Under your skin,
again.
Tempo.
Mi
aveva chiesto tempo.
Tempo
per capire, tempo per una
nuova vita, tempo per provare ad essere altro da me.
Come
mio fratello, voleva provare
una nuova “normalità”: il college,
feste, un ragazzo che non fossi io, qualcuno
con cui poter stare senza perdersi, qualcuno che avrebbe lasciato tra
qualche
mese perché non eterno.
Tempo
sprecato.
“Come
puoi vivere una vita normale
se sei un essere speciale?” le urlai.
Tempo
tolto al nostro amore,
quell’amore che lei non ricordava, che non voleva ricordare,
che io ricordavo
benissimo.
L’avevo
seguita, assediata. Avevo
provato tutti i discorsi possibili, la dolcezza, la forza dirompente
della mia
passione, la razionalità e la rabbia.
Nulla:
lei non ricordava,
continuava a mantenere in equilibrio quella pietra sul suo cuore.
Cedetti.
Le
diedi il tempo che mi chiese …
anzi, feci di più.
Se
quello che ricordava di me era
solo il mostro, se quando mi guardava confondeva il vuoto che il nostro
amore
cancellato aveva lasciato nella sua anima con una sorta di fastidio nei
miei
confronti, allora era meglio che nella sua mente, nel suo cuore, io non
fossi
mai esistito.
Avrei
avuto più speranze se oltre
all’amore avesse cancellato anche il male. Il vuoto doveva
essere totale. Le
vie di mezzo non avevano mai portato in nessun luogo.
Tutto
o niente.
Con
Rick umano, avevo chiesto a
Bonnie, una volta tornata, di fare un incantesimo simile alla
compulsione, una
magia che le togliesse tutti i ricordi che mi riguardavano, non solo
l’amore,
ma anche l’odio … non solo il meglio, ma anche il
peggio di noi due.
Un
anno, le avrei concesso un
anno e poi sarei tornato a vedere se poteva essere felice come
desiderava,
nonostante il non noi, nonostante il buco nel suo cuore.
Un
anno davanti all’eternità è un
sospiro.
L’anno
più lungo della mia vita.
Un
anno a raschiare il fondo di
una vita che non potevo vivere fino in fondo, che non potevo
interrompere, non
ancora, perché l’eternità ha senso se
si può sperare nell’ennesima occasione, in
un altro pezzo di vita … o in un per sempre colmo di lei.
Spinta
da non so quale idea, da
quale strano istinto, aveva cambiato università,
città … amici.
Aveva
lasciato la sua vecchia
vita alle spalle, sicura che tutti i suoi amici più cari
fossero felici, che
suo fratello fosse al sicuro tra le braccia di Bonnie.
Aveva
voltato pagina, lasciando
tutti i frammenti della sua precedente esistenza chiusi in una valigia
sotto il
letto di Caroline e se ne era semplicemente andata … a New
York.
Non
l’avevo fermata, nessuno era
riuscito a farlo.
Non
potendo rimanere in un luogo
pieno di ricordi affilati come lame, me ne ero andato anch’io.
Avrei
voluto fare un viaggio con
mio fratello, un viaggio che rimandavo da tempo immemore, ma lui aveva
appena
iniziato a provare dei sentimenti per Caroline … rimandammo.
Enzo
si sarebbe unito a me più
che volentieri, ma non era l’amico che avrei voluto accanto:
troppo simili,
troppo autodistruttivi … non volevo altri peccati da farmi
perdonare, non
volevo altri motivi per farmi odiare.
Se
“dopo” lei non mi avesse voluto,
se lei mi avesse rifiutato, definitivamente, forse sarei andato con lui
fino
all’inferno.
Per
il momento subivo quel
purgatorio, vagando per città e bar, ogni sera diversi, ogni
sera più bui, in
attesa di rivederla, di riaverla, di riconquistarla.
Un
anno.
Beh
… un po’ avevo barato.
Mi
ero recato a New York un mese
prima del termine, per trovarla, per osservarla.
Una
vota normale era quello che
aveva desiderato.
Una
vita normale era quella che
stava tentando di vivere.
La
mattina lezione alla NYU
School of Medicine, nel pomeriggio volontariato in un ambulatorio per
coloro
che non potevano permettersi l’assicurazione sanitaria.
L’avevo
osservata scarmigliata la
mattina nel vento freddo, bere
un caffè
di Starbucks per scaldarsi le la mani e lo stomaco.
L’avevo
ammirata mentre accudiva
bambini sporchi e malaticci.
L’avevo seguita
nelle serate con gli amici,
nei locali fumosi di una città senza sonno, nascosto come un
maniaco
ossessionato.
L’avevo
guardata flirtare con
qualche ragazzo, roso dalla gelosia, pazzo di rabbia soffocata.
Avevo
forzato la sua porta per
guardarla dormire, per ascoltare il suo respiro tranquillo.
Resistere
alla tentazione di
infilarmi sotto le coperte accanto a lei, scaldarmi al calore del suo
corpo,
respirare il suo odore, posare le mie mani sulla sua pelle, le mie
labbra sul
suo seno, era davvero dilaniante.
Eppure
dovevo resistere, fare un
passo alla volta. Questa volta non potevo essere la solita macchina
demolitrice,
non potevo permettere al mio istinto di bruciare ogni
possibilità di abbattere
il muro che la sua volontà ferita aveva eretto per riparare
il suo cuore da un
amore troppo grande.
Dovevo
ricominciare da capo,
camminare in punta di piedi nella sua anima, entrarle ancora una volta
sotto la
pelle e da lì togliere un mattone alla volta
finchè la parete che ci divideva
non fosse crollata, senza lasciar macerie dolorose o ferite inguaribili.
Ci
ero riuscito una volta … ci
sarei riuscito ancora.
Quella
sera era nel solito bar
vicino al suo appartamento di Brooklyn, in una di quelle
caratteristiche
villette a schiera non lontane dalla passeggiata sull’East
River, che
condivideva con tre nuove amiche, compagne di università.
Era
lì, seduta con il solito
gruppo con cui l’avevo vista in quel mese, con il solito
ragazzo che le stava
troppo vicino, con le solite amiche che parlavano troppo.
La
guardavo e l’unica cosa che
cercavo di capire, l’unica risposta che cercavo alle mie
mille domande era se
fosse felice.
Sorrideva
spesso, e rideva.
Rideva con quella sua risata cristallina che riempiva l’aria.
Rideva e sembrava
serena … contenta, appagata.
Ma
era felice?
Poteva
una risata definire la
felicità?
Un
sorriso arrivare in fondo agli
occhi?
La
serenità riempirle il cuore?
Quella
era la vita che ogni giovane
donna poteva desiderare, quello era il divertimento che lei non aveva
mai
avuto, che non avrebbe avuto mai più, pur rimanendo giovane
per sempre.
Lei
era giovane per la prima
volta, studentessa per la prima volta, senza problemi per la prima
volta dopo
anni di dolore infinito.
Era
quella la felicità?
Nella
mia porzione di eternità
avevo provato la spensieratezza e la gioia, la lussuria e il
divertimento
sfrenato, la passione, lo stordimento e l’oblio …
e avevo provato l’amore e la
felicità.
E
sapevo che la felicità poteva durare
lo spazio di un attimo ma quando l’avevi provata una volta,
tutto il resto era
come appannato, insulso.
La
felicità annullava le risate,
spegneva i sorrisi e, come il suo opposto, faceva male, un dolore
languido e intenso.
Si
piange per la felicità: si
piange per quanto intensifica le emozioni, per quanto ci rende
vulnerabili e
dipendenti … per la paura di perdere la fonte di vita da cui
scaturisce,
consapevoli della devastazione che avrebbe lasciato la sua mancanza.
E
quella felicità, quella per cui
saresti morto, per la quale saresti disposto ad uccidere, quel momento
di
estasi perfetta e atroce è indissolubilmente legata
all’amore, quello che ti
prende e ti scaraventa fuori dalla tua normalità per
portarti in un’altra
dimensione, fatta di lei, dei suoi occhi, dei suoi sospiri e satura del
bisogno
incessante di starle accanto, di berla con gli occhi, di saziarti con
il suo
profumo, stordirti con il suo corpo.
Poteva
Elena essere felice senza
riuscire provare tutto questo?
Forse
sì.
Io
no.
Non
dopo averla avuta tra le
braccia, non dopo essere stato parte di lei, del suo corpo, della sua
anima.
Perché
avevo conosciuto l’amore
solo attraverso i suoi occhi, avevo sentito l’amore
attraverso le sue mani:
niente e nessuno avrebbe potuto mai farmi sentire come mi sentivo con
lei.
Nessuno
mi avrebbe reso felice,
mai più.
Forse,
però, qualcuno avrebbe
reso felice Elena più di quanto non potessi fare io, almeno
per un po’.
Qualcuno
le avrebbe dato la vita
che desiderava, almeno per un po’.
Qualcun
altro le avrebbe permesso
di vivere quella normalità a cui anelava, almeno per un
po’.
Che
diritto avevo di strapparla
da quel sogno?
Eppure,
ne ero sicuro, se avessi
ritrovato la chiave, se avessi sfondato il muro, se lei avesse
ritrovato i suoi
sentimenti per me, lei sarebbe stata felice … per sempre.
Felice.
Non contenta. Non serena.
Non realizzata. Felice.
Questa
certezza meritava un
tentativo.
La nostra storia meritava un
secondo capitolo,
un terzo …
Non
avevo ancora finito di
amarla, non avrei finito mai.
Era
passata la mezzanotte di un
sabato sera come tanti e la mano di quel ragazzo tracciava segni
inequivocabili
sulla coscia di Elena, segnali che lei sembrava ignorare, che io
speravo
ignorasse.
La
compagnia si stava dividendo:
una coppia aveva voglia di trovare un po’
d’intimità; due amici avevano puntato
due prede per la notte; la bionda seduta di fronte ad Elena era
evidentemente
troppo ubriaca per tentare un qualsiasi approccio e l’altra
compagna si stava
offendo per accompagnarla a casa.
Tutti
si stavano alzando da quel
tavolo pieno di bottiglie di birra vuote e briciole di pane e patatine.
Il ragazzo insulso aspettava
che tutti
prendessero la propria direzione, con l’evidente intento di
rimanere solo con
Elena, per avere una scusa per riaccompagnarla, per farsi invitare a
bere
qualcosa, per infilarsi nel suo letto e tra le sue gambe.
Non
so cosa mi trattenne sul mio
sgabello, attaccato al bancone dal bar, ma il bicchiere che avevo tra
le mani
andò in frantumi.
Mi
alzai: volevo la mia
occasione, quella sera … volevo uno di quegli attimi che
valgono una vita
intera, di quelli che decidono il destino o che semplicemente rimango
eternamente dentro di noi, a segnare un punto di non ritorno o un luogo
dell’anima in cui andare a rifugiarsi quando il freddo
dell’assenza gela il cuore.
Acuii
i miei sensi per cogliere
l’attimo opportuno; Elena mi venne in aiuto.
“Ti
dispiace se vado un attimo in
bagno prima di tornare a casa?” gli chiese, spostando la
sedia e afferrando la
borsa.
“Figurati”
rispose lui. “Ti
aspetto qui”
Illuso.
Appena
Elena fu oltre la porta
della toilette, mi avvicinai a quell’insipido bellimbusto.
Quanti
come lui avevano avuto
l’ardire di pensare ad Elena in “quel”
modo?
Domanda
inutile, risposta troppo
dolorosa.
Lo
presi per le spalle e lo
fissai negli occhi.
“Mi
dispiace, ma ora tu sentirai
un dolore lancinante allo stomaco e ti sentirai molto male. Purtroppo
non
potrai riaccompagnare Elena a casa e non vorrai che lei si preoccupi
per te. La
prossima volta non mangiare troppe patatine: non le digerisci molto
bene.”
Quando
Elena si ripresentò, lui
cominciò a contorcersi dal dolore. Preoccupata, fu lei ad
offrirsi di
riaccompagnarlo, ma lui rifiutò, convincendola che i suoi
servizi da
crocerossina non sarebbero stati necessari.
“Potrebbe
essere una notte
imbarazzante” le spiegò. “ e non voglio
trascorrerla sapendo che ti sentirai
tutti i miei lamenti oltre la porta del bagno. Ci rifaremo sabato
prossimo”
“Sei
sicuro, potrei …”
insistette.
“No,
davvero … preferisco stare
solo. Grazie comunque.”
Elena
sorrise e raccolse il suo
cappotto.
Uscendo
dal locale, fermò un taxi
e si assicurò che il suo amico lo prendesse, prima di
incamminarsi verso casa.
Fingendo
di rincorrerla, mi
avvicinai alle sue spalle.
“Mi
scusi …” la richiamai.
Lei
s’irrigidì.
“Non
abbia paura: ero al bar ... mentre
usciva, le è caduta questa.”
Elena
si voltò lentamente, mentre
le porgevo la sciarpa che avevo preso quando avevo soggiogato il suo
amico.
Lei
mi rivolse uno sguardo
intendo, interrogativo.
“E’
sua questa sciarpa, vero?
Forse mi sono sbagliato, mi scusi …”
“No,
no … è mia … grazie.”
I
suoi occhi non lasciavano i
miei.
“Ci
conosciamo?” mi chiese
all’improvviso.
Sì, ci conosciamo.
Conosco la storia della tua vita, ogni centimetro
della tua pelle, come
ti muovi nel sonno e come ti lavi i denti la mattina.
Conosco i battiti convulsi del tuo cuore quando fai
l’amore e quei nei
che hai dietro l’orecchio destro: formano una piccola
costellazione che indica
la vena pulsante sul tuo collo.
Conosco le tue smorfie quando bevi il
caffè bollente e i tuoi silenzi
carichi di rabbia quando faccio lo stronzo.
Conosco il tuo odore e come cambia quando sei
eccitata.
Conosco i tuoi sguardi, quando mi cerchi, e il
tocco delle tue mani,
quando hai voglia di me.
Sì, ci conosciamo.
Conosci tutto di me, fin troppo a fondo.
Conosci la mia fragilità e la mia
passione, il mio immenso bisogno di te,
il mio modo di toccarti.
Conosci la mia testardaggine e il mio non voler
essere diverso da
quello che sono, eppure sarei qualsiasi cosa per te.
Conosci le mie luci e le mie ombre e hai amato le
seconde più delle
prime.
Conosci il mio modo di amarti, le mie mani e la mia
anima, i miei occhi
e le loro sfumature, le mie labbra e i miei baci, le mie carezze e i
miei
sospiri.
Ti conosco … mi conosci.
Invece
di dirle tutto questo, mi
limitai ad allungare la mia mano.
“Può
darsi … Io sono Damon,
piacere.”
Lei
mi guardò, afferrò la mia
mano inclinando la testa e abbozzando un sorriso.
“Piacere,
Elena …”
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