La storia che vi apprestate a leggere ha come Dovahkiin
un Argoniano: se pensate che un uomo lucertola non sia degno di essere
un mezzo drago, allora questa storia non fa per voi. Altrimenti, spero
che vi piaccia abbastanza da lasciare una recensione :).
Piuttosto che raccontare anni di battaglie campali contro i Thalmor, ho
preferito sviluppare questa storia concentrandomi sulla fine del
conflitto, usando questo primo capitolo per dare un'idea della
situazione a Tamriel dopo gli avvenimenti di Skyrim, cercando
ovviamente di attenermi il più possibile al lore. Detto questo, vi
auguro buona lettura.
"È... strano mio amato:
come se si fosse aperta
una spaccatura nel mio petto. Proprio qui, dove dovrebbe esserci il mio
cuore,
c'è invece un buco nero, freddo e vuoto."
"Rahgol."confermò
il Dovahkiin, con una
quieta voce.
Noi
evacuammo.
Memorie
di una Guardia Nera- Autore Anonimo.
C'è una città,
nascosta nelle linee
della pietra sotto le sue mani. E un castello dalle alte mura, a
custodire
solenne la città sotto di esso, illuminata da un pigro sole, velato
appena da
una curva del granito. Se chiude appena gli
occhi, gli
sembra perfino di scorgerne i campi, vicino ad una dolce collina...
Costretto a
confrontarsi con
l'inevitabile, senza vie di scampo, sua maestà imperiale principe
Attrebus II
Mede, ha un solo modo per fuggire dalla paura: astrarsi e fantasticare,
in una
caratteristica connaturata a tutti i membri della sua famiglia. Il
Principe
appare sereno agli astanti, ma solo perché gli è stato insegnato dal
suo primo
maestro di scherma, quando ancora era un giovane ragazzo, che la stirpe
imperiale dovrebbe sempre accogliere la propria morte con grazia: come
una
pietra in cui è inevitabile inciampare. Attrebus sa però, che
nonostante il suo
apparente contegno la grazia non sarà mai lontana dal suo spirito come
in quel
momento.
Una piccola mano
femminile si
sovrappose alla sua, infrangendo la sua fantasticheria di città
nascoste nella
pietra. Una mano che Attrebus conosce meglio della propria: la mano di
Silandra,
sua moglie.
Come aveva potuto
fallire in quel
modo al suo dovere più importante? Cosa ne sarebbe stato di Silandra,
che per
amore di Attrebus aveva indossato i colori imperiali, nonostante fosse
una
Blacksap e una boiche, una degli elfi
dei boschi? Era così impotente l'amore di un imperatore? Era davvero
solo
questo l'uomo che aveva invocato il Rito del Furto dei Bosmer per
poterle
donare il proprio cuore? Ma cosa avrebbe potuto
fare per
rimediare al suo fallimento, lui, ultimo discendente della linea
imperiale, ma
in fondo solo un uomo mortale?
Come aveva potuto
permettere che
accadesse?
Furono gli occhi di
Silandra che lo
costrinsero a reagire alla disperazione: di fronte a quelle iridi
castane e
dolci come il legno, Attrebus non poté almeno non provare a reagire.
Con una
lieve carezza, il principe scostò il ciuffo ribelle dalla fronte di sua
moglie,
di quei capelli tra il corallo e il miele che profumavano ancora dei
fiori
della sua patria: il loro era un matrimonio d'amore, piuttosto che di
convenienza politica; un dono raro per un imperatore, specie in quei
loro tempi
tumultuosi. Con un sospiro, Attrebus si costrinse al presente, alla
tenda che,
compreso lui stesso, ospitava cinque uomini e cinque donne.
Capi popolo, re,
imperatori, legati e
principi: ognuno dei presenti possedeva almeno uno di questi titoli.
Insieme,
loro rappresentavano la totalità delle genti schierate contro il nemico
comune,
i Thalmor, l'arrogante e tirannico ordine di elfi alti che aveva
tramato per
assoggettare tutte le genti sotto il loro dominio, per poi distruggere
ogni
cosa.
C'era rispetto tra
loro dieci,
nonostante le enormi differenze, e in alcuni casi perfino amicizia ed
amore, ma
raramente tutti loro concordavano su qualcosa allo stesso tempo:
Attrebus
credeva che quella fosse una fortuna, altrimenti la Seconda Grande
Guerra Elfica
sarebbe finita troppo presto. Quel conflitto, che durava da quasi dieci
anni,
era stato un rimedio ai vecchi rancori, messi da parte di fronte ad un
nemico
insidioso ed astuto: solo quella guerra li aveva riuniti, per la prima
volta da
troppo tempo, lenendo gli errori della loro storia passata.
Nonostante il terrore
strisciante che
tutti i presenti provano in quel momento, il fatto che non si
accusassero a
vicenda fu per l'imperatore prova di quanto salda e vera fosse la loro
alleanza:
"Cosa credi che
farà?"
chiese quietamente Attrebus alla donna rettile al suo fianco: Nascondi
Artigli
fece ticchettare le unghie sulla pietra mentre ponderava la sua
risposta
all'imperatore degli uomini.
Figlia del re di
Argonia, terza in
linea di successione al trono della radice, Nascondi Artigli era una Saxhleel, un'Argoniana dalle scaglie brune
come l'autunno e dagli occhi d'oro, alta e longilinea. Era una Sarpa, una razza degli Argoniani
contraddistinta da lunghi lembi di pelle tra i polsi e la vita, che le
permetteva
di planare nel vento: nella Palude Nera quelle "ali"
erano state il modo più nobile per spostarsi di ramo in
ramo, ma qui, nelle isole di Summerset, la patria ancestrale degli elfi
alti, erano
diventate solo un intralcio che Nascondi Artigli celava quasi sempre
sotto una
semplice stola di fine tessuto. Come Attrebus, anche l'Argoniana era
molto
giovane, ma al contrario dell'imperatore, Nascondi Artigli guidava con
sicurezza le armate con cui era emersa dalla sua palude natia: possenti
guerrieri
Naga, illusori Saxhleel, spie ed
assassini fedeli solamente a lei, che per la
prima volta erano usciti dalla Palude Nera e si erano mostrati ad
uomini ed
elfi.
Attrebus e Nascondi
Artigli erano
stati i primi membri di quel consiglio di guerra e avevano condiviso in
quegli
anni così tanto che non solo Attrebus non era più stupito dai bracciali
d'argento che Nascondi Artigli portava anche sulla lunga coda, o dal
suo semplice
gusto nel vestire, ma la familiarità tra loro era tale da aver fatto
cadere in
disuso persino il protocollo: niente più maestà imperiale e
principessa, o la
verbosa sequela di titoli. Si comprendevano intimante ormai, come fanno
gli
amici, e ad Attrebus sarebbe mancata la sua testardaggine, quando e se
Nascondi
Artigli fosse tornata alla sua patria: quel luogo venefico e
inesplorabile da
chiunque non fosse Argoniano.
"Dopo dieci anni,
questo errore
ancora si persevera...." rispose Nascondi Artigli.
Il suono della sua
voce, con la
pronuncia sibilante che non accennava a scomparire nemmeno dopo dieci
anni,
assomigliava alla sabbia che scorre sulle rocce: roca e lievemente
metallica.
"...Conosce forse il
pesce i
pensieri dell'aquila? Che cosa sa il ragno della linfa dell'albero? Il
Sangue
di Drago ed io possiamo assomigliare nella forma, ma la nostra sostanza
differisce come quella di ragno ed aquila."
"E tuttavia, tra noi
sei quella
ad essergli più vicina..." disse Silandra: non c'era amicizia tra la
consorte imperiale e la principessa scagliosa. Ognuna considerava
l'altra un
male necessario, anche se per ragioni quasi opposte.
"Su questo c'è da
dissentire,
imperatrice. Tutto ciò che mi è noto, è già stato condiviso con questo
consiglio.
Non è mai stata mia la chiave per dischiudere la natura del Sangue di
Drago, ma
solo per la restituzione dei territori della Palude Nera ai Saxhleel..."
Una concessione di
poco conto in
fondo per Attrebus: in cambio delle truppe sotto il comando di Nascondi
Artigli,
i territori conquistati dalla dinastia imperiale e le città costruite
ai
margini della Palude Nera ai tempi di Tiber Septim erano passati in
mano agli
Argoniani, con la promessa però di mantenere aperti i commerci con
l'impero
degli uomini.
"Questa Khajiit pensa
che se
fosse al posto del Sangue di Drago probabilmente mozzerebbe i nostri
arti,
aprirebbe i nostri ventri e ci lascerebbe ad una tortuosa morte..."
interloquì
Dra'Khaj Krin con una risata dall'altra parte del tavolo: Dra'Khaj
Krin, letteralmente
Ghigno del Deserto nella lingua
Khajiit.
"... ma questa
Khajiit teme che lui
abbia molta più fantasia di così." concluse con gli occhi verdi ridotti
a
due fessure.
Ribelle, terrorista
ed eroina, Dra'Khaj
Krin aveva fra tutti i presenti il passato più colorito e disonorevole,
ma come
leader di Ahzirr Traajijazeri, Coloro che
prendono giustamente con la forza, era stata un incubo per i
Thalmor anche
durante il periodo in cui Elsweyr, terra natale dei Khajiit, si era
trovata
sotto il dominio straniero.
Grazie all'inganno,
nell'anno 115
della Quarta Era i Thalmor si erano assicurati il dominio su Elsweyr,
terra di
deserti e foreste: in segreto, con un potente incantesimo avevano
nascosto le due
lune ai Khajiit. Per il popolo degli uomini gatto, che vedono nei cicli
delle
lune la sopravvivenza della loro razza, quella era stata una perdita
intollerabile, tanto da spingerli a sottomettersi ai Thalmor pur di
riavere
Masser e Secunda nel loro cielo. Per quasi un secolo, grazie a quel
falso manto
di salvatori e protettori, i Thalmor si erano assicurati la fedeltà dei
Khajiit,
fino a quando il Dovahkiin non aveva
svelato l'inganno, nascondendo il sole di Elsweyr per un giorno e dando
inizio
ufficialmente alla Seconda Grande Guerra Elfica: da quel momento,
Fusozay Var
Dar, Uccidere senza scrupoli, era
stata l'unica legge a cui i Khajiit si erano attenuti verso i Thalmor.
Personificazione di
quel desiderio di
vendetta collettivo, e rappresentante dei Khajiit in quel consiglio di
guerra,
era una Dage, una Khajiit degli
alberi, che in piedi non sarebbe arrivata all'anca di nesuno di loro,
tanto era
piccola di statura. Per di più, Dra'Khaj Krin non poteva nemmeno
alzarsi in
piedi, perché costretta dal suo ruolo e dalle usanze del suo popolo a
portare i
ciuffi di pelliccia di tutti i suoi seguaci annodati alla sua.
Tuttavia, quel
goffo insieme di pelo intrecciato, che le impediva perfino di muoversi
liberamente e richiedeva cinque uomini robusti per venire spostato,
nascondeva
appena la magia della Khajiit: c'erano più sortilegi distruttivi tra i
piccoli
artigli di Dra'Khaj Krin che in un intera città di elfi alti e anche se
i suoi
metodi erano stati disgustosi in più di un'occasione e quello stesso
consiglio
di guerra stentava a frenare il suo desiderio di vendetta, i suoi
risultati contro
i Thalmor erano stati tali da rendere impensabile cacciarla da quel
tavolo.
"La vostra sagacia è
inopportuna
in questo momento di crisi, signora dei Khajiit. O è forse con questa
vostra
sagacia che vorreste sfuggire al nostro fallimento?"
Fu Tibdan Morvain
della casa di
Redoran a parlare questa volta: un Dunmer, un elfo scuro di Morrowind.
Tibdan
era il più anziano tra tutti loro e probabilmente il più anziano di
molti
altri: pochi, perfino fra gli elfi, raggiungevano la sua veneranda età,
che non
gli aveva solo reso i capelli bianchi come la neve, ma gli aveva
persino
scolorito la pelle color cenere e gli occhi color sangue della sua
gente. Tibdan
era vecchio, oltre la definizione
stessa del termine, ed era sopravvissuto a molte altre guerre e
leggende:
Attrebus non era mai riuscito a capire cosa pensasse davvero
quell'elfo, che
manteneva un contegno riservato e rispettoso in qualunque circostanza,
preferendo il noioso, ma necessario compito di amministrare e gestire
la loro molteplice
armata piuttosto che le battaglie sul campo. Sembrava impossibile
conciliare
questa persona posata, ma severa, ai pettegolezzi che lo tacciavano di
essere
uno dei più grandi praticanti viventi della negromanzia e della
manipolazione
degli spiriti dell'Oblivion, nonostante a Morrowind simili pratiche
fossero
state proibite da molte ere.
"Questa Khajiit pensa
rispettosamente
che anche il nobile Redoran stia facendo lo stesso, mascherandosi
dietro alla
sue rughe..." rispose Dra'Khaj Krin facendo le fusa: "...Ma non siete
altrettanto abile."
Se lasciati a loro
stessi, Attrebus
sapeva che quei due avrebbero potuto cominciare una schermaglia in
piena
regola, dove, pur mantenendo un tono fermo e ossequioso, sarebbero
volati tali
insulti e minacce velate da farlo invecchiare precocemente: non c'era
amicizia
ne stima tra Dra'Khaj Krin e Tibdan.
"Cough... Cough...
Cough... Temo
che stiate dimenticando qualcosa..." li interruppe Idgrod la Giovane,
tra
un colpo di tosse e l'altro: il clima delle isole di Summerset non le
aveva
giovato affatto.
Figlia di Idgrod
Ravencrone, regina
delle regine di Skyrim, Idgrod la Giovane era una donna del Nord, ma
piuttosto
lontana dalle turbolenti e passionali personalità tipiche dei suoi
compatrioti:
donna nel fiore degli anni, Idgrod possedeva una calma saggezza
superiore alla
sua età e un animo compassionevole, uniti ad un'intuizione ed una
chiarezza di
pensiero che tutti i presenti avevano imparato a rispettare. Idgrod era
inoltre
una veggente, dote che aveva preso dalla madre ormai troppo anziana per
partecipare a qualunque guerra, e le sue profezie, spontanee ed
incontrollabili,
li avevano salvati e guidati più di una volta in quegli anni.
I guerrieri del suo
seguito, uomini e
donne che avevano seguito Idgrod in quella terra da Skyrim per sete di
battaglia e gloria, la consideravano la loro sciamana, un titolo che la
donna del
Nord aveva fatto suo con un sorriso, e anche se il clima di Summerset
aveva
indebolito il suo naturale vigore, non c'era scontro a cui la
principessa di
Skyrim non partecipasse con il suo fidato arco.
"... vi state tutti
preoccupando
della sua reazione. Ma io temo cento volte di più la madre." concluse
Idgrod con un ultimo colpo di tosse.
"Per le sabbie...
temo tu abbia
appena raddoppiato il peso dei miei anni, principessa del Nord."
gemette Azhri
Shaddam dall'altra parte del tavolo, stropicciandosi la barba bianca ed
esternando ad alta voce ciò che tutti i presenti avevano appena
realizzato.
Hel Ansei Azhri
Shaddam era la
dimostrazione che non è la propria fede personale ad essere davvero
importante
a Tamriel: ciò che importa è la divinità che si sceglie di seguire. Per
quanto
infatti il vecchio sacerdote Yokudan dalla pelle ormai cotta dal sole
indossasse solo abiti che si era fabbricato da solo, osservasse il
digiuno
settimanale assieme ai suoi guerrieri di Hammerfell e pregasse sempre
almeno tre
volte al giorno, Azhri Shaddam era a capo dell'ordine religioso devoto
al culto
di Raymon Ebonarm, Dio della guerra e compagno di tutti i guerrieri.
Hel Ansei,
Santo della Spada, era il titolo che gli era stato dato in patria per
onorarlo:
Azhri era infatti uno degli ultimi veri canta spada del suo popolo,
un'antica
arte degli Yokudan creduta persa nel succedersi delle ere. Grazie ad
essa,
Azhri Shaddam, e quelli come lui, potevano cantare all'esistenza una
spada a
partire dalla propria anima: queste lame, chiamate Shehai,
non erano comuni strumenti di morte, poiché essendo forgiate
dall'anima del guerriero che la impugnava, permettevano di superare i
limiti
del proprio corpo, dando un vigore sproporzionato a colui che riusciva
a
brandirla. Per questo, pur essendo già venerabilmente anziano per un
uomo, era
attorno ad Azhri che le famiglie nobili di Hammerfell si erano strette
durante
la loro resistenza contro i Thalmor, quando il predecessore di
Attrebus, Titus
II Mede, aveva accettato il Concordato Oro Bianco alla fine della Prima
Grande
Guerra Elfica, abbandonando al loro destino coloro che come Azhri
Shaddam non
avevano voluto piegarsi.
"Perché tremi
vecchio? Tra tutti
noi, sei quello che ha più speranze di sopravvivere." brontolò Gortwog
gro-Urdag, Orsimer delle montagne, con la sua voce bassa e cupa.
Capo di un popolo
senza patria,
Gortwog era l'unico fra loro ad indossare armi ed armature, che
sosteneva di non
togliersi nemmeno per giacère con una delle sue mogli: le sue due asce
di
oricalco gli pendevano dalla cintura, assieme al suo elmo, unica
concessione al
protocollo imperiale. Anche per un orco, Gortwog era brutto: quattro
zanne gli
sbucavano dalla labbra, e la sua pelle verdastra era butterata di
cicatrici e scorie
della fucina. Tuttavia, non c'era arma del loro esercito che prima o
poi non
fosse passata sotto le mani esperte degli Orsimer di Gortwog: solo gli
orchi infatti
sapevano riparare armi, armature e macchine d'assedio così velocemente.
Attrebus stesso aveva
dovuto imparare
che se c'era da chiudere una breccia o aprirne una nuova durante un
assedio,
era agli Orsimer che doveva rivolgersi: da sempre inoltre, la prima
linea
dell'esercito imperiale era costituita da orchi berserker, anche se in
questa
guerra, con troppi fronti aperti nello stesso tempo, barbari di Skyrim,
guerrieri di Hammerfell e Naga li
avevano affiancati con gioia.
Questo però non
significava che
Gortwog fosse fedele in modo particolare ad Attrebus o quel consiglio
di guerra:
come l'Orsimer gli aveva spiegato con i suoi modi spicci, schierarsi
contro i
Thalmor era l'unico modo per garantire la sopravvivenza della sua
gente, ormai
sparsa in piccole enclavi in tutta Tamriel: gli orchi erano un popolo
di paria e
difficilmente venivano accettati al di fuori delle loro roccaforti.
Attrebus sperava
però, che una volta
finita quella guerra la situazione potesse cambiare: era già stato
emanato un
editto che garantiva l'indipendenza alle enclavi di orchi più grandi e
l'esenzione delle tasse per le roccaforti che si reggevano da più di un
secolo
in un dato territorio. Gortwog non aveva mai commentato quelle
decisioni
dell'imperatore, ma dietro i suoi occhi color palude, la sua mente
brillante doveva
certamente approvare: altrimenti, non avrebbe mai passato così tanto
tempo ad
ascoltare e discutere senza mulinare le sue asce.
"L'adulazione non ti
si addice,
capo Gortwog: anche gli Ansei temono i draghi. Come abbiamo già
discusso in
passato, non è abbandonando il valore della propria vita che si ottiene
la
vittoria."
"Bah... questo giorno
non è
diverso dagli altri: siamo in guerra e morire fa parte delle certezze
di ogni
nostro giorno. Sarà solo molto più glorioso di quanto avessi
immaginato." rispose
l'orco.
"Solo su questo mi
sento di concordare."
ribatté Azhri con un lieve sorriso, quasi invisibile dietro la sua
barba color
delle nuvole.
"...Cielo, a volte mi
sembra di
avere a che fare con dei ragazzi alla loro prima battaglia." si lamentò
Gondard Vandergroet, con la sua voce stranamente acuta.
Vandergroet era un
Bretone grassoccio
e basso, che preferiva sempre indossare fluenti vesti da mago:
nonostante la
sua pelata incipiente e il suo doppio mento rendessero facile
sottovalutarlo,
Gondard non era in quel consiglio solo a causa della sua carica. Per
quanto
legato personale della regina di Wayrest infatti, egli era stato
all'inizio della
guerra solo uno dei tanti ambasciatori inviati dalle città- stato di
High Rock,
patria ancestrale dei Bretoni, mezz'elfi con una forte propensione per
la magia
e l'avventura. In pochissimo tempo, Vandergroet si era assicurato la
superiorità su tutti i suoi connazionali e non solo manteneva il posto
a quel
tavolo da quasi otto anni, nonostante più di un attentato alla sua vita
da
parte dei suoi stessi sottoposti ansiosi di conquistarne il prestigio,
ma in
quel consiglio la sua abilità di fare le domande più scomode era
preziosa, per
quanto forse non apprezzata a dovere.
Perfino Attrebus
rispettava Vandergroet
e in parte lo temeva perfino: aveva sempre ritenuto labile la fedeltà
di
quell'ometto strano e pieno di contraddizioni, ma esperto conoscitore
della
natura di uomini ed elfi. L'imperatore si era fatto l'idea che
l'ambasciatore
non amasse quella guerra e ne auspicasse una fine rapida e decisiva, ma
qualcosa
continuava a sfuggirgli, perché il taumaturgo ed alchimista Bretone
sembrava
sempre perseguire strani obbiettivi politici, paralleli, ma raramente
coincidenti, a quelli del loro consiglio di guerra.
"...Miei signori, ha
ancora
senso dibattere di cosa potrebbero fare il Sangue di Drago e la sua
consorte?
Non è forse molto più importante pensare a cosa potremmo fare noi,
membri di
questo consiglio?"
"Cosa proponi,
ambasciatore Vandergroet?"
chiese Nascondi Artigli.
"Dire di cominciare
arrestando
la guardia personale del Sangue di Drago..."
Il rumore del pugno
che si abbatté
sul tavolo lo zittì, mentre tutti loro si voltarono verso l'ultimo
taciturno membro
di quel Consiglio:
"Stai forse
suggerendo di
completare il nostro tradimento?" chiese una voce molto fioca.
La domanda era stata
posta senza
alcuna inflessione particolare, ma non fu un caso se Gortwog si scostò
da
Vandergroet: se Shasara si fosse avventata sull'ometto, nessuno voleva
mettersi
fra loro.
La nobile Shasara,
che aveva
rinunciato al suo cognome, era un'elfa alta, dalla pelle d'oro e dai
capelli
del colore dell'argento che le ricadevano morbidi sulla schiena: nella
sua
gioventù, Shasara era stata una delle grandi artisti del suo tempo, una
poetessa,
una scultrice e una pittrice. Ma poiché si era pronunciata in pubblico
contro
il regime dei Thalmor, ai tempi in rapida ascesa, per cento cinquanta
anni, le
decadi della sua prima giovinezza, era stata chiusa nel buio in catene,
lasciata
a marcire nelle sadiche mani dei peggiori carcerieri Altmer; e questo
nonostante lei fosse l'unica figlia vivente di sua eccellenza lord
Naarifiin, cancelliere
supremo dei Thalmor. Per un secolo e mezzo, suo padre aveva condannato
Shasara al
buio e alla miseria, fino a quando, durante la prima offensiva nelle
Isole di
Summerset, le truppe guidate dal Dovahkiin
avevano espugnato il castello
dove era stata dimenticata.
Ormai una donna tra
gli elfi, Shasara
aveva finalmente rivisto il sole.
In quel buio passato
in catene, l'elfa
aveva perduto la sua arte, trovando però qualcosa d'altro: una furia
più fredda
dell'inverno a cui attingeva senza pietà. Sfigurata dai decenni di
tortura,
Shasara si era fatta tatuare un drago sul volto, come pegno di fedeltà
verso
l'unica persona che sapesse calmare il suo animo. Shasara, la regina
d'inverno,
come era chiamata da alcuni, che dopo la sua liberazione aveva radunato
tutti i
dissidenti e i ribelli che ancora esistevano tra gli Altmer: non erano
molti,
per lo più bande di patrioti male armati che ricorrevano alla
guerriglia per
opporsi ai Thalmor, ma poiché anche il più infimo degli elfi alti è uno
stregone assai abile, erano una forza da non sottovalutare e la loro
conoscenza
del territorio delle isole di Summerset era stata senza prezzo per
Attrebus e
le forze imperiali.
L'unico occhio color
del tramonto di
Shasara era fisso su Vandergroet ora, in attesa della sua risposta:
Gondard
dovette deglutire prima di poter rispondere, ma quando lo fece, la sua
voce era
ferma:
"Io sono pronto a
fare molte
cose, nobile Shasara. Sì, sono pronto ad essere disprezzato e accusato
di
tradimento, perfino. Quello che però non sono pronto a fare è
rinunciare alle
responsabilità verso i nostri subordinati. Cosa succederà a questo
esercito se
dovesse perdere le sue dieci teste in una volta? Che ne sarà degli
uomini che
ci hanno seguito fino a qui?"
"Sei un codardo,
ambasciatore
Vandergroet?" sibilò Nascondi Artigli.
"Mi considero un uomo
pragmatico,
principessa. Credete forse che questa armata possa sopravvivere se la
sua furia
e quella delle sue guardie fossa scatenata? Abbiamo attirato sulle nostre
teste una
tempesta, ma non resterò inerme ad aspettare che il fulmine ci
colpisca..."
"Tu sottovaluti la
sua guardia, ambasciatore
Vandergroet. E ti dimostri ingrato. L'hai dimenticato? Le Guardie Nere
non
vincono le guerre, ma ne cambiano le sorti. Ci siamo affidati alla loro
forza
per anni... chi fra i nostri generali ubbidirebbe ad un simile ordine?"
"Mio signore, le
vostre Blade
potrebbero..." protestò Vandergroet.
"Per quanto l'intero
ordine
delle mie guardie personali non desideri altro che mettersi alla prova
contro
le Guardie Nere fin dal giorno in cui il Sangue di Drago le istituì, la
fedeltà
che l'ordine delle Blade mi tributa non è abbastanza da garantire la
loro
vittoria."
"Siete caduto anche
voi nel
misticismo dunque?"
"Attento Gondard..."
lo
ammonì Silandra.
"Perdonatemi mia
signora,
ma..."
"Deve essere
difficile per un
uomo come voi comprendere certe cose ambasciatore, dato quanto i vostri
compiti
vi costringano nelle retrovie..." lo interruppe quietamente Tibdan,
sorprendendoli tutti. "Ma posso assicurarvi che le storie che si
raccontano sulle Guardie Nere sono tutte vere."
"Sciocchezze."
Tibdan fece il più
piccolo dei
sorrisi, incrociando le dita sotto il mento:
"Non ho bisogno di
vederle
all'opera, per convincermene..."
"Vi facevo più
saggio... elfo." disse con Gondard con
un'espressione di disgusto sul viso.
"Ora basta
Vandergroet!" Sbraitò
l'imperatore: "Comprendo che la paura possa attanagliare anche il
vostro
spirito, ma state superando il limite: se non siete in grado di
controllare il
vostro animo, andatevene." Attrebus era forse giovane e più inesperto
di
altri, ma non era membro del consiglio solo per rappresentanza:
raramente aveva
però dovuto imporsi così violentemente su uno di loro. Sembrò che
Vandergroet
fosse stato schiaffeggiato: Attrebus sapeva che avrebbe pagato quel suo
eccesso, ma doveva assolutamente impedire alla paura del Bretone di
diffondersi.
"...Principessa
Idgrod, possiamo
forse contare su una vostra visione per mostrarci la via?" chiese
l'imperatore, prima che Vandergroet ritrovasse la parola.
"Temo di no: come
sapete vostra
maestà imperiale, esse mi vengono dai nove Dei, non posso evocarle a
mio
piacimento. E mi duole ammettere... cough cough cough... che non sono
sicura di
volere una visione in questo momento, quando la nostra situazione
appare così
disperata. Se la nostra sorte è certa, qual è il senso del cercare una
visione
profetica?"
"Allora mi resta una
sola cosa
da fare."
"Attrebus..." lo
implorò
sua moglie, aggrappandosi alla sua veste.
"L'ambasciatore
Vandergroet ha
ragione, Silandra. Dobbiamo impedire al fulmine di colpirci. Mi
assumerò la
responsabilità di questo fallimento e chiederò perdono personalmente al
Sangue
di Drago. Come recipiente del patto tra questo consiglio e lui, è
giusto che
sia solo io a ricevere la colpa."
"Molto coraggioso,
mio
signore... ma temo che non potrò permettervi di farlo da solo." disse
Azhri.
"Hel Ansei..."
"Sono davvero
desolato mio
signore, ma permette che mi spieghi. Al contrario dell'ambasciatore
Vandergroet
qui, non ho vergogna ad ammettere la mia paura: sono troppo vecchio per
cose
del genere. Ma se vi lasciassi diventare il solo bersaglio della furia
del
Sangue di Drago, se vi lasciassi diventare il nostro capro espiatorio,
allora sarei
anche un codardo. E il Drago non ama i codardi."
"Concordo con Hel
Ansei...
" disse Tibdan: "La nostra più certa via di scampo è accettare uniti
la responsabilità del fallimento. I membri di questo consiglio hanno
condiviso
la propria sorte per un tempo breve, ma sarebbe un errore separarsi
ora."
"E se anche si
scegliesse la
fuga, non esiste luogo dove un Drago non possa arrivare." sibilò
Nascondi
Artigli.
Attrebus non poté
protestare una
seconda volta, perché Idgrod lo interruppe ancor prima che pronunciasse
una
sillaba:
"Mio Imperatore...
cough cough,
vi prego: non ci ordinate di infangare il nostro onore scegliendo di
abbandonarvi in questo momento. Piuttosto che presentarmi a mia madre
con una
simile vergogna sulle spalle, preferirei... cough cough cough... senza
dubbio
la morte."
"E se davvero è
venuto il nostro
momento di cadere, marito, allora non c'è altro luogo in cui vorrei
essere."
"Vaba
Maaszi Lhajiito." miagolò Dra'Khaj Krin: "È bene
fuggire quando è necessario. Ma se non c'è luogo in cui andare, allora
questa
Khajiit attaccherà: puoi nasconderti dietro di lei, Vandergroet."
"...Temo, signora dei
Khajiit,
che il riparo che potreste offrirmi non sia abbastanza ampio." rispose
il
Bretone, passandosi una mano sul ventre sporgente.
"Significa forse che
non
intendete più fuggire?"
"Significa, mia
signora, che mi
riservo il diritto a provarci mentre il Sangue di Drago calerà su di
voi."
"Bah...dovreste
imparare ad
essere come noi Orsimer: meno attaccati alle cose mondane. Come la
vita."
interloquì Gortwog.
La risata di Dra'Khaj
Krin li stupì
tutti:
"Questa Khajiit pensa
che
avresti potuto essere un Khajiit interessante, Gortwog."
"Per la barba di
Malacath,
assolutamente no! Ho visto come vi pulite voi gatti. Disgustoso."
Per la prima volta in
quel consesso, anche
Tibdan rise: un lieve rumore secco, che l'elfo si affrettò a celare
dietro un
colpo di tosse.
Suo malgrado, anche
l'imperatore si
scoprì a sorridere: erano alle soglie del loro annientamento, ma
sembrava l'avrebbero
affrontato assieme. Attrebus ringraziò mentalmente gli Dei per questo.
"È nel momento in cui
la spada
sta per trafiggerti il cuore che il cielo sembra più azzurro." recitò
Azhri con un una luce divertita negli occhi.
"...Eloquentemente
posto, santo
del deserto." sibilò Nascondi Artigli.
Shasara invece serrò
i denti
corrugando la fronte e il drago tatuato sul suo viso sembrò chiudere le
ali:
"Voi tutti parlate
con falsa
speranza. Cercate di trovare un appiglio per non affogare nel nostro
fallimento. Di farvi coraggio, pregando sul fondo delle vostre anime
che possa
fare la differenza. Un'illusione simile non è degna di noi..." disse
con
una voce piena di rabbia e di sofferenza. I sorrisi si spensero sui
volti di
tutti mentre Shasara parlava, cercando di staccare al meglio le parole,
nonostante gli sfregi che le erano stati inferti.
"Noi non siamo
bambini che hanno
smarrito un pugno di monete che non ci appartenevano... avevamo un
compito. Un impegno
semplice e chiaro, che avevamo giurato tutti di mantenere, nel bene e
nel male.
Credete che le nostre patetiche scuse possano restituire ciò che i
Thalmor gli
hanno preso? Credete che le nostre vite possano valere qualcosa, ora?
Capite
molto poco il Dovahkiin."
Shasara stava
tremando ora,
visibilmente:
"Io maledico
la nostra debolezza. Mi ha dato tutto. Luce e vita: avrei
voluto morire prima di deluderlo. Qualunque punizione possa cadere su
di noi,
qualunque disgrazia... non sarà abbastanza."
E detto questo,
Shasara iniziò a
piangere: nemmeno il suo corpo sfregiato dalle torture e la sua anima
indurita
dal buio potevano arginare il suo rimorso. Nessuno dei presenti osò
provare a
consolarla: avrebbe loro strappato le ossa dal corpo e tuttavia, tutti
i loro
volti si fecero gravi come il suo e assieme attesero, in rispettoso
silenzio,
che succedesse qualcosa. Un ruggito o un pinnacolo di fuoco, un
messaggero
spaventato con notizie di morte: qualcosa,
che sapevano, doveva arrivare.
***
Quando accadde, non
fu un Urlo, ma
una voce umana, rassegnata ed imbarazzata. Erano solo quattordici le
persone in
tutta la loro armata che potessero interrompere una sessione di quel
consiglio
di guerra, ma Attrebus non fu stupito da chi entrò nella tenda: era
così ovvio
in fondo.
"Miei Signori...."
disse
l'uomo del Nord dopo essersi prostrato di fronte a loro: "Il capitano
delle
Guardie Nere chiede di voi." riferì senza incontrare i loro sguardi.
Il generale Hadvar
veniva da Skyrim,
e vestiva i colori della Legione Imperiale fin da prima della
ribellione di
Ulfric Manto della Tempesta. Non era il più abile dei condottieri su
cui Attrebus
potesse contare, ma Hadvar il Fortunato aveva quel soprannome per una
sua dote
unica: anche quando costretto a ritirarsi di fronte alle truppe
nemiche,
riusciva sempre a strappare un beneficio dalle sue sconfitte. Un
talento
davvero peculiare, a cui doveva probabilmente parte della sua scalata
nei
ranghi dell'esercito, oltre ad aver combattuto a Skyrim assieme al
Sangue di
Drago.
Dall'ultima volta che
Attrebus
l'aveva visto, l'aspetto del suo generale fortunato era cambiato
radicalmente: sembrava
fosse stato picchiato selvaggiamente e la sua divisa era ammaccata ed
infangata.
Lo stesso Hadvar riusciva a stento a reggersi in piedi, favorendo il
lato
destro del corpo.
"Che cosa vi è
successo,
Hadvar?"
L'uomo del Nord fece
uno stretto
sorriso dolorante, a mala pena visibile sotto il labbro spaccato e
insanguinato.
"Per il capitano
Scudo di Drago
mancavo di solerzia nell'obbedire ai suoi ordini..."
"E da quando i
capitani danno
ordini ai generali?" chiese severo Vandergroet.
Il generale del Nord
sembrò farsi un
po' più pallido mentre fissava l'ambasciatore Bretone:
"Credevo lo sapeste
mio signore:
un membro infuriato delle Guardie Nere può dare ordini anche agli
Dei..."
Angolo dell'autore:
Volendo essere del tutto sinceri, avevo questa storia in mente da
diverso tempo, e Tabula Rasa e Le Tre Spade sono state il mio tentativo
di metterla da parte: è un pezzo che desidero raccontare la sconfitta
del regime Thalmor, ma per
mancanza di tempo non sono mai riuscito a farlo prima. Spero che questa
storia vi piaccia, ed ogni recensione sarà ben accetta.
Al prossimo capitolo. |