I
Dreamed A Dream
Non
è che un neonato, la prima volta che quel volto appare nei
suoi sogni. Nel sonno, il piccolo Jean allunga le mani verso quella
figura sconosciuta e quasi sente di poterla sfiorare, le proprie dita
paffute sulla pelle piena di strane, piccole macchie di quel ragazzo
dal sorriso smagliante. Ma l'immagine sparisce non appena apre gli
occhi, e lo sconforto che afferra il suo cuore è tale che Jean
inizia a piangere, in attesa che la sua mamma venga a prenderlo, a
cullarlo e scacciare quella tristezza da lui.
Ma
i sogni non terminano aprendo gli occhi; ritornano, nitidi o confusi,
fatti di immagini e suoni e odori e sensazioni. Non sempre
l'ambientazione è la stessa – non lo è quasi mai,
non sempre le emozioni provate sono le stesse. L'unica costante che
accomuna tutte quelle visioni è il volto del ragazzo, a cui
Jean impara a dare un nome molto presto.
Marco,
è il suo nome, ed è la prima parola che Jean balbetta,
tra le braccia di una zia in visita per Natale. La confusione che
quella novità genera non intacca minimamente il piccolo,
impegnato a gattonare verso la finestra e a poggiarvi contro la
fronte, cantilenando quel nome tanto familiare a lui quanto
sconosciuto al resto della sua famiglia. Ma-co, Ma-co, Ma-co...
Certe
volte è un fioraio, e Jean è costretto a combattere
contro i mostri dentro di sé per poter stare con lui; l'ansia
e l'angoscia di quei sogni lo accompagnano durante il giorno, e Jean
comincia addirittura a vedere i suoi genitori come i mostri di
crudeltà che sono nei suoi sogni, nonostante non somiglino
loro minimamente. Ma concetti del genere sono difficili da capire,
quando hai cinque anni.
Ha
sette anni ed è alla terza seduta, quando lo psicologo
identifica il suo caso con un acronimo che non conosce e parole che
non comprende. DID, derealizzazione, depersonalizzazione e fuga
psicogena riempono la sua testa e portano sua madre sull'orlo delle
lacrime, e quando lo psicologo si abbassa per cercare di stabilire un
contatto, Jean si ritrae spaventato.
-
Sto cercando di aiutarti, Jean. - sorride. Affabile, caloroso. Non è
la prima volta che Jean vede quei capelli biondi e curati, né
quegli occhi di un azzurro intenso, quasi fastidioso.
-
Lei morirà da solo. - sussurra. Poi afferra il suo braccio
destro e lo stritola. - E questo le sarà portato via. -
Il
professor Erwin Smith trema impercettibilmente, pregando che né
il piccolo Kirschtein né sua madre si siano resi conti di
quell'attimo di debolezza. Nessun dubbio da parte della madre, ma gli
occhi del bambino sono pieni di una pietà surreale, quasi non
appartenente a questo mondo.
Volti
e vicende si susseguono; un prete maledetto da una divinità
antica, una guardia che lo protegge da svariati pericoli, uno
sconosciuto conosciuto in un paese lontano o la sua vittima
disegnata. Ma più di tutte queste cose, un amico. L'unico di
cui Jean ha davvero bisogno, almeno fino all'età in cui i
sogni si fanno più radi e la finzione sembra finalmente
lasciare spazio alla realtà del mondo in cui vide. Verso gli
undici anni disegnare ciò che sogna è diventato un modo
per esorcizzare gli incubi, e sua madre è solita abbandonare
post-it che puntualmente vengono riempiti di scarabocchi, di volti e
appunti e frasi che lasciano la mente di Jean e diventano realtà
su carta.
È
in prima superiore quando conosce Connie e Sasha, e non rivelare loro
che Jean li ricorda entrambi da quando ha memoria è una
tortura tale che nei giorni successivi al loro incontro riempe un
intero blocco da disegno di volti dei due ragazzi, di profili e
memorie che fanno tremendamente male. Lo brucia non appena è
in casa da solo, troppo spaventato per tenerlo.
Eppure,
realizza mentre i mesi passano e la sua amicizia con i due si fa più
solida, entrambi non sembrano minimamente sospettare di ciò
che accade nella sua mente quando il buio della notte arriva e lui
rimane solo.
Tre
anni assieme passano rapidamente. È una giornata grigia,
quella in cui Jean decide di raccontare loro la verità.
-
Quindi, uhm. - Connie è seduto sul pavimento della sua stanza,
le braccia cariche di bozze e fogli sparsi su cui Jean ha pasticciato
i propri pensieri. - Se ho capito bene, sogni questo tizio da sempre?
-
Sta
indicando il volto di Marco, disegnato a carboncino. Seduto sul bordo
del suo letto, Jean annuisce. Sasha si lascia cadere accanto a lui
sul letto; sta sfogliando un blocchetto, sinceramente interessata
alle decine e decine di volti e paesaggi che lo affollano e agli
scarabocchi appuntati ai lati dei disegni.
-
Scrivi sempre che “non è quello giusto”, ma che
diavolo significa? -
Jean
sospira, scuotendo la testa. - È difficile da spiegare. A
volte ha una cicatrice sul volto, altre volte è completamente
integro...certe notti è un fantasma, in altre condividiamo una
stanza in college che non sono nemmeno sicuro esistano realmente. Ma
non sembra mai...lui. Come se non riuscissi a capire veramente di chi
si tratti, pur conoscendolo meglio di quanto conosca me stesso. Pur
avendo visto tutto di lui. -
-
Tutto tutto? - scherza Sasha. Jean le tira una gomitata nel
fianco e lei scoppia a ridere.
-
Uh, questo mi piace un sacco! - esclama Connie; si precipita accanto
a loro e allunga alla vista di entrambi un foglio su cui Jean ha
fatto un disegno, colorato con sfumature che vanno dal lilla al blu
scuro. - Hai detto che ognuno ha una storia, no? Questo con la tuta
spaziale che storia ha? È una di quelle in cui ci siamo anche
noi? -
- Sì, è una di quelle in cui ci siete anche voi. -
conferma. - Ma è una di quelle che odio di più. Siamo
nello spazio, questa specie di...cadetti spaziali che combattono
perchè l'umanità raggiunga un nuovo pianeta su cui
vivere. E a un certo punto Marco si sacrifica per il completamento di
una missione. -
La
sua voce mentre gli dona un estremo saluto è così
impressa nella sua memoria che Jean sente le lacrime iniziare a
salirgli; restituisce il disegno a Connie con un gesto rapido e si
volta per asciugarle.
-
A me piacciono quelli in cui ha le ali. - mormora Sasha. - Gliele
disegni sempre di due colori diverse, una chiara e una scura. Sono
quelli in cui lo disegni meglio. -
Jean
si trattiene dal commentare che le volte in cui lo ha disegnato così
sono anche le volte in cui si è svegliato da incubi in cui non
esistevano immagini, solo un buio senza fine e urla provenienti da
ogni dove. Si trattiene anche dal dirle che quelli sono gli incubi in
cui sente di essere più vicino alla verità su Marco, se
una verità esiste.
-
E allora. - Connie sorride perfido. - Io e Sasha, in questi sogni,
come ce la caviamo? -
Jean
raccoglie alcuni fogli e li riordina poggiandoli sulle sue gambe. -
Siete sposati e con una ciurma di figli al seguito, la maggior parte
delle volte. - rivela, e vedere il sorriso cadere quasi letteralmente
dal volto di Connie è uno spettacolo tanto esilarante che Jean
si pente di non avergliene parlato prima. Sia lui che Sasha si alzano
in piedi ed emettono suoni disgustati, scrollandosi di dosso l'idea
come se questa li avesse infettati.
-
Non dirmi che sposerò la ragazza patata! -
-
Non dirmi che sposerò un nano calvo! -
-
Non sono calvo, Sash! Io mi raso, e tu sei un buco nero con le tette!
-
È
felice che nessuno dei due abbia messo in dubbio la sua sanità
mentale. Non potrebbe desiderare amici migliori.
Quasi.
*
* *
I
sogni si fanno tanto radi che per Jean non sono quasi più un
problema; durante il periodo tra i suoi diciotto e ventun'anni si
sveglia sudato e spaventato solamente una decina di volte, il tempo
tra un sogno all'altro si prolunga sempre più. E poi, durante
il settembre dei suoi ventidue anni, tutti loro tornano
all'improvviso, più intensi e realistici che mai.
Non
li ha mai detestati veramente fino ad allora; in qualche modo, la
presenza di Marco nella sua vita è sempre stata un'ancora.
Terribilmente sfuggevole, ma pur sempre un'ancora.
Ma
ora come ora i sogni hanno lasciato spazio agli incubi, e i mostri
che gli fanno visita la notte lo tormentano tanto che dormire diventa
una maledizione, qualcosa a cui sfuggire. Si ritrova a telefonare a
Connie o Sasha, alcune di queste notti, ma sono entrambi occupati con
le rispettive università e nonostante cerchino di stargli
accanto, una telefonata non è abbastanza. Il suo tormento si
prolunga per tutto il giorno – caffè, pisolini in
classe, considerazioni sul tornare a casa o sul rivolgersi nuovamente
a uno psicologo.
È
seduto su una panchina della stazione di Stohess, impegnato a cercare
il numero del Dr. Smith su internet, quando qualcosa cambia. Jean
alza lo sguardo guardandosi attorno freneticamente, perchè il
suo cuore ha preso a battere all'impazzata senza motivo ed è
una sensazione tanto familiare quanto mai provata; mai durante il
giorno.
C'è
qualcosa che non va, in mezzo alle decine di volti di pendolari che
attendono l'arrivo del proprio treno. Qualcosa fuori posto. Jean fa
scivolare il proprio cellulare in tasca e inizia a guardare bene in
mezzo alla folla, eccitato senza alcuna ragione apparente. Una madre
con un passeggino chiacchera al telefono, una decina di uomini in
giacca e cravatta conversano, e innumerevoli studenti universitari
sono impegnati a rimanere svegli nonostante le ore terribili appena
passate senza crollare sui binari.
Un
enorme ragazzo biondo si scosta appena, e il cuore di Jean si ferma
letteralmente. Con la sua figura massiccia, il ragazzo nascondeva
quello che a giudicare dal modo in cui gli sorride dev'essere un suo
amico, e che per Jean è il volto che meglio conosce in tutto
il mondo.
Lacrime
gli riempono gli occhi, incapaci di essere trattenute; Jean sente di
star tremando in maniera tremenda, tanto che sente su di sé
gli sguardi di almeno un paio di passanti preoccupati. Un singulto
gli si strozza in gola, mentre lo sguardo rimane fisso e sconvolto
sul volto perfetto di Marco, Marco che non può essere vero,
non può esistere, non può semplicemente essere a una
decina di metri da lui è solo qualcuno che gli somiglia non
è VERO...
-
Marco! Reiner! - un ragazzo moro gli corre accanto, quasi spingendolo
nel processo. Al solo udire quel nome pronunciato da qualcun altro –
qualcuno che non sa dei suoi sogni, qualcuno che conosce il ragazzo
coi capelli neri come una persona reale e non la fantasia malata di
un bambino con problemi psichiatrici – Jean si sente nudo,
derubato di qualcosa di suo. Avvicinarsi e parlargli è
impensabile; cosa potrebbe dirgli, come potrebbe approciarlo? È
tutto così schifosamente assurdo, impossibile da concepire.
Deve
svegliarsi.
Deve
scappare.
Quella
notte, Jean sogna di affrontare le ire di un uomo che riconosce come
il suo insegnante di educazione fisica delle medie – il
professor Shadis, solo vestito in maniera a dir poco esilarante: un
lungo cappotto marrone e sotto di esso una alquanto improbabile
divisa militare, con un numero indefinito di lacci e fibbie inutili.
Anche Marco è conciato così, si accorge; e anche lui.
Marco
non si volta verso di lui, impegnato a rispondere alle urla del
professor Shadis senza perdere la propria positività. Anche
lui indossa la stupida divisa, senza il cappotto.
È
la prima volta che sogna questo universo.
Non
può evitare di dirigersi tutti i giorni alla stazione, e non
può evitare di cercare gli occhi nocciola del ragazzo nella
folla ogni giorno. Il suo cuore si fa pesante ogni volta che lo
trova, ma non può farne a meno. Non ha mai potuto.
I
sogni hanno cessato di essere violenti e cruenti, trasformatisi in
episodi di vita di due giovani soldati in addestramento. Durante il
giorno, Marco legge e studia attento i propri appunti chiedendo al
ragazzo moro di non dargli fastidio; la notte, Marco si siede accanto
a lui in una sala mensa e si presenta. Marco lascia che un ragazzo
altissimo gli acconci i capelli con una molletta rubata a una delle
due ragazze del gruppo e ride del risultato, Marco assembla attento
le parti meccaniche di uno qualche strumento. Marco discute di un
film appena uscito assieme a quello che sembra essere il ragazzo più
legato a lui nel gruppo, un ragazzo basso e biondo, Marco si avvicina
a lui in cerca di un calore che il freddo delle baracche in cui
dormono non può dargli e lo trova, tra le sue labbra e le sue
braccia...
La
realtà si mescola alla finzione come mai prima d'ora, ma Jean
è troppo spaventato per rivelare a chiunque cosa stia
succedendo, men che meno avvicinarsi a Marco e parlargli di persona.
Non frequenta la sua facoltà, sembra non esistere al di fuori
di quella stazione, i suoi amici non sono rintracciabili e comunque
non riuscirebbe a parlare con nessuno di loro. Dubbi e paure tornano
ad attanagliarlo, e Jean smette persino di disegnare, preferendo
passare le ore a fissare il foglio vuoto, interrogandosi sul da
farsi.
Una
notte sogna di camminare tra strade che conosce fin troppo bene,
quelle della città in cui è nato. Qualcosa sembra
nuovamente essere fuori posto, una sensazione che non riesce a
comprendere appieno; è confuso, spaventato da ciò che
lo circonda, dai cambiamenti di luoghi che dovrebbe conoscere.
Immagini di una cruenza indefinibile fanno capolino nei suoi ricordi,
ma Jean le scaccia, voltando l'angolo e appoggiandosi al muro in
cerca di stabilità.
C'è
qualcuno accasciato per terra, a una ventina di metri da lui; Jean
non ha bisogno di avvicinarsi per riconoscere quel profilo. - Marco!
- ansima, aumentando la rapidità del proprio passo e
avvicinandosi al ragazzo.
Rallenta,
così come rallenta il battito del suo cuore, nel momento in
cui si rende conto che lo sguardo caldo di Marco sta fissando il
vuoto. Rallenta, perchè in qualche modo sa che appena sarà
abbastanza vicino scoprirà che la parte destra del volto e il
braccio del ragazzo sono stati strappati via da una minaccia che Jean
non ha mai considerato reale; rallenta, perchè il suo sorriso
è una smorfia tetra, e c'è un odore nauseabondo che gli
provoca conati di vomito, e ci sono mosche che stanno ronzandogli
attorno cristo santo tutto questo è un incubo deve
svegliarsi deve solamente svegliarsi e raggiungerlo, lui capirà...
Riesce
ad aprire gli occhi un attimo prima di arrivare a lui – al suo
cadavere. Anni e anni di incubi lo hanno abituato a svegliarsi
rapidamente, ma nulla, nulla avrebbe potuto prepararlo a
quell'orrenda visione. Jean getta le coperte di lato e fa appena in
tempo a raggiungere il bagno prima che la nausea lo assalga e
l'acidità risalga violentemente su per la sua gola. Lacrime
vanno ad offuscargli la vista e il dolore allo stomaco è
insopportabile, ma Jean cerca di non pensare ad entrambi.
Deve
parlare con Marco. Deve risolvere la questione, che vada bene o male
non gli importa più.
Deve
svegliarsi.
Il
giorno dopo, Marco non c'è.
La
cosa non lo preoccuperebbe se non avesse passato l'intera mattinata a
cercare di togliersi quella testa ricordi di corpi mutilati e denti
esposti e insetti. La cosa continuerebbe a preoccuparlo, se
una volta arrivato al punto in cui da solito trova Marco e la sua
compagnia non vi fossero solamente il ragazzo alto dai capelli neri e
quello muscoloso, entrambi in lacrime.
-
Devi farti forza, Reiner. - sussurra quello alto, un braccio stretto
attorno alle spalle di Reiner e il volto vicino a quello dell'altro,
che singhiozza molto più rumorosamente di lui. - Se la
caverà... sai che lo farà. -
-
C'era così tanto sangue, Bert! - Reiner lascia che Bert lo
avvolga in un abbraccio. - Così tanto s-sangue... -
Un
tonfo sordo alle loro spalle li fa voltare entrambi; trovano Jean
accasciato a terra, un'espressione indecifrabile sul volto. - Dov'è
Marco? - mormora. Non gli importa di suonare come un folle: desidera
solamente aver capito male. Non è possibile. Non anche qui.
Reiner
tira su col naso. - Sei un suo amico? - chiede; Jean è svelto
ad annuire. - C'è stato un incidente, ieri notte, mentre
tornavamo a casa da un locale. Una macchina gli è venuta
addosso, non so come diavolo abbia fatto a non vederlo, c'erano
lampioni ovunque... Mio dio, è tutta colpa mia. -
-
Non lo è! - Bert si reintromette, tornando a stringerlo. - Non
dirlo nemmeno per scherzo, Reiner. Non hai fatto nulla! -
-
Non ho nemmeno av...avuto la forza di seguirlo in ospedale! - Reiner
torna a singhiozzare, aggrappandosi a Bertholdt con tutte le sue
forze. Bertholdt. Come diavolo fa Jean a sapere che il suo
nome completo è Bertholdt? Non ne ha idea, ma è così
istintivo associare i volti dei due a ricordi che non sapeva di
possedere, all'improvviso sembra tutto così reale...
-
Devo sapere se sta bene. -
Jean
è di nuovo in piedi, è di nuovo lucido. Per qualche
motivo non riesce, non può permettersi di abbandonarsi alle
lacrime come Reiner, che lo fissa sconvolto.
-
Lo hanno portato al Saint Sina, sua sorella e sua cognata sono lì
con lui. - riesce ad articolare. - Io non credo che... -
È
troppo tardi per fermarlo; Jean si è già voltato, sta
gia correndo fuori dalla stazione, nel freddo autunnale che non sente
minimamente. È avvolto da un calore innaturale, circondato da
frammenti di cenere che cadono lentamente e scompaiono sulla
pavimentazione – cenere che non dovrebbe esistere, che non
dovrebbe essere lì, ma lui può vederla e non comprende
il perchè. Volti sconosciuti tornano familiari, palazzi
moderni e architetture medioevali si mescolano e più di una
volta Jean è costretto a interrompere la sua corsa per
sfregarsi gli occhi e assicurarsi di rimanere saldo alla realtà
che va disfacendosi.
Deve
SVEGLIARSI.
Raggiungere
l'ospedale si rivela un'impresa non da poco, ma all'interno le
visioni sembrano tranquillizzarsi; il nome che riferisce
all'infermiera esce naturale – Marco Bodt. Non ha mai saputo il
suo cognome, ma lo ha pronunciato prima ancora di pensarci.
-
Terzo piano, stanza 204. È un parente? -
-
Un amico. - la corregge Jean, il fiato corto a causa della corsa.
Cerca di darsi un contegno, prima di dirigersi all'ascensore e
infilarvisi dentro, premendo sul bottone del terzo piano e attendendo
che questo si chiuda alle sue spalle.
La
salita è estenuantemente lenta e il ragazzo è tentato
più di una volta di fermare l'ascensore e tornare giù –
come può presentarsi alla sorella di Marco e dirgli ciao, non
conosco tuo fratello di persona ma tormenta la mia psiche da quando
ero nella culla?
Prima
che possa ripensarci seriamente, le porte dell'ascensore si aprono e
una spilungona dalla carnagione olivastra in attesa entra dentro; ha
due grosse borse sotto gli occhi e trema impercettibilmente. Jean
rimane a fissarla per qualche attimo, prima che anche a lei ricambi
lo sguardo e impallidisca visibilmente.
-
Ymir. - mormora Jean.
-
Tu! - risponde lei; lo afferra per il bavero della maglietta e lo
trascina fuori dalla cabina, spingendolo senza alcuna attenzione
contro il muro e urlandogli contro. - Come cazzo puoi essere qui?
Come cazzo ti permetti di presentarti qui ora? -
-
Ymir! - una voce delicata interrompe quel poco delicato incontro, e
Ymir lo molla; una ragazza bionda sta correndo loro incontro.
Guardando i suoi lineamenti dolci, Jean riesce ad associarle due nomi
differenti – non è sicuro su quale sia quello vero e
quale quello falso, e non ha molto tempo per pensarci, mentre si alza
per recuperare il fiato. Anche la nuova arrivata lo fissa sconvolta.
-
Jean. - sussurra. - Tu sei...Jean? -
Non
si pena di rispondere; a giudicare dalla reazione di Ymir, è
una domanda retorica. - Marco sta bene? - chiede; Ymir e Christa –
o Historia – si lanciano uno sguardo.
-
Non so come tu possa essere vero, - inizia Ymir. - Ma non ho il tempo
di pensarci. Marco è di là, sta bene e sta
riposand...ehi! Fermati! -
È
la seconda volta che Jean sfugge a un divieto di avvicinarsi a
qualcosa che ha inseguito per tutta una vita in poche ore (per
qualche motivo non molto chiaro, scappare dalle grinfie di Ymir è
molto più soddisfacente che allontanarsi da Reiner); lo sprint
frenetico fino alla stanza segnata come la 204 è troppo
irruento perchè lui si fermi all'ingresso e rallenti la corsa,
e Jean barcolla all'interno della stanza d'ospedale, colpendo un
tavolino e facendo crollare bottiglie d'acqua e gallette di riso su
tutto il pavimento. - Merda. Cazzo. Oh, porca troia. - sibila,
raccogliendo il casino combinato nella speranza che nessuna delle
infermiere di turno se ne sia accorta. Si volta verso la porta –
il corridoio è vuoto – e poi verso l'unico letto
occupato della camera. E a quel punto le sue braccia si fanno molli,
e bottiglie e gallette ricascano a terra.
Marco
ha il braccio destro ingessato, una fasciatura su tutto il petto e
una sulla testa. Ciuffi neri di capelli sfuggono alle bende sul suo
capo in una maniera terribilmente adorabile, e alcuni di essi sono
abbastanza lunghi da sfiorare i suoi occhi spalancati che lo fissano.
Non si muove – sembra quasi non respirare nemmeno, e anche Jean
non è sicuro che il suo corpo stia funzionando bene, in quel
momento. È Marco il primo a parlare. Lo è sempre stato.
-
Questo incontro me lo sono sempre immaginato diverso. -
Jean
si fa spazio tra tra il disastro che ha combinato sul pavimento;
lentamente, quasi con reverenza, e senza che gli sguardi suoi e di
Marco smettano di seguirsi a vicenda, si siede sulla sedia accanto al
suo letto e rimane a fissarlo. - Diverso. - sussurra. - Tipo, come? -
-
Uhm, non saprei. - Marco sorride, ed è come se un universo
fatto di colori caldi e felicità si aprisse a Jean, per la
prima volta in vent'anni di vita. È così bello da
commuoverlo. - Meno...casinista. -
-
Oh, quello. Credo sia un'abitudine. - si gratta il collo,
imbarazzato, e torna a fissarlo. Gli occhi di Marco hanno un forma
dolce, quasi cadente. E si stanno riempendo rapidamente di lacrime,
nonostante il suo sorriso non abbia vacillato minimamente da quando è
comparso.
-
Sei veramente tu? - singhiozza; si porta a fatica la mano del braccio
non ferito alle labbra, cercando di trattenere inutilmente di
balbettare. - Ti sogno da sempre. Ho parlato a mia sorella di te, ne ho parlato ai miei genitori. Come puoi essere reale? -
Jean
non è sicuro sulla risposta che dovrebbe dare. Lo guarda
tremando, mentre la sua mano si posa lenta sul bordo del lettino
d'ospedale. - Non lo so. - ammette. - Non so nulla. Ho paura che se
mi sfiorerai scomparirò. -
Non
lo fa; la mano di Marco è rapida a calare dal suo volto e
raggiungere la sua e stringerla con una forza che un malato non
dovrebbe possedere, una forza dettata dalla stessa disperazione che
ha guidato Jean per un'intera esistenza. La stessa disperazione che
lo spinge a stringere a sua volta, e a portare le dita di Marco verso
le sue labbra, a posarvi sopra le proprie labbra. E per la prima
volta, mentre lo fa, si chiede realmente se sia la prima volta che le
loro mani entrano in contatto in quella maniera tanto intima. Si
chiede se ciò che ha visto per così tanto non sia
reale, e quante vite e esistenze lui e Marco siano stati costretti a
vivere assieme, mai in grado di trovarsi veramente.
È
come se avessero appena finito di correre una maratona che dura da
eoni, pensa, tornando a fissarlo in volto – un volto integro,
un po' ammaccato dall'incidente della sera prima, ma comunque
integro. Un volto da baciare fino allo sfinimento.
Come
se avesse letto nei suoi pensieri, Marco si china avanti a fatica, e
Jean gli risparmia quello sforzo alzandosi dalla sedia e chinandosi a
far sfiorare le loro labbra. È così intimo; è
così naturale.
Le
loro dita non si separano per molto tempo, dopo quel bacio; i loro
sguardi sembrano non saziarsi mai, e un unico pensiero felice sembra
legarli entrambi a quel posto, a quel momento, a quella vita.
Non
importa quante e quali vite abbiano vissuto assieme; questa volta è
quella giusta. Questa volta è quella giusta.
Ok,
devo prendere un respiro luuuuungo perchè sono sette giorni
che scrivo non-stop e mio dio non ci credo. Ce l'ho fatta. CE L'HO
FATTA. Mi sento come il tizio della pubblicità dell'Amaro
Montenegro. MIO. DIO.
Ok,
ringraziamenti seri. Posso farcela.
Voglio
e devo ringraziare la mia bellissima, meravigliosa e pazza squadra di
sostenitrici; è composta da persone di un talento immenso, a
cui voglio bene come delle sorelle. E quindi grazie ad Andrea,
Giulia, Gaia (la mia prima kohai!), Clara, Sara, Elena, ancora Gaia,
Elisa, Claudia e tutte quelle persone che durante questa JeanMarco
Week mi hanno scritto su EFP o Tumblr o Facebook, sostenendomi,
condividendo le mie storie e dandomi idee, spunti, incitandomi con i
loro lavori e aiutandomi in modo incredibile. Non ho idea di come
ringraziarvi; non lo farò mai abbastanza.
Un ringraziamento in generale va anche al fandom JeanMarco americano, per aver creato le opere che ho voluto citare in questo omaggio - sono curiosa di sapere quante e quali avete colto!
Questa
storia è la conclusione di un'esperienza che mi ha cresciuta
dal punto di vista della produzione – so che non tutte le
storie hanno avuto la stessa qualità, ma penso di aver
comunque cercato di dare il meglio di me, sempre.
Un
ringraziamento a parte – nonostante tu sia già nella
lista, eh eh – va alla mia kohai Gaia, senza la quale questa
storia avrebbe un finale moscio e molto, molto triste. Kohai adorata,
spero che questa storia soddisfi le tue aspettative. Ricordati sempre
di sorridere, perchè non sei da sola. E grazie. SEMPRE,
INFINITAMENTE GRAZIE.
Smetto
di cianciare e me ne vado, ora; spero vorrete farmi sapere cosa
pensate della giornata finale di questa piccola fatica personale, qui
su EFP come nei miei altri contatti – che metterò dopo
la firma - , e sotto forma di complimento come di critica. Lo
apprezzerei veramente.
Grazie
di aver letto, e alla prossima.
-Joice
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