REGALO
PER NATALE
Lei ci cadde sulla testa come la neve a febbraio
o lo shampoo dopo una partita di calcetto.
Fino a quel momento avevamo vissuto in silenzio ogni giro di lancette
del nostro quadrante.
Alberto ed io, due amici incorruttibili ed invidiabili: più
acqua santa che sangue nelle nostre vene.
Ma da allora sarebbe cambiato tutto fra noi, ed entrambi capimmo subito
questa brusca inversione di marcia.
Lei era ridente, dotata di una bellezza fresca ed irraggiungibile.
Fuggente ad ogni sguardo, anticipava ogni nostra mossa ed ogni nostro
pensiero. Tranne quelli più… indicibili.
Non era importante il nome – che immediatamente si
convertì in pura musica per le nostre orecchie –
né le misteriosa origine: nessuno l’aveva mai
vista, nessuno ne aveva mai sentito parlare, eppure quel poco che
sapevamo di lei ci bastava. Ed era anche troppo, a pensarci bene.
Era un po’ come un libro mai aperto, affascinante a tal punto
dal non volerlo neppure leggere. Però entrambi avremmo
voluto dargli un ruolo centrale nelle nostre librerie. Sta di fatto che
era una copia unica ed irripetibile.
Da bravi ragazzi cresciuti con pochi riguardi per le cortesie, non
lesinammo affatto quelle leziose maniere di presentarsi e di offrirci a
lei che fanno dell’uomo un servo.
Insomma, eravamo un po’ come due vestiti indossati
l’uno sopra l’altro. Goffi, ma sinceri.
Alberto molto più meticoloso di me nella scelta di aggettivi
per descriverne gli occhi unici. Io molto più furbo di
Alberto nello stare al gioco di sguardi che lei compiaciuta ci lanciava.
Alberto, del resto, è sempre stato più poeta di
me, ma io sono da par mio sempre stato più prosaico e
pragmatico di lui. Sta di fatto che, lo storia ci insegna, non
è mai nata un’albicocca con due noccioli.
Così ben presto il gioco si trasformò in
intonaco: i nobili sentimenti che patinati e regali si offrivano al
nostro femminile centro d’attenzione, celavano un volto molto
più cupo e turpe che stampato sui nostri visi rischiava di
soffocare vent’anni di amicizia. Come quando ad una ricca
tavolata con il piede sinistro tiri un calcio al tuo vicino e con il
destro fai un lusingato e muliebre piedino alla tua splendida vicina.
Mancava però il lungo tavolo, imprescindibile per offrire
solo alcune apparenze al resto dei convitati.
L’aria inevitabilmente divenne più rarefatta:
certi sentimenti si possono perfino toccare – come il nostro
amore per lei –, altri invece si possono solo respirare. Ed
io respiravo Alberto, e tutto ciò non posso dire che mi
facesse un gran piacere. Di solito, del resto, la tensione spetta agli
asmatici.
Questo il quadro: una cornice preziosa racchiudeva una tela bianca che
grondava sangue.
Arrivammo al punto di odiarci. Un odio lesivo e spregiudicato, che non
tiene conto dei ricordi.
E così, trascinando a fatica questa nostra pesante
dicotomia, giungemmo a Natale, periodo in cui un po’ di neve
sulla testa non dà mai fastidio a nessuno.
Lei ci invitò a passare le feste nella sua casa in montagna:
un’infinità di neve bianca ci separava dalla
nostra città. I giorni passarono indimenticabili: lei
maestosamente simpatica, divertente ed eccessivamente desiderabile; noi
guerrafondai coltivatori di rose. Alberto cucinava, io mettevo in
ordine casa e lei ci guardava: a noi due tutto ciò bastava.
Venne poi una notte, per me insonne per loro di dolore. Lei si
infilò in camera mia, senza fare rumore, quando la luna a
fatica riesce ad illuminare la notte. Non disse nulla, si
calò dentro il mio letto senza mai distogliere i suoi occhi
dai miei, ed aspettò che io la baciassi. Non dovette
attendere molto. Fu talmente istintivo che non ricordo neppure come
riuscii a passare da un tenero incontro di labbra ad un più
accesso incontro di corpi. Sta di fatto che quella camera per me era
diventata come una serra: milioni di fiori bellissimi ci circondavano,
ed io il più bello l’avevo colto.
Quando anche la fantasia mi iniziava a scarseggiare, perché
più di tante pose neppure il più bravo dei
fotografi è in grado di concepire, iniziai a pensare
ossessivamente ad una sola cosa: Alberto.
Sarebbe stato naturale pensarlo con un sorrisetto da sfottò,
con un’espressione del volto da vincitore. Eppure non ci
riuscivo, e provavo solo angoscia. Una terrificante angoscia.
Mi bloccai: lei, a quanto pare, non era abituata a scontrarsi con dei
muri, e tutto ciò la lasciò sbigottita. Vedermi
alzare di scatto dal letto e dirigermi con passo deciso verso la stanza
di Alberto, le fece sfuggire dalle carnose labbra un
“no” urlato ed occulto.
Entrai senza tanti indugi nella camera di Alberto: dormiva. Io tremavo
dall’orrore della sua visione: il mio caro amico Alberto
aveva stampato sulla sua faccia proprio quello stesso sorrisetto che io
non ero riuscito a stampare sulla mia. Ed allora capii tutto. Dietro di
me lei, appoggiata sulla porta, più nuda che vestita,
più diavolo che acqua santa. Ed allora non ci vidi
più.
Fu questo un bene, perché così non ho immagini da
ricordare, non ho urla da associare a volti scavati dalla paura, non ho
fotografie di loro due che scansassero dalla mia memoria le vecchie
foto.
Fu un tremendo istante: infinito, inimmaginabile, frettoloso ma
incisivo.
A terra restava solo poca roba: qualche macchia rossa, le mutande di
lei, un cuscino ed i miei vent’anni caduti come neve a
febbraio sulle nostre teste.
Ed io? Io cosa avevo capito? Cosa ero riuscito a regalarmi di nuovo?
Solo un Natale, un Natale diverso. Dove la neve per una volta invece
che bianca era caduta silenziosa e rossa.
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