto. No, in
realtà non doveva sorprendersi, anzi…era abbastanza scontato. La nuova Sheril
era fiorita grazie ad una cotta per un italiano, il figlio delle persone che
l’avevano ospitata. Francesco, così si chiamava, era un ragazzo, o per meglio
dire un uomo, dato che aveva trenta anni, molto simpatico. Conosceva bene
l’inglese di conseguenza tra i due non ci furono problemi di comunicazione e, di
punto in bianco, Sheril si era ritrovata a ridere ad ogni sua battuta; anche le
più ignobili scatenavano in lei le tipiche risatine infantili che spesso le
ragazze innamorate non sono capaci di evitare.
Sembrava perfetto agli occhi della giovane ragazza:
normale, non troppo bello, ma nemmeno brutto, sempre sorridente e scherzoso.
Sheril adorava vederlo ridere perché non si tratteneva. Francesco era un tipo di
persona che, quando aveva i suoi momenti di ilarità li esprimeva, senza farsi
troppi problemi. Era solito appoggiarsi una mano sullo stomaco che si muoveva a
ritmo della sua risata, mentre la testa era buttata indietro con il volto
rivolto verso l’alto e la bocca spalancata, da cui uscivano delle grosse e
grasse risate. Non faceva caso a chi lo circondava, se doveva ridere e agli
altri non andava bene potevano anche tapparsi le orecchie o voltarsi dall’altra
parte.
Aveva un unico problema che sheril non poteva considerare
un difetto, era più una sfiga tremenda…per lei. Francesco era fidanzato, con una
ragazza poco più grande di Sheril, la quale, appena saputa la notizia, aveva
cominciato ad allontanarsi, non volendo rischiare di innamorarsi inutilmente di
una persona che non le avrebbe mai detto ciò che voleva sentire. I calcoli erano
giusti, peccato che oramai era troppo tardi. Sheril pendeva dalle labbra di
Francesco, come se tutto quello che lui diceva fosse oro colato. Lei era sempre
stata un soggetto intelligente e obbiettivo, si accorse, perciò, che non era
normale sentire quel calore alle gote ogni volta che lui la guardava o giocava
con lei. Era triste sì, ma se lui era felice, infondo, andava tutto bene.
L’unica cosa che poteva fare era aspettare il viaggio di ritorno per poterlo non
rivedere più.
I problemi nacquero quando anche Francesco si rese conto di
quello che la piccola studentessa inglese provava per lui. Cominciò a
stuzzicarla; in principio si limitava a frasi relativamente innocenti, seppure a
sfondo sessuale, ma Sheril non si scandalizzava facilmente e da un certo punto
di vista, il nuovo tipo di rapporto le piaceva. Con l’andare del tempo, però, la
parte “relativamente innocente” delle provocazioni si disperse e, molto
lentamente senza che Sheril se ne rendesse conto, si ritrovò ad avere in mano la
possibilità di perdere la verginità; lei non era una ragazza che si faceva
troppi scrupoli, ma non voleva avere rapporti con un ragazzo occupato
sentimentalmente.
Non si può dire che lui non ci provò; addirittura, per
farla cedere, cominciò ad insinuare nella sua testa l’ipotesi che se Sheril si
fosse dimostrata una fidanzata più carina, dolce e accomodante, probabilmente
Francesco avrebbe rinunciato alla sua ragazza italiana per stare con lei. Tutto
questo, a patto che lei gli desse un anticipo. Ma nessuna lusinga valse a
qualche cosa. Forse era il lato pessimistico di Sheril o la sua naturale
mancanza di fiducia negli altri, stà di fatto che arrivò il giorno del viaggio
di ritorno senza che lei avesse fatto niente, eccezion fatta per un innocuo
bacio alla fragola. Veloce e indolore, sebbene non a sufficienza per evitare la
scossa elettrica dietro la schiena.
Peccato, però, che con la sfiducia connaturata, a comporre
il puzzle della personalità di Sheril c’era anche una buona dose di
romanticismo, ben nascosto, ma capace di mandare in tilt il cervello della
povera ragazza, anche solo con una frase leggermente più dolce.
Si trovava in aeroporto, lontana dai suoi compagni intenti
a scambiarsi eccitati le loro esperienze italiane. Lei, immusonita, aspettava
l’imbarco con le braccia incrociate al petto, fino a quando il cellulare le
vibrò nella tasca dei jeans troppo larghi. Sheril guardò terrorizzata il
ciondolino attaccato al telefonino; era come se avesse la premonizione di
qualche cosa di brutto. L’idea, però, di apparire una vigliacca, agli occhi di
sé stessa, la atterrì molto di più rispetto alla sensazione di qualche attimo
prima e, per tanto, tirò fuori il cellulare. Come sospettava, era un messaggio
di Francesco in cui le diceva che si trovava in aeroporto e la pregava di
raggiungerlo. Senza pensarci, come se non fosse una pazzia, Sheril si alzò,
corse dal professore e accampando la miglior scusa che le era venuta in mente,
ebbe il permesso di scendere. Poco male, in fondo era già stato annunciato un
ritardo della partenza di almeno un quarto d’ora.
Sheril corse il più rapidamente possibile, per quanto le
era consentito dai pantaloni a cavallo basso. Quando intravide Francesco da
lontano, il suo cuore cominciò a batterle forte e il brutto presentimento si
fece risentire, questa volta, però, sfogandosi sullo stomaco. Aveva la semplice
intenzione di salutarlo, dirgli addio e, possibilmente, una volta tornata a casa
dimenticarlo. Le cose, però, andarono in maniera decisamente diversa.
Appena lo raggiunse, Sheril non fece in tempo ad aprire
bocca che Francesco le prese il viso tra le mani grandi e callose da lavoratore.
Abbassandosi le soffiò sulle labbra:
“Enough talking…too many words have been
used, now it’s time for action!”
Detto questo le prese il polso destro trascinandola verso
il bagno. La lasciò solo per un secondo, il tempo per guardarsi in torno e
verificare che nessuno facesse caso a loro, per poi spingerla dentro oltre la
porta, chiudendosela dietro le spalle. La testa di Sheril era in subbuglio,
sapeva perfettamente cosa sarebbe successo di lì a poco se non avesse trovato la
forza di opporsi. Francesco cominciò ad accarezzare e baciare il suo collo. Fu
in quel momento che Sheril decise di fidarsi; in fondo, pensava, se lui non
fosse stato interessato non si sarebbe presentato in aeroporto. “Ma sì dai, in
fondo lo vuoi anche tu” pensò Sheril, persa tra i baci e le carezze. Aveva
diciannove anni ed era ancora vergine, sperava che Francesco si meritasse di
essere il primo, sperava che il loro rapporto potesse durare, superando le
distanze.
Di fatto fu una cosa spiacevole, scomoda e dolorosa. Dopo i
primi attimi di galanterie e coccole, appena Francesco percepì che Sheril non lo
avrebbe fermato, velocizzò il tutto. Si slacciò i pantaloni in un attimo,
lasciando la ragazza a bocca aperta per il brusco cambiamento di ritmo.
Accortosi che lei non faceva niente, l’italiano le mise le mani sui bottoni,
senza però, slacciarli subito.
“Mi devo fermare?”
Nella mente di Sheril apparvero i momenti in cui Francesco
la lusingava o le parlava male della sua fidanzata. Ancora una volta si disse
che era la sua possibilità e che sarebbe stato stupido perderla.
“Non ho detto niente” provò a stare sul vago.
“Appunto per questo te lo chiedo.”
Per tutta risposta, con una sicurezza che non sapeva di
possedere, spostò le mani di lui slacciandosi i pantaloni rapidamente e
lasciandoli cadere sul pavimento.
Durante il rapporto Sheril non provò il benché minimo
piacere, solo fitte di dolore che le facevano tremare le gambe. Per poco non
scoppiò a piangere dalla disperazione. Solo un pensiero la consolava: è la tua
possibilità, alla prossima andrà meglio. Alla prossima tu non sarai più vergine
e quel cavolo di imene non romperà più; alla prossima ci sarà più tempo e
preliminari più teneri, calmi e dolci. La prossima volta sarà il tuo momento, ma
per avere una prossima volta devi lasciargli il ruolo da protagonista questa
volta.
Era quello che pensava per tentare di non sentire i gemiti
soffocati di lui che, però, le rimbombavano nelle orecchie, fastidiosi ed
odiosi. Odiava quei rumori, le davano la sensazione che ciò che stava facendo
fosse dannatamente sporco e sbagliato…ma la prossima volta.
Quando, finalmente, Francesco venne e uscì, Sheril si sentì
persa. Un po’ a causa delle fitte che sentiva all’interno del suo corpo, un po’
per quel fastidioso prurito, nato dalla mancanza di soddisfazione. Sentiva che
non ci sarebbe voluto molto tempo, ma Francesco si era fermato prima. Sperava
che sarebbe stata una cosa passeggera. Sicuramente, una volta che lui l’avrebbe
presa tra le braccia, si sarebbe sentita subito meglio. Purtroppo per lei non ci
furono abbracci consolatori, né dolci parole sussurrate all’orecchio. Si limitò
a riallacciarsi i pantaloni, guardandola con un sorriso compiaciuto mentre lei
faceva altrettanto. Una volta sistemato evitò l’abbraccio di Sheril,
rivolgendosi a lei per l’ultima volta con tono canzonatorio:
“Evita di fare la bambina e non ti azzardare ad aprire
bocca su quello che è successo. Non è il caso di andare in giro a pavoneggiarsi
per una bottarella nel bagno di un aeroporto.”
Sheril ritornò mogia, mogia al suo gruppo, che subito dopo
salì sull’aereo che l’avrebbe portata via da lì. Non era più immusonita, non era
né seria né arrabbiata, era molto peggio di tutto ciò: non provava niente, si
sentiva svuotata. Per tutto il viaggio rimase zitta e, in concreto, non raccontò
a nessuno quello che aveva fatto; non c’era veramente nessun motivo per
compiacersi di essersi fatta prendere in giro. Ma il suo carattere cambiò dopo
quel giorno. Si rese conto di essere stata presa per il naso con tanta facilità
per colpa sua. Non perché era troppo stupida per capire le vere intenzioni di
Francesco, piuttosto perché era troppo inesperta.
Quel giorno mentre tornava in Inghilterra, si ripromise che
nessuno l’avrebbe mai più manipolata in quel modo; al contrario avrebbe imparato
a gestire lei le situazioni. Sarebbe stata lei a mantenere il controllo, e
questo è quello che effettivamente fece. Dimagrì; cominciò a vestirsi in maniera
più femminile; imparò a truccarsi in modo che i suoi occhi marrone chiaro
risaltassero di più, lasciando che le ciglia lunghe, ereditate dal padre
facessero il resto. Divenne un carattere più forte, si ricoprì di amici, alcuni
dei quali rimasero tali, mentre altri, affascinati dalla sua persona, divennero
qualche cosa di più. Mai nessuno, però, riuscì a catturare il suo cuore,
giocarci e spezzarlo come, invece, era riuscito a fare quel maledetto italiano
di nome Francesco.
(*) Frase tratta da “Gerusalemme liberata” di Tasso. Chiedo
venia, perché ho decisamente cambiato
il significato dei versi ma, perdonatemi, pensavo che
fosse appropriato.
Bily: intanto grazie, grazie, grazie e ancora
grazie del sostegno! In questo capitolo c’è un piccolo ritorno al passato, che
per me è molto importante per il semplice fatto che alcuni elementi sono
autobiografici e quindi i sentimenti di Sheril sono veri e spero di averli
descritti al meglio! Ma questo lo devi giudicare tu e spero che lo farai!
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