La stanza di Baker Street era sempre
stata un mondo a parte, racchiuso nella bellezza e nell'eleganza dei
quartieri di Londra. Un appartamento trasformista, a volte una giungla,
altre un laboratorio o un campo d'addestramento militare. In quegli
istanti però sembrava aver perso tutta la sua
versatilità:
era solo un appartamento polveroso pieno di oggetti
legati a un passato ormai svanito. Il suo proprietario era seduto alla
sua solita poltrona, immerso nel silenzio, mentre osservava gli sbuffi
di fumo della pipa, da quando fuoriuscivano dalle sue labbra sino a
dissolversi nell'aria. Molti fogli erano sparsi sulla scrivania; molti
altri erano appesi alle pareti. Eppure, nessuno di loro gli aveva
fornito una traccia, un indizio, una chiave per risolvere il mistero.
Sherlock Holmes sapeva di avere dei limiti, e
lei era stata il
più grande di essi. Prevedere le sue mosse era un conto, ma
capirla era diventato inevitabilmente lo scopo di una vita - mai
portato a termine. Gli piaceva pensare che fosse lui stesso a farsela
sfuggire, perchè poi avrebbe dovuto inseguirla di nuovo,
perchè
Irene
Adler era come quegli sbuffi di fumo, un
istante prima lì e quello dopo chissà dove.
Quella stanza
parlava delle sue avventure col dottor Watson ma anche di lei, ritratta
in quella vecchia fotografia che non le aveva mai reso giustizia.
Quell'immagine sbiadita era stato il compenso chiesto per averla
aiutata la prima volta. Non riusciva ancora a spiegarsi
perchè
avesse voluto averla e l'avesse custodita come uno dei suoi tesori
più preziosi. Tuttavia qualsiasi pensiero legato
alla donna era
ormai vano, e privo di significato. Allungò piano la mano, e
abbassò a fatica la cornice scura. Stavolta non avrebbe
potuto
inseguirla. Stavolta non sarebbe tornata.
"Ti mancherò,
Sherlock."
Forse l'aveva battuto sul tempo ancora una volta, e quella
che
era suonata come una dimostrazione di vanità si era rivelata
una
promessa. Ricordò di averle asciugato una
lacrima solitaria e
averle baciato la fronte con delicatezza, prima di confessarle che le
sarebbe mancata. Non aveva mai voluto chiedersi
perchè stesse
piangendo: le lacrime della gente erano illusorie, le sue ancora di
più. Tuttavia aveva cominciato a capire. Forse si era
condannato
da solo, o forse questa era la
punizione della donna, per fargli comprendere ciò che lui
aveva
sempre ignorato con forza.
"Abbiamo tutti un punto debole.
Lui ha scoperto il mio."
- ..e il mio.
Sospirò, senza nemmeno accorgersene. Gladstone fece un
piccolo
verso dubbioso, stiracchiandosi poco distante da lui. Holmes sorrise
impercettibilmente. Il suo fidato dottore andava a trovarlo quasi
più spesso di quando abitava con lui. A volte gli lasciava
in
custodia persino il suo cane, cavia da laboratorio di mille esperimenti
-
sempre sopravvissuto,
in ogni caso. Probabilmente era preoccupato di
come l'amico avrebbe reagito all'assenza della donna. In
verità lui non stava reagendo, non veramente. Era ancora
convinto che un giorno lei potesse oltrepassare quella porta con il suo
bel copricapo di fiori, come aveva fatto l'ultima volta. Cercava in
tutti i modi di allontanare questi pensieri, ma loro tornavano con
forza nei momenti più impensati, specie quando vedeva Watson
sorridere a Mary.
- Il matrimonio
è sopravvalutato.
- Il matrimonio è condividere la propria vita con la persona
amata. So che lei non riesce a capirmi Holmes, ma spero ugualmente che
un giorno miss Adler le darà questo piacere.
- Non ci speri troppo. L'unica cosa che la donna non può
ispirarmi è un contratto prolungato con le sue trappole.
Si alzò, cercando di scacciare quei ricordi
come degli
insetti fastidiosi, perchè ammettere che gli procuravano una
fastidiosa sensazione era la cosa peggiore che potesse succedergli.
Pensare a lei lo turbava, angosciandolo e rendendolo
vulnerabile. Il
grande Sherlock Holmes non era così facilmente suscettibile.
Eppure la morte di Irene Adler stava mettendo a dura prova il resto
della sua esistenza. Per questo ogni mattina si alzava da quel letto
pensando che no, lei
non
era scomparsa davvero. Era ancora da qualche
parte nel mondo e si sarebbe rivelata solo al momento più
giusto
per lei, con un sorriso e una nuova trappola in cui farlo cadere. La
sua mente così fredda e calcolatrice non riusciva a pensare
altrimenti, perchè stavolta, il suo cuore non l'avrebbe
sopportato.
"Perchè sei sempre
così sospettoso?"
Si diceva che ad alcuni uomini il matrimonio giovava: questo era
proprio il caso del dottor John Watson. Impeccabile nella sua eleganza,
il suo volto era molto più luminoso. A quasi un anno dai
fatti
che l'avevano coinvolto con gli intrighi del professor Moriarty, poteva
vantare una vita serena con la sua sposa, costellata dai soliti guai
del suo paziente più particolare. In verità
Sherlock
Holmes non aveva più causato molti fastidi, dopo la vicenda
con
Moriarty. Aveva finto la sua morte ed era ancora deciso a mantenere
quell'illusione, restando nascosto nel suo appartamento, mentre una
preoccupata signora Hudson pensava che fosse tornato dalla tomba, se
possibile, ancora
più
strano di prima. Il dottor Watson non riusciva a
capacitarsi del
nuovo
amico che aveva davanti: per certi aspetti sembrava che quella storia
non lo avesse scosso per nulla; tuttavia, appena abbassava lo sguardo,
sapeva che al di là dei suoi occhi nascondeva dei fantasmi
ancora vivi in lui. Nonostante le sue pretese, la morte di Irene Adler
non l'aveva lasciato indifferente. L'aveva capito nell'attimo in cui
Holmes aveva rivisto quel fazzoletto sporco di sangue e l'aveva
annusato con intensità, prima di gettarlo in mare. Non gli
aveva
spiegato nulla, ma ormai il dottore aveva imparato a comprenderlo.
Gettarsi alle spalle quell'oggetto era stato un simbolo più
per sé stesso
che per chiunque altro. Significava il suo desiderio di lasciarsi alle
spalle
la sua debolezza,
la sua sconfitta, qualcosa di caro che non era riuscito a
proteggere.
Tuttavia, quando tornava nell'appartamento di Baker Street, sembrava
che il tempo si fosse fermato a quando lui ancora ci abitava, e la
bella miss Adler faceva visite a sorpresa nei momenti più
impensati. La sua foto era ancora sul tavolino, a monito di un passato
ormai esistente solo tra quelle mura.
Entrò nella palazzina come faceva spesso ormai, per
assicurarsi
che Holmes stesse bene, e non reagisse improvvisamente a tutto quello
che gli era capitato. In realtà il dottor Watson non l'aveva
visto affrontare la morte di Irene, e questa cosa lo metteva in ansia
più delle manie suicida del suo amico. Non aveva pianto, non
aveva urlato, o forse aveva fatto tutto dentro sè stesso,
lasciando attorno a lui solo il silenzio. Aprì la porta
dell'appartamento, e fu felice di vedere Gladstone ancora tutto intero,
venirgli incontro e sedersi sull'uscio. Holmes era seduto alla solita
poltrona con la pipa tra le mani, lo sguardo nel vuoto e la coscienza
altrove. Appena si accorse della sua presenza precipitò
nuovamente in quella stanza, facendogli un fugace sorriso, come se
fosse sempre stato lì.
- Gladstone è ancora in piedi. Buon segno.
- Non si preoccupa troppo del suo cane, Watson, se lo lascia ogni
giorno qui con me.
- Fa una buona compagnia.
- Non ho bisogno della compagnia
di
un cane.
- Dato che è un morto vivente, io e la mia famiglia siamo
gli unici a poterla vedere,
vecchio
merlo.
- Ammetta che non può più starmi lontano, amico
mio.
Watson fissò Holmes e sbuffò con un sorriso. Si
guardò intorno leggendo stralci di documenti qua e
là
fissati sulle pareti, e ad un tratto uno di quei fogli ingialliti gli
fece venire uno strano dubbio. Si avviò verso la sua stanza,
mentre un perplesso Sherlock si alzava in piedi e lo seguiva a grandi
falcate.
- Le manca la sua stanza?
Chiese. Il dottore non rispose, occupato com'era ad analizzare le
pareti in quel metodo singolare che solo Holmes utilizzava. Quando
ricostruì il suo sospetto, si voltò verso di lui,
sospirando.
-
La sta cercando?
Non c'era bisogno di soggetto, in una frase così.
- Ho molto da fare, amico mio, se non le dispiace io andrei.
- Si fermi. Dove vuole andare, al piano di sopra?
- La terrazza ha un prospetto interessante.
-
Holmes!
Sta continuando a cercarla, senza di me. Ignorare la cosa e coprirla
col suo sarcasmo non le servirà.
Tra i due calò il silenzio. Holmes deglutì,
voltando lo
sguardo verso la finestra, e gli ci vollero alcuni istanti per
rispondergli.
- Non più. Ho esaurito le piste possibili. Non
c'è più niente da trovare.
Tra i due calò il silenzio. Il dottor Watson si
pentì di
aver alzato la voce con l'amico. Tuttavia, sentì di aver
aperto
uno spiraglio, e decise di andare fino infondo.
- Non ha affrontato la sua morte. Finchè non lo
farà, non
potrà ricominciare. Ecco perchè preferisce essere
un
fantasma. Così può evitare di vivere la
realtà.
- È un'analisi, ciò che vuole, Watson? Ricorda
che mi
sono liberato del suo ultimo fazzoletto? Osservi anche la sua
fotografia. È abbassata. Perchè ormai la mia
ricerca si
è conclusa.
- La sua ricerca, forse si.
La
sua attesa, no. Sa che basta rialzare quella cornice, per
rivederla.
Holmes abbozzò un sorriso.
- Peccato che nella realtà non sia lo stesso.
Watson cercò di trovare le parole, perchè
qualcosa in lui
gli disse che non avrebbe avuto una seconda occasione per affrontare
l'argomento.
- È solo che.. ascolti.
Io
sono qui, se ha bisogno.
- Lo so.
La vedo.
Non sono ancora diventato cieco.
Lo punzecchiò Sherlock. I due si guardarono, e non servirono
altre parole per assicurare che si fossero compresi.
- Adesso vada. Sua moglie l'aspetta, il suo cane ha bisogno di un
bagno, e anche lei. Io ho un appuntamento.
- Davvero? E con chi?
- Non importa. Tuttavia non posso tardare.
Il dottore alzò le mani prima di riprendere Gladstone col
collare. Salutò l'amico con un cenno e chiuse la porta alle
sue
spalle.
- Non sono mai in ritardo, al massimo
in anticipo.
Mormorò Holmes, nel silenzio. Gli sembrò quasi di
sentire una voce di donna accompagnata dal vento.
"Elegantemente."
Aprì l'orologio da taschino, controllando lo
scorrere del
tempo, proprio come aveva fatto un anno prima. Le 19e45. Nascosto da un
accenno di barba in più e un cilindro distinto, nessuno
sarebbe
stato capace di riconoscerlo. Attorno a lui le voci dei signori seduti
ai tavoli si sovrapponevano, eppure il suo udito e la sua
capacità di osservazione riuscivano a garantirgli
l'integrità di ogni conversazione. Erano mesi che Sherlock
Holmes usciva sotto mentite spoglie. Per la prima volta da molto tempo,
però, era in quel ristorante non per una ricerca o
un'indagine,
ma solo per rispettare una promessa.
Lei
non era mai mancata ad un appuntamento, perciò era convinto
che
un giorno sarebbe arrivata. Lui sarebbe stato lì per
dimostrarle
la sua impeccabile precisione, e per scegliere personalmente una
bottiglia di vino sigillata, evitando così di cadere
nell'ennesima delle
sue trappole.
"Ma perchè non puoi
semplicemente venire via con me?"
Il
dottor Watson aveva appena terminato il giro dei suoi pazienti
portandosi dietro un pigro Gladstone, che aveva sonnecchiato tra una
visita e l'altra. Giunto quasi a casa, si ritrovava a tirarlo per il
collare, sperando in futuro di evitare passeggiate così
lunghe
in sua compagnia.
- Muoviti, cane svogliato come quell'investigatore da strapazzo. Ti
avrà iniettato del sedativo?
Chiese ad alta voce, come se Gladstone potesse rispondergli. Quello lo
fissò di traverso prima di rendersi conto di essere tornato
a
casa, quindi salì i pochi scalini con entusiasmo e
precedette
l'ingresso del padrone. John lo liberò dal guinzaglio,
togliendosi il soprabito e stiracchiandosi.
- Mary!
Chiamò, andando in soggiorno.
- Scusa il ritardo, è che la tosse del signor Black non
accennava a diminui-..
Gli bastò alzare gli occhi, per arrestarsi di colpo. Mary
era
seduta sul divano, mentre l'odore del the impregnava la stanza. Di
fronte a lei sedeva una giovane donna, con i capelli sciolti e gli
occhi arrossati. Anche se l'aveva sempre vista impeccabile, forte della
sua sicurezza e della sua eleganza, riuscì a riconoscerla
ugualmente.
- Non è possibile.
Mormorò.
- John, miss Adler ti cercava. Perchè fai quella faccia?
Chiese Mary, raggiungendolo, apprensiva. Lui deglutì.
- Perchè lei.. dovrebbe
essere morta.
Sussurrò il dottore, ancora sconvolto.
- Sono viva.
Rispose Irene, con la voce rotta.
- Per miracolo, s'intende. Ma lui..
credevo che lui ce l'avrebbe fatta.
Il dottore, sulle prime, non riuscì a comprendere. Era
ancora scombussolato dal trovarsela di fronte.
- Quando ho saputo della sua morte ho pensato ad uno scherzo. Invece ho
trovato l'appartamento vuoto, la polvere sui mobili e la mia foto
rivolta verso il basso. La teneva sempre in vista, se non quando si
accorgeva della mia presenza. Credo volesse farmi pensare di non
tenerci troppo.
Sorrise per un istante, immersa nei suoi ricordi.
- Sono tornata appena ho potuto. Non è stato semplice. Tutti
mi
credono morta ed è meglio che i seguaci di Moriarty
continuino a
pensarlo. Mi trovo qui perchè lei è l'unica
persona al
mondo che può darmi una risposta.
Si fermò un attimo, cercando di prendere coraggio. Non aveva
mai detto quella cosa
ad alta voce, per paura che facendolo, si sarebbe concretizzata.
- Sherlock.. è
morto?
Mary fissò il marito, caduto momentaneamente in uno strano
silenzio. Attese che ritrovasse la forza per parlare, e che decidesse
autonomamente cosa rispondere. Watson deglutì, passandosi
una
mano tra i capelli.
- Se lei fosse una spia non potrei parlarle.
- Non sono una spia. Guardare la morte in faccia mi ha cambiata, mi
creda.
- Ma è una criminale.
- Non lo nego, ed è grazie a questo che sono ancora qui.
Tuttavia lei mi conosce. Ho
bisogno di una risposta.
- Perchè?
Irene si alzò di scatto, incapace di contenersi oltre.
- Perchè non so nulla
di cosa gli sia successo, e sono venuta
fin qui per questo. Perchè mi sono resa conto di aver ceduto
ai
miei sentimenti. Perchè dovevo essere io la sua
debolezza, e invece lui è diventato la mia.
Una piccola lacrima scese dalle iridi scure di miss Adler. La donna
abbassò lo sguardo, e Mary ne approfittò per
stringere il
braccio del marito e suggerirgli una risposta con lo sguardo. Il
dottore annuì, sospirando.
- È vivo, miss Adler.
Irene alzò gli occhi, spalancandoli.
- O meglio, è un morto vivente, come lei.
Watson sorrise.
- L'appartamento è vuoto perchè aveva un
appuntamento,
anche se non so i dettagli. La foto è abbassata
perchè
voleva far credere non solo a lei, ma anche a me, a sè stesso e al mondo,
di non tenerci troppo. C'è la polvere sui mobili
perchè è uno smidollato, pigro, scansafatiche.
La donna si lasciò scappare un sorriso, passandosi una mano
tra i capelli.
- Aspetti, un appuntamento?
- Sì, e non mi pare il caso di fare la gelosa. Mi ha detto
solo che non poteva tardare.
Irene si alzò di scatto.
- Oggi.
Mormorò, prima che l'orologio a pendolo iniziasse a
rintoccare le undici.
"Vogliamo fare al Savoy, alle
20? E non tardare."
Irene
Adler era corsa fuori dall'appartamento del dottor Watson, dirigendosi
verso un luogo particolarmente caro ai suoi ricordi. Il ristorante dove
aveva dato appuntamento a Sherlock Holmes un anno prima era l'unico
indizio che aveva. Quello era stato l'ultimo invito che gli aveva
rivolto, e la sua prima, involontaria, mancanza. Ora che era a pochi
passi da lui, l'accompagnava la fastidiosa sensazione che avrebbe
potuto perderlo. Nei mesi che aveva trascorso lontana da Londra aveva
pensato a molte cose. Era sopravvissuta per miracolo al veleno
somministratole da Moriarty, rifugiandosi in Italia mentre Germania e
Francia attraversavano la tempesta. Aveva pensato spesso a
ciò che si era lasciata indietro, sperando che ancora una
volta tutto andasse per il meglio. Aveva appreso la notizia della morte
di lui quasi per caso, da un ufficiale che aveva sempre ammirato le
imprese del grande Holmes. Non era riuscita a crederci, prima di aver
telefonato alla sua governante fingendosi un'altra, ed averne avuto
conferma. A quel punto restare in un altro stato senza sapere la
verità non era stato più tollerabile, per lei.
Moriarty aveva avuto ragione: aveva ceduto ai suoi sentimenti. Aveva
fallito, e aveva pagato il prezzo del gioco. Tuttavia, lei e il suo re
erano troppo scaltri per subire uno
scacco matto.
Giunse all'angolo
della strada, fermandosi un attimo per riprendere fiato. Si piego sulle
ginocchia e si rialzò, respirando a fondo. Ora che era
giunta
sino a lì qualcosa sembrò bloccarle le gambe e
attanagliarle il cuore. A un tratto, la porta del locale si
spalancò. Un cameriere stava spingendo con decisione un uomo
fuori dal ristorante.
- Le ripeto che dobbiamo chiudere, signore. Grazie e arrivederci.
Stava dicendo il ragazzo, esasperato.
- Ma non è
mezzanotte. Che politica è, siamo o non siamo in Inghilterra?
La porta si chiuse di scatto, lasciando l'uomo da solo a parlare col
vuoto.
Irene rimase immobile, osservando quella figura dal lungo mantello
e lo strano cilindro. Era scoperta, preda del vento che si
stava
alzando. Tuttavia voleva essere certa che fosse lui, prima di
compiere una qualsiasi
mossa. Le sue gambe erano ancora salde sul terreno.
L'uomo si voltò verso la strada, e con una scintilla accese
una pipa, nel modo insolito in cui solo lui soleva fare.
Irene deglutì.
- Sherlock.
La sua voce suonò strana persino alle proprie
orecchie.
Aveva paura di crollare da un momento all'altro. Lui si
fermò
all'istante, voltando il viso verso di lei. Rimase in silenzio, mentre
la pipa gli scivolava via dalle dita. Cadde per terra con un tonfo, al
quale nessuno dei due badò. L'espressione di Holmes era
indecifrabile.
- Sei in ritardo.
Sentenziò. Lei si lasciò sfuggire un sorriso,
annuendo.
- Elegantemente.
Rispose. Il peso delle sue gambe scomparve, e iniziò a
muovere
passi piccoli e veloci verso di lui. Irene Adler aveva sempre comandato
la situazione, deciso se schiaffeggiarlo o baciarlo, condannarlo o
salvarlo. Stavolta però Sherlock Holmes rispose ai suoi
passi,
precedendola e afferrandole il volto, prima di darle un lungo bacio che
sapeva di vino, attesa e vita.
- Ti avevo detto che ti sarei mancata.
Sussurrò lei al suo orecchio.
- Non immaginavo che mi saresti mancato tu.
Holmes fece una smorfia, l'ombra di un sorriso tra i suoi capelli.
- Cosa mi ruberai stavolta?
Chiese. Quando Irene lo fissò, notò un piccolo
bagliore nascosto nei suoi occhi, e involontariamente, sorrise.
- Tutto ciò che mi appartiene.
La donna passo le braccia intorno al suo petto, per la prima volta
senza afferrare nulla da sotto la giacca.
Nulla, se non il suo
cuore.