Sesshomaru guardò nell’acqua
verdastra dello stagno il riflesso scolorito dal sole di mezzogiorno della sua
virilità. Nello specchio vide la sua sagoma monca disegnarsi come una nuvola
distorta dall’acqua che si piegava in onde rotonde come la risata di una
ragazza sciocca.
E provò rabbia, e vergogna di sé….
Non si era mai soffermato a
guardare il suo corpo nel dettaglio, e l’immagine che la fonte gli restituì
finì per turbarlo. La pelle chiara come latte assumeva, nella luce tagliente
verde e azzurra, maculata dell’ombra degli alberi, un colorito alieno, come di
corpo dissanguato. La ripugnanza che provò a
quella vista suonò nuova al suo orecchio, e sconosciuta alla sua lingua. La
vista di ciò che negli uomini e nelle bestie lo disgustava non gli aveva mai
provocato dolore; di fronte al riflesso della sua persona pallida, martoriata
dalle cicatrici e storpiata dalla mutilazione un brivido denso come un sussulto
della terra gli assalì il corpo e l’anima, risalendo a morsi impietosi su per
le caviglie e scendendo lungo la schiena, attanagliandogli il ventre in una
stretta formidabile. Come a proteggersi da quei colpi sferrati dal suo interno
si piegò su se stesso, e inavvertitamente poggiò le dita sulla pelle
raggrinzita attorno al braccio mozzato poco sopra al gomito, il braccio mutilato
che ogni tanto sentiva muoversi con un riflesso incondizionato sotto la seta del
kimono, nello slancio di seguire i movimenti del suo speculare destro. Reprimeva
quegli scatti muscolari con disgusto, e nella sua mente si formava, subdola,
l’immagine di un parassita, un verme a forma di moncherino che pendeva dalla
sua spalla, un’ospite scomodo di cui non riusciva a liberarsi. Solo toccandolo
davanti alla veridicità innegabile del suo riflesso nell’acqua che lo
toccava, arrivò per la prima volta a concepire davvero quel cilindro livido di
carne e di ossa come una parte del suo corpo, al pari del suo braccio sinistro
intatto.
E per la prima volta nei suoi
cento e più anni di impeccabili silenzi, l’annientamento del suo orgoglio gli
restituì l’immagine più nitida di se stesso che poteva sperare di ottenere,
spoglia di aspettative, di opinioni stagnanti e trabocchetti di menzogne
preconcette. Guardandosi nel riflesso impietoso delle acque, turbate solo dalle
gocce che cadevano dai suoi capelli bagnati, vide la nuvola amorfa schiarirsi e
ricomporsi nel mosaico delle sue cento e più cicatrici di guerra, una rete
indistricabile di colpi e contraccolpi, in cui il suo corpo non era avvolto, no,
ma su quella rete si stendeva come una tenda, come le mura di una casa sulle sue
fondamenta. E nella lucidità asettica di quell’istante, comprese come solo i
segni delle percosse e delle umiliazioni subite posso misurare la vita realmente
vissuta, e che senza quella misura non poteva affermare di aver vissuto uno solo
dei suoi cento e ancora cento anni, o di conoscere la sua stessa natura. Con una
lentezza amara, si raccolse nella carezza umida dell’acqua e dei capelli
chiari che lo coprivano come un velo, con il braccio ripudiato stretto sopra il
petto, a proteggere l’embrione di quella sua nuova consapevolezza.
Uscì dall’acqua a passi
lenti, ignorando le onde che ridevano del passaggio delle sue gambe di gesso, i
pesanti armamenti appoggiati sulla riva, le fasce colorate…. Lentamente si avvolse nella seta
bianca e rossa, e si nascose come una bestia ferita tra le fronde della riva. Da
lì poteva vedere chiaramente la superficie del laghetto incresparsi in onde
leggere con ogni soffio della
brezza. |