Parte Prima
Hinata In Wonderland
日向不思議の
-
Hinata, non puoi continuare a piangerti addosso. -
La
mora non alzò nemmeno lo sguardo, tenendolo saldamente
incollato alle braccia. Era raggomitolata su se stessa, in un angolo
della sua buia stanza da letto, in un istintivo gesto di protezione da
tutto e da tutti.
Questa
volta, le parole di suo padre le avevano fatto veramente male.
-
Su, passerà tutto, ancora una volta… -
mormorò il ragazzo sedendosi sul letto. Già, era
facile, per lui, essere ottimista. Non aveva passato una vita intera a
sentirsi dire quanto fosse inutile.
-
Hinata, mi fai paura. Dove finito il tuo bel sorriso? –
tentò di scherzare lui, senza successo.
Perché
stavolta, la voglia di dimenticare una volta per tutte era troppo
grande.
-
Ehi, bimba, non vieni con noi in discoteca? – urlò
una voce da sotto casa. Kiba maledì mentalmente
quell’idiota di Naruto, capace di mettere la parola sbagliata
in qualsiasi situazione. Guardò ancora Hinata,
accarezzandole piano la mano e… ciò che vide lo
terrorizzò.
Perle
così rare ricolme di dolore e perse nella più
completa apatia.
-
Vengo. – mormorò atona lei.
Perché
Hinata sentiva il bisogno di qualcosa di forte che l’aiutasse
a perdonarsi.
C’era qualcosa
di strano in quella minuscola pastiglia. Era bianca, con strane
striature azzurrognole. O forse quei stralci di colore li aveva solo
immaginati: le luci, in discoteca, non mancavano di certo; decine di
faretti colorati che servivano soltanto a confondere i pensieri. La
pista da ballo, piccola e piena di ragazzi, toglieva l’aria.
C’era puzza di sudore, un miscuglio di ormoni e variegati
profumi che si mescolavano in un rivoltante intruglio.
L’alcool scorreva a fiumi sottoforma di birre e miscugli di
vodka e gin.
Ma quella pastiglia era
la peggiore di tutti: così piccola, così
piccola… ma così potente.
Il mondo aveva
cominciato a vorticare precipitosamente. Le persone si erano sdoppiate,
i suoni si erano attutiti. I sorrisi gentili dei suoi amici
s’erano trasformati, diventando spaventosi ghigni malevoli.
Aveva iniziato a ballare
senza sosta, gridando e urlando. Lei era forte, pazza, scatenata.
Strusciava contro corpi sconosciuti, accarezzando visi che non aveva
mai visto. Rideva e loro ridevano, li baciava e loro facevano anche di
peggio. Ma perché fermali? Lei era forte, poteva smettere in
qualsiasi momento!
Boooom.
Rimbombi
dalle casse sonore. Bottiglie che si frantumano al suolo, risate
sommesse, ansimi di piacere.
Un
grido spaventato e una ragazza che cade a terra.
Nella
Tana del coniglio
- Dove sono…?
Era strano. Era certa di
essere in discoteca. Le girava da morire la testa e i ricordi erano
confusi, sfocati. Per cui non era sicura nemmeno che il quel posto
fosse reale.
Magari era solo un sogno.
Magari, quel grande
magazzino pieno di luci colorate era frutto della sua immaginazione.
Forse, anche tutte le persone che aveva visto erano immagini.
Però anche
quel posto era ben strano. Il terreno era pieno di piccole colline
ricoperte da un verde brillante. Ma il cielo era rosa! E non un rosa
qualsiasi, ma quel bel rosa confetto che invoglia a mangiare le
caramelle alla fragola! E le nuvole sembravano proprio zucchero filato,
tanto erano spumose e candide. L’aria profumava intensamente
di torta appena sfornata. Oppure di biscotti al cioccolato, non ne era
sicura. E l’acqua di quel ruscello poco lontano
era… arancio!
- Oddio. –
Probabilmente la testa le girava anche più del necessario. O
forse erano i jeans, così stretti che le toglievano il
respiro. Sentiva la nausea… ma perché, poi? Era
come se avesse mangiato quintali di cioccolato. Anzi, no, era qualcosa
di peggiore… forse quintali di cioccolato bianco?
Chiuse gli occhi. Il
vento le passava tranquillamente fra i capelli. Non trasportava nessun
suono, nemmeno il più piccolo rumore. Così
sentiva solo il rumore del suo battito rimbombare pesantemente fra le
sue tempie.
Era una vera e propria
prigione, con l’infinito come sbarre.
- È tardi,
è tardiii… -
Hinata si
girò di scatto. Qualcosa si stava avvicinando molto
velocemente, gridando con tutto il fiato che aveva in gola quanto fosse
in ritardo. Qualcosa di leggero e batuffoloso. Qualcosa di bianco e
soffice...
- Un coniglio?!
Un coniglio bianco e
grassottello, con un bel panciotto rosso. Dal taschino pendeva una
catenella d’oro luccicante e, fra le mani del coniglio, un
orologio a cipolla. Lo stringeva con ossessione mentre correva
– o meglio, saltellava. Aveva gli occhi fuori dalle orbite
per la preoccupazione e il respiro a mille!
- Aspetti, signor
coniglio! – gridò la ragazza, alzandosi e
inseguendolo. Tutta l’energia che aveva in corpo si
attivò. Doveva uscire da quel posto. Doveva tornare a casa,
dai suoi amici… chiunque essi fossero. Se esistevano.
Il coniglio
saltò in una buca nel terreno, e lei lo seguì
senza pensarci.
- Ma
cos…aaaaaaaaaaaaaaaaaah! –
La buca, altro non era
che la tana del coniglio. Era larga e profonda; sembrava una
lunghissima galleria ma, si sa, le gallerie sono
orizzontali… e quel pozzo profondissimo sembrava non finire
mai. C’era un buio incredibile, tanto che non riusciva
nemmeno a vedere le sue stesse mani. Però poteva sentire le
cose. Per la precisione, quello che aveva sbattuto violentemente contro
la sua testa doveva essere un cassettone. E quella strana melma che
s’era rovesciata sulle sue scarpe era marmellata.
Probabilmente di prugne, dall’odore.
Però…nel pozzo c’era aria, fresca e
pulita. Questo significava che prima o poi sarebbe atterrata…o
almeno lo sperava. E intanto cadeva, cadeva, cadeva…
“Ma non
finisco più di cadere?” pensò
incredula. La pressione del vento aumentò e sotto di lei si
creò come una cupola che accelerò ancora la
velocità della caduta. L’oscurità
iniziava a diradarsi mentre il fondo di quel lungo pozzo si avvicinava
sempre di più; e Hinata si rese conto – finalmente
– che da una caduta del genere non si sarebbe rotta solo
qualche osso.
-
Aiutoooooooooo… - gridò, terrorizzata. Il
pavimento era tremendamente vicino, di lì a poco si sarebbe
spiaccicata al suolo ad una velocità di cento chilometri
orari… allungò le braccia in un gesto istintivo
per rallentare e chiuse gli occhi per prepararsi al contatto
e… cadde su un mucchio di foglie.
Si toccò il
corpo, controllando se vi fosse qualcosa di rotto. Ora sì,
che la testa le girava. Ma, a parte lo spavento e qualche ammaccatura,
non s’era fatta niente. Era precipitata esattamente sopra un
grosso cumulo di foglie al lato di una sala da ballo. Il pavimento a
quadri bianchi e viola era lucidissimo, come se centinaia di persone ci
passassero sopra ogni giorno. Le pareti erano piene di porte, ma
nessuna era aperta. Non c’erano mobili, non c’era
nulla. Solo un piccolo tavolino a tre gambe nel mezzo della stanza, con
sopra una bottiglia, un biglietto con “bevimi”
inciso con un’elegante calligrafia e una minuscola chiave
d’oro.
Sbuffò,
sdraiandosi sul mucchio di foglie.
Dalla
padella nella brace.
Si alzò,
rassegnata. Voleva uscire, no? Se era riuscita a trovare la forza di
saltare alla cieca in una caverna senza fondo forse sarebbe riuscita a
uscire anche da quella strana stanza. Colpì qualche porta,
spingendo con forza, forzando la maniglia, ma niente: erano tutte
chiuse a chiave. E non c’erano altre vie d’uscita.
S’avvicinò
dubbiosa al tavolino, osservando la chiavetta. La rigirò fra
le mani, controllò ogni minimo dettaglio. Era impossibile
che quella piccola chiave entrasse in una qualsiasi porta. Ma come dice
il proverbio, tentar non nuoce… così
provò a usare la chiave nelle porte; ma era decisamente
piccola per tutte!
- Rimane solo questa.
– borbottò, seccata. La porta più
piccola, poco più grande di una tana per topi.
Infilò la chiave nella toppa e quella si aprì,
rivelando un meraviglioso giardino, enorme e pieno di alberi e fiori.
Ma per quanto si
sforzasse non riusciva a vedere nessuna porta che potesse condurla
fuori.
L’unica
soluzione era esplorare il parco.
Era chiaro come
l’acqua che per entrare doveva rimpicciolire, perdere almeno
una quindicina di taglie. Guardò con sospetto la bottiglia
sopra il tavolino. Il biglietto l’invitata proprio a berla
ma… e se era veleno? O uno strano intruglio magico? E se
fosse diventata un gigantesco rospo?
Inspirò a
fondo ingoiò il primo sorso. E la sensazione fu incredibile:
sentì le ossa restringersi, i muscoli diventare
più corti. Divenne sempre più bassa e il mondo si
fece sempre più grande. La gamba del tavolo
diventò un’enorme montagna, le piastrelle colorate
sembravano lunghe centinaia di metri.
- Ci siamo. –
sospirò la ragazza. Aprì la porta lentamente,
come se si aspettasse che da un momento all’altro accadesse
qualcosa. La luce del giardino e il buon odore di gigli fioriti la
investì in pieno, infondendogli un po’ di
sicurezza. Forse quella era la volta buona per tornare a casa.
Il
consiglio del bruco
Gli steli dei fiori
sembravano grandi grattacieli verdi, e i boccioli dei grandi acquedotti
pronti a cadere da un momento all’altro. Ogni goccia per lei
era come un temporale, e le piccole pozzanghere nel prato parevano
grandissimi laghi. L’erba era alta quanto lei e spessa almeno
il doppio. Era una stranissima sensazione vedere nel dettaglio quei
piccoli steli che tutti assieme formavano i prati primaverili. E ancor
più bello era osservare gli insetti in una dimensione tanto
più grande. Da vicino l’esoscheletro delle
coccinelle era di un bel rosso brillante, mentre i pallini neri,
stranamente regolari, sembravano quasi in rilievo rispetto al resto.
Però faceva
davvero un gran caldo, nemmeno l’aria poteva alleggerire la
pesante afa. Forse era la vicinanza col terreno o forse per un altro
motivo, ma l’umidità fra gli steli
d’erba toglieva il fiato. Aveva bisogno di acqua. Non quella
sporca e marrone disseminata qua e là nel prato.
Le faceva ribrezzo anche solo guardarla, figurarsi berla. Lei voleva un
ruscello, con l’acqua quantomeno pulita e possibilmente
fresca. E magari, qualcosa da mangiare. Foglie e fiori giganti non
avevano un aspetto appetitoso.
Si sedette, stremata.
Camminava da ore. Faceva caldo, troppo caldo. Il sole bollente cuoceva
ogni cosa, perfino la sua capacità di ragionare. Non capiva
più nulla. Non sapeva cosa stava cercando, non sapeva qual
era il suo mondo, non sapeva la propria identità. Non era
nemmeno sicura di chiamarsi Hinata Hyuuga. Quella era solo una
minuscola sensazione, cresciuta dentro di lei fin da quando
s’era svegliata nel sogno. Quell’unico nome le
vorticava in testa e, assieme alla definizione che aveva di se stessa,
vorticavano anche altre parole indissolubilmente legate a lei. Sakura,
Kiba, TenTen, Neji, Naruto,Naruto, Naruto! Ma chi diavolo erano,
questi? Perché pensava a loro con tanta
intensità? E, poi, parole come amici, casa, coraggio, amore.
Le inseguiva senza conoscerne il vero significato. O, forse, stava
compiendo un viaggio per trovare una definizione a quelle parole
così difficili da usare.
Lo stomaco
protestò deciso, urlando a tutto il giardino la sua fame.
- Ok… -
borbottò, quasi imbarazzata di se stessa – Forse,
è meglio non pensare a queste cose. Forse, è meglio trovare
qualcosa da mangiare… -
Il suo stomaco
assentì.
Osservò
ancora il giardino, questa volta con una ricerca ben precisa in mente.
Cibo, cibo, cibo. Dove poteva trovare da mangiare in
quell’immensa distesa di foglie?
- Un fungo! –
poco distante da lì, l’erba si diradava sotto le
radici di una possente quercia. Nascosti fra la sua corteccia, come un
prezioso tesoro, c’erano funghi di ogni specie e dimensione,
certi commestibili e altri decisamente pericolosi. Tutti alti
più o meno quanto lei. Esaminò a lungo il gambo
per assicurarsi di non morire per un funghetto. Il cappello era un bel
marroncino scuro, il gambo qualche tonalità più
chiara.
- Non avrei mica
intenzione di mangiare il mio fungo, vero? –
Hinata si
fermò, incredula. Alzandosi in punta di piedi, si
affacciò all'orlo del fungo; un grosso Bruco azzurro se ne
stava seduto tranquillamente nel centro con le braccia conserte,
pacifico come un re, mentre fumava una lunga pipa. Era uguale a Shino,
notò con sorpresa. Poi si ricordò che non aveva
la più pallida idea di chi fosse, questo Shino.
Si fissarono a lungo, in
completo silenzio. Si stavano esaminando, come in un vecchio film
western. O meglio, il bruco-Shino fissava Hinata, lei teneva lo sguardo
basso per l’imbarazzo.
Finalmente si tolse la
pipa di bocca e, con voce stanca e strascicata, le chiese:
- Chi sei tu? -
Come inizio di una
conversazione, certo non era molto invitante. Hinata titubò
un momento, poi disse:
- Credo…
credo Hinata. -
- Perché
credi? - sbottò quasi sorpreso.
- Beh… un
nome è solo un nome, no? Io vorrei sapere chi sono, cosa
faccio. Qual è il mio mestiere, la mia famiglia, i miei
amici, se sono innamorata… insomma, qual è la mia
vita! -
Il bruco
inspirò a fondo il fumo della lunga pipa, creando dei
bellissimi cerchi e disegni nell’aria.
- Che cosa stupida.
Hinata è Hinata. Perché ti servono persone
estranee per definire te stessa? -
- Ma non credi sia
strano? – chiese dubbiosa.
- "Strano”?
Niente affatto! -
- Dipende dalla propria
sensibilità. Per me sarebbe sicuramente molto
strano.- borbottò timidamente.
- Per te - disse il Bruco - Ma chi sei tu in fin dei conti?! –
Si era ritornati
così all’inizio della conversazione. Quella
domanda ripetuta non le andava proprio. E quindi chiese, nel modo
più severo che conosceva:
- Non le sembra che
dovrebbe dirmi prima lei chi è? Assomiglia moltissimo a
Shino!-
- E perché
mai?- borbottò il Bruco – E chi sarebbe questo
Shino? –
Ora sì, che
Hinata non sapeva più cosa dire. A ogni sua domanda, quello
le rispondeva con un'altra. E il guaio era che lei non sapeva dare
risposta. Si sentiva tremendamente a disagio.
Così
cercò di dileguarsi in silenzio, per non affrontare quella
conversazione.
Era
meglio fuggire che combattere i problemi.
- Ferma! Devo dirti una
cosa importante.- sbuffò il bruco, dopo aver disegnato un
altro bel cerchio di fumo.
- Che cosa non ricordi?
Cosa vorresti ricordare?-
Hinata si
fermò. Non si girò nemmeno. Perché
chiederle una cosa del genere?
- Tutto. –
forse era l’unica cosa di cui era certa. Voleva trovare le
risposte. Voleva diventare una persona migliore, più sicura
di se stessa e delle sue capacità.
Per
non scappare ancora.
Il bruco rimase in
silenzio, apparentemente soddisfatto.
- Un lato è
per il cuore, un lato per tutto il resto.- borbottò, e
sparì.
Hinata
esaminò il fungo, dubbiosa, cercando di scoprire la
diversità dei due lati. Peccato che fosse perfettamente
rotondo! Allungò le braccia più che
poté per circondare il fungo, e ne ruppe due pezzetti. Uno
dall’orlo sinistro, uno dal bordo destro. La polpa del primo
era un vivace rosso scarlatto, l’altra di un bel verde
smeraldo. Istintivamente ingoiò il boccone di sinistra e
scomparve.
Un
tè pazzo
Ancora una volta, Hinata
si ritrovò a precipitare. E, ancora una volta,
atterrò miracolosamente su un morbido appoggio. Una
magnifica sedia vittoriana, con il sedile ben imbottito.
- Tu chi sei? -
esclamò sorpreso uno strano tipo con una tuba in testa. Un
ragazzo molto simile a Neji.
- Hinata –
sbottò nervosa. Perché tutti le facevano la
stessa domanda, se non sapeva rispondere? Le faceva male la testa! E,
ancora una volta, non sapeva assolutamente chi fosse Neji, nonostante
il suo volto fosse così famigliare. Tutti quei voli non
facevano bene alla sua improvvisa emicrania!
Quando finalmente
s’accorse dov’era capitata… il mal di
testa tornò ancora, più forte di prima.
All’entrata
del vialetto c’era un enorme cartello con scritto
“casa della Lepre di marzo”. E di nessun altro
poteva essere! I comignoli per i camini erano a forma
d’orecchie di coniglio, mentre il tetto era interamente
ricoperto di pelo castano. Davanti alla casa, sotto un albero, stava
una tavola elegantemente apparecchiata.
C’erano decine
di posti, ma solo tre persone erano sedute lì. Una lepre, un
ghiro e Neji col cappello.
- Un goccio di vino?
– chiese gentilmente la lepre.
- Io… ehm,
ecco… non potrei berlo… -
- Dovresti farti
crescere i capelli. – osservò il Cappellaio.
- Ehm… se
crede che mi starebbero meglio… - borbottò.
- Che giorno del mese
è oggi? – chiese la lepre rivolgendosi ad Hinata.
Aveva estratto dal taschino un grande orologio e lo guardava con
timore, scuotendolo di tanto in tanto e portandoselo
all’orecchio.
- Oggi è il
quattro. –
- Sbaglia di due giorni!
– osservò sospirando l’animale.
– te l’avevo detto che il burro l’avrebbe
rotto! – aggiunse guardando con disgusto il Cappellaio.
- Il burro era ottimo.
– sbottò l’atro.
- Sì, ma
devono esserci entrate anche le molliche di pane. –
borbottò la lepre. – non dovevi metterlo usando il
coltello del pane -.
- Che strano orologio!
– esclamò Hinata – segna i giorni, non
le ore! –
- Perché le
ore? Il tuo orologio segna gli anni, per caso? –
- No. –
s’affrettò a rispondere.
- E poi, se segnassimo
le ore, dovremmo aspettare molto di più –
bofonchiò il Cappellaio-Neji.
- Cosa? –
- Come cosa? –
urlò incredula la lepre. S’alzò di
colpo sopra i braccioli della sedia, indicando un grosso ritratto
appeso sopra la testa di Hinata. – Che qualcuno liberi il
principe, no? –
- Liberare il principe?
– ora sì, che la testa le faceva male per la
confusione. Non era nemmeno riuscita ad assaggiare la tazza di
tè che il ghiro le aveva gentilmente offerto che il
Cappellaio e la Lepre di marzo l’avevano subissata con una
raffica di domande. E ora se ne uscivano con questa storia del
principe…
- Ma da che mondo vieni,
ragazzina? – gridò il cappellaio – non
lo sai che il Principe è addormentato nella sala
più alta della torre più alta del castello
più alto del… -
- Sì, credo
di aver capito -
Il cappellaio la
guardò a fondo negli occhi, nascondendo un sorriso beffardo.
- Sei tu che hai scelto
il lato del cuore, no? -
Calò un
silenzio imbarazzante. Che il “lato del cuore”
fosse quel pezzettino di fungo rosso le sembrava piuttosto azzardato.
Però il signor cappellaio ne sembrava molto convinto.
- Oh, è
l’ora della marea. – borbottò il ghiro.
- La marea?! –
esclamò, incredula.
- Già,
è vero. –
- Sta per arrivare.
–
- Mi spiegate
cos’è questa marea? –
Il cappellaio la
guardò con aria annoiata. – Quella, no?
– disse, indicando qualcosa dietro di lei.
Alle spalle della
casetta arrivava qualcosa. Uno strano muro d’acqua
marroncino, che emanava un buon profumo di foglie da tè
essiccate. Come una gigantesca onda, la marea di tè divorava
il terreno avanzando al massimo della velocità. Non
riuscì nemmeno a gridare, mentre quel gigantesco tsunami
s’abbatteva su di lei trascinandola di qua e di
là.
Una
volta qualcuno le aveva detto che essere avvolta completamente
dall’acqua, senza nessuna possibilità di
respirare, è come immergersi in se stessi. L’acqua
rilassa, l’acqua fa scordare ogni problema. Ci riporta alla
vera essenza del nostro io, ci porta all’inizio dei problemi.
Si
entra in contatto con la propria coscienza, con le proprie paure, con i
nostri ricordi più profondi e apparentemente cancellati. E,
alla fine, quando ci accorgiamo che non siamo in grado di trattenere
oltre la nostra necessità di aria, ci porta alla soluzione
delle incertezze.
Con un grosso respiro
Hinata tornò a galla, muovendo febbrilmente le gambe e le
braccia nel tentativo di rimanerci.
- Neji! Neji, aiutami!
– gridò, vedendo il cappellaio-Neji navigare
tranquillamente sopra un grosso ombrello.
- Chi sono, io?
– ridacchiò il ragazzo afferrandole la mano.
- Mio cugino, no?
– esclamò sputacchiando il tè.
- E chi sono Sakura,
Shino, Ino, Rock Lee, Kurenai… ? –
- Che domande fai, Neji!
Sono i nostri amici! –
Il cappellaio sorrise,
enigmatico.
- Perché
ricordi anche di noi? Tu non avevi scelto il lato del cuore? –
- Neji!
- Trova il tuo principe,
mia piccola Hinata… -
E la
lasciò
andare in balia della corrente.
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Ecco qua! Finalmente ho pubblicato questa fan fic. Non avete
idea di
quanto avessi voglia di sentire vari apreri! forse perchè
è la storia più strana e originale che abbia mai
fattoXD e infatti, annuncio con estremo orgoglio...
Hinata in Wonderland si
è classificata SECONDA al contest alternative universe!!
cioè, seconda su undici, e subito dopo
HopeToSave! Vi rendete contooo??? XDXD
Vabbeh, basta. Spero vivamente che mi lascerete un commentino**
e vi avviso che i capitoli saranno tre,
perchè altrimenti al storia si farebbe troppo lunga^^
e,
se volete, date un'occhiata a queste due mie fic: Endless[ShikaTema] e Lifes[MinaKushi]!
mi piacerebbe un vostro parere anche lì **
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