Hiki 8.
Sono steso
sul letto, con gli
occhi chiusi e il cervello ancora attivo. Sto cercando di dormire,
anche se non ho sonno: voglio ritrovare quello che ho perso. La mia
esistenza da hikikomori si è rotta in mille pezzi. Tutta
l'impalcatura su cui si reggeva la mia vita è caduta come un
castello di carte.
Sono uscito, ho abbandonato il mio rifugio per pochi minuti e ho
guardato negli occhi due persone. Non è stato bello. Per
niente.
Avevo la nausea e le gambe mi tremavano.
È il mondo esterno.
È quella sensazione che ti fa sentire solo un verme piccolo
e
indifeso davanti a qualcosa che non si può sconfiggere in
nessun
modo.
Penso che, ora come ora, non riuscirei a proseguire tranquillamente la
mia esistenza da hikikomori. È spaventoso vedere come tutte
le
convinzioni che si sono accumulate dentro di me in un anno sono state
spazzate via nel giro di pochi minuti passati fuori dal mio universo.
Devo andare fino in fondo. Ho la paura nel cuore e il terrore negli
occhi ma non posso restare indifferente a quello che mi è
successo.
Mi ritrovo nuovamente davanti alla porta. La fisso, allungo una mano ma
poi la ritiro.
Ho paura. Sento le voci dei miei genitori. Si sono ripresi dallo schock
iniziale ed ora hanno anche chiamato Ilaria. Quel diavolo non aspettava
altro: ora ha individuato una mia debolezza, un mio errore ed
è
decisa ad approfittarne, ne sono sicuro.
Che cosa devo fare?
Fisso nuovamente la porta e, lentamente, la apro.
L'impatto non è così potente come lo era stato
circa tre
ore fa. Questa volta sono più preparato e quindi non ho
problemi
a dirigermi verso il soggiorno con un passo abbastanza spedito,
totalmente diverso da quello tremante ed insicuro della prima volta. Ma
perdo ogni sicurezza quando mi rendo conto di essere osservato.
Ci sono tre persone: i miei genitori e una ragazza che non ho mai
visto. Tutti e tre mi guardano come se fossi una sottospecie di alieno.
Sento i loro sguardi, il loro stupore, il loro sgomento. Tengo la testa
bassa, cercando di guardarli il meno possibile e avanzo verso la porta
che mi separa dal mondo.
La apro: lo faccio con calma e naturalezza, per quanto possa essere
naturale per un hikikomori uscire di casa e abbandonare così
il
guscio che lo aveva protetto per così tanto tempo.
Scendo le scale dell'appartamento pregando di non incontrare nessuno,
prendo un bel respiro ed esco.
Sono davanti alla mia più grande paura.
Il mondo.
La prima cosa che mi colpisce è la luce: essendo abituato
alla
penombra che domina la mia camera, il sole mi da parecchio
fastidio e mi costringe a mettere una mano davanti agli occhi, per
proteggerli. Cammino lentamente sul marciapiede e sento l'aria fredda
che penetra e scorre nelle mie ossa. Sono nella strada davanti al mio
appartamento. Una via abbastanza piccola ma che adesso mi pare una
distesa sconfinata ed impossibile da attraversare.
Faccio fatica a respirare: questa... questa non è la mia
aria.
È diversa, fredda, pungente. Il mio corpo trema ed io non
riesco
a farlo smettere.
Sono in preda al panico
Perché sono uscito? Perché accidenti sono uscito?
Questa
è una sfida che non posso vincere, questo è un
nemico che
non posso battere.
Inizio a sentire un po' di nausea: deve essere solo autosuggestione.
Sì, proprio così. È solo
autosuggestione. È
la mia testa che sta creando tutto questo, non c'è nessun
pericolo.
Devo stare calmo.
Provo a camminare ma mi fermo immediatamente. Sento dei passi.
Mi giro e vedo quello che non avrei mai voluto vedere.
Davanti a me c'è una signora. Si sta avvicinando sempre di
più. Ho paura.
La nausea sta aumentando. Fatico a formulare dei pensieri sensati.
Fatico anche solo a pensare.
Non capisco più niente.
La signora mi nota e capisce che c'è qualcosa di strano in
me.
"Scusi, si sente bene?" mi chiede.
Alzo lo sguardo e mi ritrovo nuovamente a fissare gli occhi di una
persona.
È orribile.
La nausea aumenta.
Ho perso il controllo del mio corpo.
Vomito.
Sono di nuovo nella mia bolla protettiva. Fisso il muro e cerco di
spegnere la mia mente, ma senza nessun risultato.
Fuori i miei genitori sono stranamente in silenzio. Forse non hanno
niente da dire. O forse vedermi vomitare in mezzo alla strada li ha
sconvolti a tal punto che non sono più capaci nemmeno di
parlare. Meglio così, meglio così. Se parlano,
litigano.
Se mi sforzo di ricordare che cos'è successo qualche ora fa
vedo
solo qualche immagine sfocata, irriconoscibile. Vedo i miei genitori
che corrono verso di me. È un ricordo vago ma sono sicuro
che
erano loro.
Me lo sarei dovuto aspettare. Non potevo veramente credere che se ne
sarebbero stati con le mani in mano mentre io uscivo per la prima volta
dopo un anno.
Forse sono svenuto. Sì, deve essere per forza andata
così. Io sono svenuto e loro mi hanno riportato nella mia
camera.
Perché?
Perché non portarmi in un ospedale?
Perché mettermi di nuovo nel mio universo?
Qui c'è di sicuro lo zampino di Ilaria. Per la prima volta
mi
ritrovo ad apprezzare una sua azione. Portare una persona come me in un
posto pieno di gente come un ospedale sarebbe stato folle. Avrebbe
fatto precipitare la mia situazione. In un certo senso, Ilaria mi ha
salvato.
Sono di nuovo un hikikomori, ma con una differenza.
So la verità.
Ed è per questo che sto piangendo.
Io non volevo diventare un hikikomori.
Quel giorno non me la sentivo di andare a scuola. I miei compagni mi
facevano paura. La scuola mi faceva paura.
Quando parlo balbetto sempre. Indipendententemente dalla situazione o
dal mio interlocutore, io balbetto.
Ho sempre preferito stare da solo piuttosto che stare con altri.
Faccio fatica a studiare e mi sono esaurito mentalmente per cercare di
migliorare, senza riuscirci.
Sono sempre stato un codardo: se qualcuno aveva bisogno di un favore,
io non mi facevo avanti per paura di sbagliare. Se vedevo un mio
compagno di classe subire atti di bullismo abbassavo la testa e mi
allontanavo perché avevo paura di eventuali ritorsioni.
Tutto questo per me era insostenibile: non vedevo un futuro, non avevo
prospettive o sogni. Non credevo nell'amore o nella felicità.
Volevo semplicemente scomparire. Rendermi invisibile agli occhi di
tutti.
Così quel giorno non sono andato a scuola.
Il giorno dopo nemmeno.
Ho passato una settimana intera chiuso in camera.
Poi due. Tre. Quattro.
Senza
che me ne accorgessi sono diventato un hikikomori.
Non mi piaceva quella vita e ho provato molte volte ad uscire durante i
periodi iniziali del mio isolamento.
Non ci sono riuscito.
Ero ormai dipendente dall'hikikomori. L'isolamento si era trasformato
in una droga: più passavano i giorni e più era
difficile per me pensare ad un possibile ritorno nel mondo esterno.
L'hikikomori crea dipendenza psicologica. Lo so e l'ho sempre saputo.
Ma se da un lato questo aspetto dell'isolamento mi spaventava,
dall'altro continuavo a vederlo come l'unica soluzione possibile.
Così ho evitato di pensarci e ho guardato sempre solo la
parte positiva dell'hikikomori.
Oggi ho visto la dura realtà.
Non guarirò.
Per affrontare il mio problema psicofarmaci e sedute di terapia non
servono a niente. La mia dipendenza è ormai ad un livello
tale da non poter essere più contrastata.
Sto piangendo.
Tutte le emozioni che erano nascoste dentro di me si stanno liberando
come un fiume in piena.
Adesso voglio dimenticarmi tutto. Voglio essere felice della mia
ignoranza. Voglio sorridere con gioia di fronte al mio dolore.
La porta è chiusa.
Le persone sono lontane da me.
Domani non cambierà niente. Dopodomani nemmeno.
Il mio mondo è racchiuso in una stanza.
Postfazione:
E così siamo giunti alla fine. Provo un senso
di malinconia in questo momento, forse dovuto al fatto che questa
storia è molto importante per me dato che ho
trattato un tema che mi è molto vicino.
Dietro questo racconto c'è un grande lavoro: mi sono
informato nel tentativo rendere la storia realistica e verosimile,
mettendo le note a fine capitolo per spiegare alcuni termini che,
magari, sono sconosciuti a chi non ha mai sentito parlare degli
hikikomori prima d'ora.
Il mio obbiettivo principale con questa storia era descrivere i
pensieri di un hikikomori in modo realistico. Tante, troppe volte vedo
i giornali italiani confondere l'hikikomori con la dipendenza da
internet. È un grandissimo errore dato che stiamo parlando
di due cose totalmente diverse.
Detto questo, ringrazio chi ha recensito la storia: mi avete dato la
spinta necessaria che mi serviva per continuare ed io non so davvero
come ringraziarvi.
Quindi grazie a chi ha letto e seguito questa storia fino alla fine.
The Sorrow.
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