Cantare a Tokyo (qualcosa di diverso dall'essere se stessi)

di Kastel
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La prima volta che lo vidi non lo considerai minimamente. Era un robot -lo si poteva capire dalla divisa che indossava- ma non attirava clienti come i suoi compari. Stava fermo lì, come una statua, osservando il via vai di persone.
Eppure, non avrei mai saputo dire il perché, mi bastò distrarmi mezzo secondo per ritrovarmelo davanti, con un dolce sorriso.
“Ti va di sentirmi cantare?”
Lo fissai alzando un sopracciglio, non essendo sicuro di aver compreso bene.
“C-a-n-t-a-r-e!”
Ok, perché proprio il pazzo a me?
“Non dovresti chiedermi ben altro? E' questo il vostro compito, d'altronde.”
“A me non interessa. Io offro la mia voce, non il mio corpo.”
Sospirai, ragionando sul da farsi. Avevo ricevuto un'offerta strana, diversa dal solito: l'avrei accettata o l'avrei mandata al diavolo, come buona parte della mia esistenza?
“. . . Ok, ti ascolterò. Solo una volta, però.”

 

 

 

Clear, era questo il suo nome, fisicamente non era diverso dagli altri robot: occhi rosati, capelli bianchi, divisa argentata. Quello che lo contraddistingueva era l'assoluta innocenza che ostentava.
“Non ho interesse ad andare con chiunque. Lo faccio solo per poter restare così come sono.”
In un'epoca come la nostra, dove i robot erano gli elementi su cui si basava la prostituzione, Clear era un pesce fuor d'acqua, una nota stonata che si divertiva a ricordarci che, un tempo, tutto era diverso, che il sesso non era donato da un essere robotico ma da una creatura come noi, umana.
E non esagero quando dico che Clear era sicuramente più umano di me.

 

 

“Sei venuto di nuovo a trovarmi.”
Già, risposi. La mia vita poteva essere un casino, i teppistelli potevano venire a rompere i coglioni ogni giorno, eppure mai che saltassi un appuntamento con Clear.
A pensarci adesso, quel robot era la mia pausa dalla vita. Clear non pretendeva nulla, non voleva nulla di pazzesco o incredibile da me: gli bastava cantare. E a me bastava ascoltarlo.

 

 

“E' bello essere umani?”
“Mah...”
Fu la prima risposta che mi venne alla mente a tale domanda, ma, sinceramente, non ero la persona giusta a cui chiedere delucidazioni sulla condizione umana.
Semplicemente perché con il mio modo di viverla, la vita, beccando tutto lo schifo che essa porta, la vedevo come qualcosa di totalmente merdoso.
In pratica, la vita era uno schifo.
E proprio per questo non ebbi mai il coraggio di rispondere a quella domanda. E a tutte quelle che gli facevano sognare l'umanità.

 

 

Non fu difficile accorgersi del suo cambiamento.
Clear non cantava più. Non sognava più di poter diventare umano, un giorno. Non era più curioso sul mondo.
Sopratutto non mi attendeva più. Aveva altre persone da soddisfare, altri bisogni da rendere reali.
Non seppi mai come avevano fatto a comprendere la verità. Forse fu colpa di Clear stesso, del suo entusiasmo e della sua voglia di vivere: fatto sta che è diventato uno di loro.
Non che questo mi importi veramente. Clear era solo un passatempo, alla fine, un modo per staccarmi da questo mondo brutto e cattivo in cui vivo.
Solo, ogni tanto ho voglia di cantare.

 

 

 

 

 

Note

AU ispirata da “In Tokyo” di Studio Killer, che è tipo considerata l'inno dalla CleAo.
Stavolta però c'è Sly, non Aoba. Perché mi sembrava più adatto usare il cinico piuttosto che quello dolce. 





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