“… così,
stiamo valutando la possibilità di aprire una nuova catena di hotels anche in Europa. In ogni caso staremo via per un
paio di settimane al massimo, il tempo di incontrare alcune persone e
controllare dei terreni. A proposito, vuoi che ti portiamo qualcosa di
particolare dall’Italia?”.
I
lineamenti eleganti del viso senza l’ombra di una ruga della signora Grover erano, come sempre, perfettamente rilassati.
Guardava il figlio con un’espressione che poteva essere definita quasi adorante,
mentre il signor Grover, seduto accanto alla moglie,
fumava un sigaro aggiungendo di tanto in tanto qualche parola a quelle di lei.
Non
ricevendo però alcuna risposta dal suo interlocutore, la donna lo osservò
stupita.
“… caro? Ma…
mi hai sentita?”.
In effetti Alex Grover
aveva chiaramente l’attenzione altrove. Anche se lo
sguardo dagli intensi occhi verdi era fisso davanti a sé, non aveva sentito nemmeno
una parola di quello di cui i suoi avevano parlato per almeno dieci minuti.
“Mh, dicevi?”.
“Sei… sicuro
di stare bene?”.
Il ragazzo
fece un largo sorriso.
“Certo.
Scusatemi, ero solo un po’ distratto”, disse,
alzandosi da tavola e appoggiando il tovagliolo che aveva sulle gambe accanto
al piatto vuoto. “Comunque non preoccupatevi, e fatemi
pure una sorpresa. Non conosco molto l’Italia”, continuò,
indovinando senza troppa difficoltà la domanda di cui le sue orecchie avevano
captato al massimo qualche sillaba.
“Va bene,
come preferisci”, mormorò con un altro piccolo sorriso la madre, un po’ delusa.
“E tu, Kris?”.
La donna
si sbilanciò da un lato della sedia per cercare il viso di Kristine
che, dall’altra parte della stanza, era rannicchiata
fra i cuscini del divano, stretta in un maglione blu evidentemente troppo
grande per lei di qualche taglia. Nell’angolo buio del salotto, il viso dalla
pelle chiara era illuminato solamente dalla luce azzurrina dello schermo sul
quale si muovevano i personaggi di un celebre varietà. Sembrava assorta,
nonostante non avesse mai nemmeno sorriso alle battute del programma. Quella
sera non aveva mangiato nulla.
“Niente”.
“Ma…”.
“Ho detto
niente”.
Rimase
immobile, ma dopo qualche attimo si sollevò dai cuscini con uno scatto nervoso,
mettendosi in piedi. Con lo sguardo a terra fece quindi per dirigersi fuori dalla sala, ma la voce dura del padre la costrinse a
fermarsi.
“Hai
deciso di metterti in punizione da sola in questo modo, Kris?”.
Lei mosse
lentamente lo sguardo, senza capire.
“Co… cosa?”.
L’uomo
resse gli occhi della figlia senza problemi, e non disse altro. Continuò invece
la signora Grover, dopo essersi scambiata un’occhiata
col marito.
“Kris, i
tuoi voti scolastici sono calati di molto nell’ultimo mese. Un tuo insegnante
ci ha chiamato in ufficio, qualche tempo fa, dicendo che la cosa lo preoccupa
molto. E ha anche aggiunto che salti spesso le
lezioni…”.
Si fermò. Alex, in piedi fra il tavolo e il salotto, osservava i
volti dei familiari, teso. Non sapeva nulla della situazione di sua sorella. Dalla
sera in cui Kei era ritornata non aveva più avuto modo
di parlarle, un po’ perché Kristine non era mai stata
in casa, un po’ anche per colpa sua. Non poteva negare di averla
trascurata in quell’ultimo periodo per cercare di
rimettere a posto le cose con Keith, è vero, ma di
sicuro il suo andamento a scuola non stava andando bene da molto prima. Da
almeno qualche settimana, o forse di più. E lei non
gli aveva mai detto niente.
“I professori
esagerano. Non dovete preoccuparvi”.
“E invece ci preoccupiamo. Sinceramente la cosa non ci piace,
Kris”.
Alex osservò la sorella, sapendo che nonostante
l’espressione apparentemente distesa sarebbe tra non
molto scoppiata. Comunque, anche il suo comportamento
era molto strano, da alcuni giorni.
“E’ quello che non vuoi ancora
raccontarmi, Kristine. E’ quel dannato segreto la
causa di tutto. Che ti riduce così”.
Sospirò,
tornando a guardare i genitori. Sua madre posò la forchetta sul piatto di
porcellana ornato da un contorno dorato, di sicura provenienza occidentale.
“Dalla
prossima settimana avrai un insegnante privato che verrà a farti ripetizioni
ogni due giorni”.
Kris non
mosse la testa, rifiutandosi di guardarli in faccia.
“Non
voglio”.
“E io non accetto discussioni. La questione è chiusa”.
Nella
stanza calò un silenzio pesante. Alex aveva praticamente la certezza che Kristine
si sarebbe avvicinata da un momento all’altro al tavolo per rispondere ai suoi
nel modo più insolente possibile, ma con suo grande sorpresa la scenata che si
era immaginato non avvenne.
La sorella
arrivò invece fino all’inizio delle scale, e prima di salire, con le dita sul
corrimano, pronunciò amaramente una sola frase.
“Vi
preoccupate per me solo quando vi fa comodo, non è vero? Già… avrei dovuto
pensarci. Avere una figlia che va male a scuola sarebbe una vergogna per la
famiglia Grover”.
Poi, solo
i suoi passi veloci sui gradini, il breve tratto di corridoio, e il rumore
sordo della porta che sbatteva.
Alex chiuse gli occhi, scuotendo il capo. I suoi non parlarono,
ma lui li ignorò, decidendo di seguire la sorella su per le scale. Forse era
meglio andare a calmarla. Ne avrebbe approfittato
anche per capire che cosa avesse, da un po’ di tempo.
“Magari questa volta ti
deciderai a dirmi come stanno le cose”.
Arrivò
davanti alla sua camera, ma quando fece per bussare, esitò. Conoscendola, Kristine gli avrebbe di sicuro detto di andare via, di
tornare più tardi, e Alex non voleva
rimandare nulla. Un principio di senso di colpa si stava facendo strada dentro
di lui, la sensazione di non esserle stato accanto quando più ne aveva bisogno. Kris non gli aveva mai
chiesto aiuto apertamente, è vero. Non l’aveva mai
fatto, non era da lei. Alex le aveva sempre dovuto tirare fuori tutto con la forza, fin da quando erano
piccoli, anche quando i ragazzi con cui era stata l’avevano fatta soffrire. Quando l’avevano usata, abbandonandola poi come un oggetto di cui
non avevano più bisogno.
Tutte le volte in cui i loro genitori l’avevano
fatta sentire sola. Una
figlia dimenticata.
Ma anche se Kris aveva sempre desiderato apparire
forte, non lo era mai stata. Nessuno di loro due era abbastanza forte per poter andare avanti da solo, per non avere bisogno dell’appoggio
dell’altro.
Ripensò
alla serata in cui era tornata Keith. Se prima di andare all’aeroporto non avesse parlato con Kris,
non sapeva se avrebbe ritrovato il coraggio necessario per affrontare gli
errori che aveva commesso in passato.
Sì, glielo
doveva. Le doveva tante cose.
Posò così la
mano sulla maniglia, e la spinse con decisione.
“Kris…”,
disse, immaginando di trovarla stesa sul letto e rannicchiata fra le coperte,
come faceva ogni volta che si chiudeva in camera.
Ma non era lì. Si stava invece cambiando, e teneva fra
le mani un maglione, quello che indossava poco prima. L’aveva appena sfilato. Alex ricordò che Kristine gliel’aveva
chiesto in prestito tempo fa, quando aveva
inspiegabilmente iniziato a mettersi spesso vestiti larghi e tute sportive.
Quando lo vide sulla porta, però, la sorella lasciò cadere
la maglia a terra. Aveva gli occhi sbarrati.
Ed in quel momento Alex non
poté fare a meno di notare dei segni, rossi e profondi ed in altri punti
tendenti al violaceo, che le coprivano l’addome, nudo sotto il reggiseno, insieme
alle braccia e alle spalle.
“Alex… co… come ti permetti di
entrare in camera mia senza bussare?!?”, balbettò lei.
Lo fissò per qualche istante senza sapere cosa fare, poi, chinandosi di scatto,
raccolse il maglione ai suoi piedi. Si coprì come poteva per tentare di
nascondere alla vista del fratello i lividi, ma lui, avvicinandosi, le strappò
l’indumento dalle mani.
“Cosa DIAVOLO sono questi?!”, esclamò.
“Alex… ”.
“CHI TE LI
HA FATTI?”.
“Per
favore… non urlare… I-io… sono… sono
caduta…”.
Il ragazzo
la spinse contro il muro della stanza, afferrandola per le spalle.
“Non provare
a raccontarmi altre balle”, disse quindi. Non gridava più, ma il tono che stava
usando non era di certo pacato. “Perché
non sono più disposto a lasciarti vivere un’altra vita di cui non so nulla. Mi
ero promesso di non intromettermi, è vero, di non
chiederti più spiegazioni, ma solo perché ti vedevo felice. Ora le cose sono
diverse. ORA mi dirai CHI ti ha picchiata, e subito
dopo IO andrò a restituirgli lo stesso trattamento”.
Kris
guardava in basso, gli occhi castani pieni di lacrime. Tremava, e sembrava non
riuscire a smettere.
“A-Alex… lasciami, mi fai male… ”.
“Ti ho
detto di dirmi CHI è quel FOTTUTO BASTARDO. E in che
RAZZA di giri ti sei messa”.
Alex continuò a tenerla contro il muro, senza accorgersi
di starle stringendo sempre di più le braccia. Alcune lacrime scivolarono lungo
le guance della ragazza, mentre una smorfia di dolore comparve sulle sue labbra
sottili, diventate rosse a furia di essere morsicate per
il nervosismo.
“Mi stai…
MI STAI FACENDO MALE!”.
Kris urlò
all’improvviso, e il suo grido sembrò far tornare in sé Alex,
che la lasciò immediatamente. Indietreggiò di qualche passo, rendendosi conto
solo in quel momento di essere stato troppo impulsivo. Guardò con orrore i
segni che aveva lasciato sulla pelle di Kristine, sommati a quelli, innumerevoli, che già aveva, e
si pentì della sua reazione violenta. Non credeva di poter arrivare a tanto.
Non credeva di poter far del male a sua sorella perdendo il controllo a quel
modo.
“Perdonami,
io… ”.
“ESCI DI
QUI!”.
Alex la guardò, mortificato. Gli occhi verdi del ragazzo
erano lucidi, proprio come quelli che stava fissando. Kris sembrava però fuori
di sé, ora, e continuava a tremare visibilmente. Era stravolta, e la voce
scossa dai singhiozzi usciva a stento, seppur con rabbia, istericamente.
“S-sono… stanca… stanca di TUTTO! Tu credi di sapere come
aiutarmi, ma non puoi sapere niente, NIENTE! E non
puoi fare NIENTE!”.
Riprese
fiato. Si passò una mano sugli occhi arrossati per asciugare le lacrime che
ormai le impedivano di vedere, poi fece un passo in avanti, e riprese a
parlare. Con tristezza, questa volta, e rassegnazione.
“Voglio
solo essere lasciata in PACE. Tu… non puoi fare niente per
me. Nessuno… può fare niente per me”.
Si girò.
“E ora vattene, per favore”.
Alex non aggiunse una parola. Fece ciò che gli era stato
chiesto e, con lentezza, richiuse la porta alle sue spalle.
Ancora
sconvolto percorse il corridoio, ma arrivato alla fine spostò piano gli occhi
sul salotto sotto di lui, al piano terra, visibile dalla ringhiera in legno che precedeva le scale.
I suoi
genitori erano seduti sul divano. La signora Grover
stava piangendo sommessamente, mentre il marito tentava di calmarla, tenendola
stretta a sé e dicendole a bassavoce parole che Alex non riuscì a sentire.
Li guardò
con compassione. A quanto pare la frase detta prima da Kristine aveva prodotto qualche effetto, dopotutto. Anche se i loro genitori avevano parecchi difetti, non erano
privi di sentimenti. Lui l’aveva sempre saputo, sapeva
che tenevano ai loro figli più di quanto non sembrasse a prima vista, ma probabilmente
solo ora si stavano rendendo conto di aver commesso degli sbagli. Soprattutto
con Kris.
Socchiuse
gli occhi. Avrebbero avuto tempo per rimediare.
“Chissà se è vero che non c’è
nulla che non si possa risolvere…”.
Kris stessa aveva affermato che agli errori si può sempre riparare.
Glie l’aveva detto quella sera, a proposito di Kei. Ma adesso, toccava solo ai
loro genitori crederci.
Scosse la testa, e asciugandosi gli angoli degli occhi,
umidi di lacrime non cadute, scese con fermezza le scale. Passando di fianco ai
genitori, questi si voltarono verso di lui.
“Alex, Kris…”, mormorò timorosa sua madre.
“Per ora
lasciatela stare. E’ meglio così, credetemi”, la
anticipò lui, prendendo il montgomery appeso di fianco alla porta. Se lo infilò, chiudendo gli alamari fino in cima.
La donna lo
fissò senza capire, gli occhi cerchiati dalla stanchezza, sfinita dal pianto.
“Ma… e tu dove vai a quest’ora?”.
Lui
sorrise brevemente.
“Non vi
preoccupate. Torno presto”.
Senza
lasciar loro il tempo di protestare, Alex infilò la
porta. Fuori soffiava un vento freddo, segnale che l’inverno si stava
avvicinando velocemente. Percorse le strade semideserte con le mani affondate
nelle tasche, fino a che giunse davanti ad una piccola, graziosa villetta,
isolata in fondo ad una stradina non asfaltata.
Entrò nel
cancello socchiuso, e dopo aver attraversato il modesto ma curatissimo giardino
suonò una volta il campanello. Attese più di un minuto, poi una voce femminile
rispose piano, chiedendo chi fosse.
Alex pronunciò il proprio nome, e dall’altra parte ci fu
silenzio per un attimo. Si sentì un quasi sussurrato “arrivo”, poi la donna
appese il citofono. Dopo qualche attimo comparve da dietro la porta, che aprì
di poco.
“Ma lo sai che ore sono?”.
Lo fissò
con aria di rimprovero, poi sembrò d’un tratto imbarazzata.
“Lo so che
ti ho detto che ci avrei pensato, però non mi sembra il caso che tu… ecco… ”.
“Keith, non si tratta di noi, ma di Kris. Sono qui perché ho
bisogno di parlare con te e Nicole”.
Lo sguardo
della ragazza si allarmò, e le iridi azzurre tornarono
a fissare Alex, brillando nel buio della sera.
“Oh…”.
“Ti prego.
Solo un minuto”. Spostò un attimo la testa. “Sono… preoccupato”.
Implorante,
il ragazzo continuò a guardare Kei, ma in quel
momento la porta si aprì completamente.
“Kei, chi è?”.
Nicole apparve di fianco alla sorella, i fluenti capelli
rossi raccolti sulla nuca. Indossava una vestaglia di seta bianca, ed era a
piedi nudi, subito visibili sulle piastrelle scure dell’ingresso.
“Alex?”.
Rivolse
un’occhiata interrogativa sia all’amico che a Keith, ma
quest’ultima rientrò in casa, invitando il ragazzo
oltre la soglia.
“Entra
pure”.
Lo
specchio le rimandava un’immagine di sé nella quale stentava a riconoscersi.
Il viso
sciupato, gli occhi arrossati, i capelli scompigliati.
Il corpo
magro, troppo magro, da troppo tempo.
I lividi.
Kris
chiuse gli occhi, portandosi una mano al braccio destro, quello che più le
faceva male. Il modo con cui Alex l’aveva afferrato
aveva riacceso il dolore della sera prima. Anzi, di tutte le precedenti
giornate.
Fissò ancora il riflesso davanti a lei con fastidio,
poi si voltò, abbandonandosi
sul letto come un peso morto. Non era propriamente disgustata da quello che era
diventata, ma dal fatto che stesse permettendo di lasciarsi ridurre così.
Aveva
visto gli occhi di suo fratello. Aveva visto la sua reazione. Ne aveva avuto paura ma l’aveva compresa, eccome se l’aveva
compresa, anche se lei gli aveva risposto a quel modo.
Gli aveva
detto di lasciarla stare, ancora una volta. Di non farle domande. Di non
aiutarla.
“Non puoi chiedermi di dirti
chi è stato, Alex…”, pensò, assaporando il sollievo dato dal fresco
delle lenzuola contro il suo corpo dolorante. “Anche se io stessa…”.
Aprì gli
occhi. Sì, avrebbe voluto mettere fine a tutto quanto, ma non poteva.
Anche se avrebbe voluto dire soffrire ancora, non poteva
lasciare che vincesse lui.
Lui.
Ricomparso
quella sera, emergendo dal buio.
Senza una
spiegazione, mandando via Tom.
Guardandola
senza vederla davvero.
Aprendo la
bocca una sola volta.
Una.
Cominciamo.
I suoi
occhi duri.
Gli occhi solitari di un lupo, gli occhi indecifrabili
e ipnotici di un animale notturno.
E lei, dopo un attimo di smarrimento, pronta, alla
porta.
L’unica
cosa che potesse fare, che sapesse fare.
Felice, incredula.
Illusa.
Lui che fa
pochi passi indietro per prendere la rincorsa, poi… la sua gamba destra che si
solleva.
Il pallone
sparire dall’erba in un attimo.
E’ diretto proprio verso di lei, nel mezzo… non è un tiro angolato, no…
Non è… angolato… è forte.
Ma non come
quelli di Oliver Hutton, o di un altro attaccante. E’ diverso.
Le ci
vuole poco per rendersene conto.
Molto poco.
La sfera
che le centra lo stomaco, facendola finire in fondo alla porta.
Sì, basta
questo. Ed il dolore.
Un dolore
atroce.
Nel
fisico, e nell’anima.
Era stata
cattiveria pura.
L’hai fatto apposta.
Tossisce
mentre lo dice, si porta una mano al ventre, tossisce ancora.
Ma da lui non riceve parole. Solo un altro pallone,
insieme a dolore, e freddo.
Ecco ciò che sente ancora. Come se il cuoio fosse
diventato ghiaccio.
Proprio
come il cuore della persona a pochi metri da lei.
Perché?
Non sa cosa diavolo voglia. Che pari
tiri impossibili? O semplicemente vederla distesa su
quel prato, a sputare sangue?
Cosa pretendi che faccia? Dimmelo!
Proiettili
crudeli.
Sulle
braccia, sulle spalle, sulle gambe. Uno anche sul viso.
Tiri su
tiri. Tutta la sera. Ripetutamente.
E alla fine, vederlo andare via all’improvviso.
Senza la
forza per rialzarsi, osservarlo sparire nel buio, così come era
apparso.
Lui, un animale
notturno.
I giorni seguenti,
poi, la stessa, spietata sequenza.
Con qualche parola in più, ma nulla di molto diverso
da offese, insulti, provocazioni.
Lui, Benjiamin Price.
Lui.
Come se
non ce l’avesse più, un cuore.
“Hai detto
proprio così?”.
“Certo. Ed è stato anche poco. Avrei potuto continuare a rinfacciare
a tutti e due un milione di cose per ore…”.
“Immagino.
Però ho come l’impressione che nonostante tutto non cambieranno
idea”.
“Sull’insegnante?
No, infatti. Ma non m’interessa. Sono sicura che hanno capito cosa intendevo, e questo mi basta”.
“Mh, lo credo anch’io… la lingua tagliente senza dubbio ce l’hai”.
Sentendo quell’ultima frase, Kristine si
girò verso Jude per guardarla con lo stesso sorriso
che era comparso anche sulle sue labbra.
“E con questo cosa vorresti dire?”.
L’amica
dagli occhi da gatta avvicinò il viso al suo, facendole una smorfia.
“Voglio
dire che è colpa tua se siamo qui fuori da un’ora!
Potevi contenere il tuo nervosismo almeno per oggi e sfogarti per la prossima
serata coi tuoi, no? La prof ha buttato fuori dall’aula anche me… ”.
“Non sono stata l’unica ad averle risposto, mi sembra!”.
“Ma il mio spirito di studentessa ribelle è sorto da quando
ho iniziato a frequentare una certa persona… e indovina di chi si tratta?”.
Nel
corridoio del secondo piano dell’Istituto privato Shyutetsu
risuonò la risata chiara delle due amiche, che dovettero però subito zittirsi
quando la professoressa si affacciò dalla porta dell’aula per riprenderle di
nuovo.
“Credo che
anche l’ultima ora a reggere questi secchi d’acqua non ce la toglie nessuno… ”,
mormorò quindi Judith, scrutando il fondo rovinato del contenitore metallico con
rassegnazione. Era pieno fino all’orlo, e piuttosto pesante.
Kris non
disse nulla, ma sospirò. Quando poi rialzò la testa gli occhi
le caddero sul piccolo cortile visibile sotto le finestre del corridoio, come
sempre deserto a quell’ora. Erano infatti
quasi le quindici, e la giornata scolastica stava fortunatamente giungendo al
termine.
Si
avvicinò al vetro.
“Che cosa guardi?”. Jude le si affiancò.
“Oh,
nulla. Non c’è nessuno”.
Mentre la ragazza dai capelli scuri si sporgeva
leggermente dal davanzale, Kris lasciò improvvisamente il secchio, che si posò
sul pavimento con un tonfo sordo. A quel rumore, Judith si girò di scatto.
“Stai… stai bene?”.
Kris
circondò di nuovo il manico del secchio con le dita, senza però muoverlo da
terra.
“Sì… è
solo… uhm, niente, mi facevano male le braccia”.
“Troppo
allenamento?”.
“Uh… sì,
immagino di sì”.
Si
massaggiò velocemente le spalle, pensando che per sua fortuna la divisa
invernale copriva completamente i lividi che aveva
sulle braccia. Se Judith li avesse visti sarebbe stata
costretta a spiegarle da dove venivano, e Kris non aveva la minima voglia di
assistere ad un’altra scenata. La discussione della sera prima con suo fratello
le era bastata…
“Quand’è
la prossima partita?”.
“Tra
cinque giorni. Con la Flynet”.
Si
appoggiò con la schiena al muro, rifiutandosi per il momento di tenere ancora
in mano il contenitore ai suoi piedi.
Jude la osservò, pensando a cosa chiederle. Da quando le
aveva parlato dei sentimenti che provava Becker per lei, non aveva più saputo cosa fosse successo.
Kris non le aveva detto più nulla, e Tom era sempre stato irraggiungibile via telefono. Con
molte probabilità non aveva accettato il suo consiglio di farsi avanti con Kristine. Anzi, di sicuro.
Fece per
staccare gli occhi dal cortile che aveva ricominciato a fissare, annoiata, per
guardare in faccia Kristine, ma qualcosa attirò la
sua attenzione. Una figura familiare era infatti
comparsa sotto gli alberi spogli, stretta in una giacca scura. Stava camminando
con lentezza.
“Toh, c’è
Price”, disse quindi, appoggiandosi ancora al davanzale. “Strano vederlo ancora
in giro. Di solito se n’è già andato a quest’ora
del pomeriggio”.
Kris si
voltò.
“Dov’è?”.
L’altra glielo
indicò con un cenno del capo.
“Laggiù”.
Rimasero
entrambe in silenzio ad osservare Benji avvicinarsi
ad un grosso ciliegio dai nudi rami scuri, per poi sedersi ai suoi piedi
lasciandosi cadere mollemente. Da una tasca tirò fuori una sigaretta, la accese
e dopo aver fatto un tiro sollevò la testa al cielo nuvoloso. Pareva stanco.
Judith
notò con la coda dell’occhio il modo con cui Kris lo stava fissando. Non era
capace di definirlo. Era uno sguardo triste, malinconico, come rassegnato a
qualcosa di inevitabile, ma allo stesso tempo duro e distaccato,
in qualche modo addirittura sprezzante. Uno sguardo dove sentimenti opposti si
scontravano.
“Kris, hai
capito… cosa provi per lui?”.
Jude le aveva fatto quella
domanda quasi a bassavoce. L’altra però non spostò la
testa, fece solo un piccolo sospiro e non parlò fino a quando risollevò il
secchio d’acqua da terra. Solo allora, con un sorriso triste, guardò l’amica.
“Non ha
più importanza, ormai”.
Il signor Gunnell, in piedi a braccia conserte a bordo campo,
guardava concentrato i movimenti dei giocatori al centro del rettangolo. Poco
distante da lui, intento invece a studiare lo schema di gioco del prossimo
incontro, Oliver Hutton
sollevava solo a tratti gli occhi dai fogli stampati fissati alla cartellina
che aveva in mano.
Nonostante
la temperatura si fosse abbassata notevolmente in quegli ultimi giorni, la New Team non sembrava essersene accorta. Gli allenamenti
andavano sempre meglio, e tutti apparivano al massimo della forma. Holly era quasi certo che sarebbe riuscito a fronteggiare
senza troppi problemi Callaghan, e magari anche a
batterlo. L’intera squadra ne era convinta.
“Uhm… Oliver?”.
Il ragazzo
alzò lo sguardo sull’allenatore.
“Sì?”.
L’uomo
fece qualche passo verso di lui, mettendo una mano in tasca.
“Ecco…
volevo chiederti se… anche tu ti sei accorto che da due giorni Kris Grover non si fa vedere”. Si massaggiò
gli occhi con le dita, poi, stanco, tornò a guardare il numero dieci. “Credimi, non voglio darti l’impressione di essermi fissato
con Grover. So che da un po’ di tempo lo rimproveravo
in modo pesante per i suoi ritardi, e…”.
“Non si
preoccupi mister. La capisco”. Hutton si alzò dalla
panchina su cui era seduto, posando a lato la cartellina e la biro con la quale
stava segnando alcuni appunti.
Già, Holly era certo che la New Team
avrebbe battuto la Flynet, se solo… non ci fossero
state un paio di cose a preoccuparlo.
Sospirò.
“Anch’io
ho notato le assenza di Kris. Tempo fa le avevo detto
di non essere troppo severo con lui solo perché credevo che avesse qualche
problema personale che gli impediva di essere
puntuale, ma…”. Gettò uno sguardo al cielo, plumbeo. “… è anche vero che non possiamo
permetterci di avere il nostro primo portiere in forma discreta. Non adesso, a pochi
giorni dalla partita”.
Il mister
scosse il capo.
“E’ un
guaio. Ma nessuno sa dove sia finito?”.
“No.
Dovrei chiedere a Benji, ma oggi non è ancora arrivato. E’ lui che allena Grover
la sera, anche se forse Kris ha smesso di andare anche ai loro incontri…”.
I due si
guardarono, senza sapere che fare. Trascorse così un’altra mezz’ora di allenamento, e quando il sole tornò ad affacciarsi
pallido fra le nuvole, il mister richiamò i ragazzi per una pausa.
Holly osservò il gruppo raccogliersi oltre la linea bianca
del perimetro, seguendo con particolare attenzione i movimenti di uno dei
membri della squadra, l’unico che, da troppo tempo
ormai, pareva non essere più lo stesso. Lo vide staccarsi dagli altri e, scuro
in volto, dirigersi verso gli spogliatoi, aprendo e chiudendo la porta senza
farsi notare. Da nessuno, meno appunto da Oliver, che
scusandosi velocemente con gli altri compagni seguì l’amico oltre il corridoio.
“Sei fra
noi, Tom?”.
Il
capitano si appoggiò al muro della stanza degli armadietti. Pronunciò quella
domanda con tono severo e fissando Becker che, fermo
davanti al proprio con l’anta aperta, stava controllando qualcosa all’interno
del borsone appoggiato sul ripiano metallico.
“Oh…”. Il
ragazzo dai capelli castani rimise subito a posto ciò che aveva preso dalla
sacca, allontanandosi di colpo dall’armadietto. “Ciao Holly…
io… torno su subito, stavo solo controllando che…”.
“Stavi chiamando
Grover?”.
Hutton fece qualche passo nella sua direzione, le mani
nelle tasche dei pantaloncini. Il suo viso era duro, ma anche preoccupato.
Tom aprì un poco la bocca, sorpreso.
“Io… non…”.
“Ho capito
già da un po’ che Kristian c’entra in qualche modo coi tuoi problemi. Non è necessario che cerchi di nasconderlo”,
lo interruppe l’altro. “Vi conoscete da tanto, siete
amici da anni, e certe volte può succedere che si incrini
qualcosa. In un’amicizia, intendo”.
Il capitano sorrise, continuando ad osservare il
numero undici della New Team.
“Questo
discorso… in parte l’abbiamo già fatto, lo so. E come quella volta, anche adesso non voglio chiederti cosa
sia successo. Immagino che quel segreto che non potevi rivelare sia rimasto
tale. Però…”.
Arrivò
davanti a Tom, e l’altro, a labbra serrate, chinò la
testa, già sapendo dove l’amico voleva arrivare.
“… ora la
cosa si sta facendo troppo seria”, continuò Hutton. “Dovete
risolvere ogni cosa, o l’intera squadra ne farà le spese. So che tu sei capace
di giocare al meglio in ogni caso, nonostante il tuo stato d’animo… ma Kris no. Ne abbiamo avuto una prova
nella partita con la Artic, se ricordi”.
Appoggiò
le mani sulle spalle di Becker e lui, risollevando
gli occhi, lo fissò tristemente.
“… Già”.
“Tu sei
l’unico fra noi che sa come contattarlo. Ti prego, cerca
di fare qualcosa. Riportalo agli allenamenti, cerca di fargli capire che non
può lasciarsi andare in questo modo”.
Fece una
pausa.
“E se vorrete… io sarò pronto a darvi una mano”.
Tom annuì piano, rivolgendo al proprio capitano un
piccolo sorriso, grato.
“Okay”.
Hutton batté una mano sulla spalla del ragazzo, e scambiandosi
un altro sorriso i due fecero per tornare in campo. Voltandosi, però, i
calciatori dovettero fermarsi un’altra volta.
Perché, fermo sulla porta, c’era Price.
“Di sopra
gli altri chiedono dove siete finiti”, comunicò il portiere, fissandoli. “Vi
consiglio di sbrigarvi. Non è il caso di far perdere tempo prezioso al resto
della squadra”.
Detto
questo, Benji portò una mano alla tasca posteriore dei jeans, tirando fuori un pacchetto di sigarette e un
accendino. Ne accese una.
Mentre con disinvoltura il ragazzo iniziava a fumare, Oliver e Tom rimasero a guardarlo,
senza parole.
Price si
voltò quindi per tornare nel corridoio, ma Hutton lo
richiamò.
“Benji…”.
“Mh?”.
“Scusa, è
che…”. Il numero dieci si schiarì la gola. Ultimamente, Price lo metteva a
disagio molto spesso. “… ci stavamo domandando se, per caso, sapevi perché Kris
non è venuto agli allenamenti di questi ultimi due giorni. Magari,
visto che voi vi vedete ogni sera…”.
“Non ne so
niente. Mi spiace”.
“…Ah”.
Benji riprese a camminare. Era visibilmente scocciato, ma
la voce preoccupata di Hutton lo bloccò ancora.
“Mi sembra
che… che tu… non abbia mai fumato”.
Silenzio.
“E allora?”.
“Ecco… beh,
un… uno sportivo non dovrebbe fum…”.
“Fatti gli
affari tuoi, Hutton”.
Il
portiere lo guardò infastidito, ma non riprese a camminare, forse in attesa di una replica. Holly, però,
letteralmente gelato dalla risposta secca e dura di quello che aveva sempre
creduto un amico, non sapeva che altro dire. Era già la seconda volta in poco
tempo che Price si comportava in quel modo, la seconda dal giorno della famosa
partita con la Artic.
Era chiaro
che anche il suo atteggiamento, in qualche modo, doveva
c’entrare con Kris, ma il numero dieci non aveva idea di come affrontare la
discussione con Benji. Non sembrava troppo disposto a
parlare. Decisamente no…
Gettò così
un’occhiata interrogativa a Tom, fermo a pochi passi
da lui, speranzoso in un suo aiuto.
Ma Becker non era girato nella
sua direzione. Stava infatti fissando con gli stessi,
identici occhi di Price proprio l’SGGK.
Occhi
gelidi, dallo sguardo tagliente come una lama.
“Holly, tu torna pure su. Di’ al signor Gunnell
che arrivo tra un secondo”.
Il
capitano osservò l’amico meravigliato, ma non si oppose alla sua richiesta. Probabilmente, anzi, molto probabilmente, lui e Price avevano qualcosa
da chiarire. Ed era sicuramente meglio se lui
ne restava fuori.
“Forse un giorno tutto questo
mi risulterà più chiaro…”.
Superò i
due giocatori e, con una breve corsa, sparì alla fine del corridoio.
Rimasti
soli, Becker e Price restarono in silenzio per un
lungo istante. Poi, facendo solo qualche passo in avanti, Tom sorrise sardonico.
“E così hai iniziato a fumare. Uhm, a
quanto pare devi essere piuttosto nervoso. Ma Holly ha ragione, non dovresti”.
“Ed io non ho bisogno delle vostre prediche. Faccio quello
che mi pare”.
“Sì,
immagino… in fondo, l’hai sempre fatto”. Fece una pausa. “Cos’è successo, Benji?”.
“Di che
stai parlando?”.
“Con
Kris”.
Il
portiere non rispose. Si limitò a fare un altro tiro, e mentre il fumo si
disperdeva nell’aria, Becker si avvicinò
ulteriormente a lui.
“Spero per
te… che tu non abbia fatto quello che penso”, gli disse quindi con vago tono di
minaccia, cercando di capire qualcosa dall’espressione del suo viso che, però, non
sembrava tradire alcuna emozione. “Ti conosco, Benji. Come conosco il Benji di
una volta. So cosa puoi esser capace di fare se viene
risvegliato il tuo orgoglio. E l’idea mi spaventa”.
L’altro
fece qualche passo nel corridoio, osservando le spirali grigie nelle quali era
immerso muoversi al soffio del suo respiro.
“Anche se fosse, la cosa non ti riguarda”.
Becker strinse i pugni lungo i fianchi, spalancando gli
occhi.
“Allora… l’ha fatto davvero…”.
Deglutì,
pentendosi amaramente di essersene andato via, quella sera al campo. Di aver commesso un altro errore, l’ennesimo sbaglio che poteva
essere evitato. Kris l’aveva respinto, Benji
era tornato reclamando il suo posto come allenatore e il suo stato d’animo di
quel momento aveva fatto il resto.
L’aveva deciso.
Aveva
creduto che lasciarla lì, con Price, sarebbe stata la cosa migliore per lei,
quello che desiderava, quello che Kristine voleva.
Ma per lui, invece, era stata la più comoda. La via
più semplice per non soffrire ancora.
“Invece, è stata lei a soffrire.
E la cosa peggiore è… che sapevo che sarebbe successo”.
Sentì un
nodo formarsi in gola, ma capì che quello non era il momento di pensare ai
rimorsi. Avrebbe avuto tempo dopo per rimettere a posto le cose, per parlare
con Kris. Ora, c’era qualcun altro con cui doveva finire una chiacchierata.
Chiuse gli
occhi con un profondo respiro e, una volta che li ebbe riaperti, fulminò Benji con un’occhiata.
“La cosa
mi riguarda, invece”.
Fece per
proseguire, ma senza avere nemmeno il tempo di capire cosa fosse
successo Tom si ritrovò spinto con violenza contro
la parete alle sue spalle. Le dita di Benji tenevano
stretta in una morsa ferrea la sua maglietta, appena sotto al
collo, ed il calciatore poteva sentire la pressione contro il suo sterno
farsi ogni secondo sempre maggiore.
“E perché dovrebbe? Decido io come allenare il mio sostituto,
Becker”.
“Ma anche Kris ha un limite. Non è un
robot, lo vuoi capire?! Andando avanti così potrebbe anche non riuscire
a giocare, la prossima domenica”. Cercò di riprendere respiro. “Lo sfinirai,
fisicamente e psicologicamente… non hai nessun diritto
di trattarlo in un modo simile solo perché hai il sospetto che sia…”.
“Ne ho
tutti i diritti, invece”, scandì sibilando il portiere, senza staccare lo
sguardo da quello, furioso, di Tom. “Eccome se ne ho.
Quel Grover ha bisogno che qualcuno gli faccia capire come ci si comporta in campo. Io non accetto né sfaticati, né femminucce che mi sostituiscano.
Voglio uomini veri. E se lui non è capace di esserlo,
glielo insegnerò io. Con le cattive, se necessario”.
L’espressione del numero undici, a quella frase, si fece
ancora più aspra.
“Scommetto
che non hai pensato nemmeno per un momento che potresti esserti sbagliato
riguardo a quella notte, vero?”.
Price
indebolì la spinta sul petto di Becker.
“No, e comunque non so proprio come potrei essermi sbagliato. In
ogni caso per la partita con la Flynet Kristian ci sarà di sicuro, te lo
garantisco. E sarà in piena forma”.
Price
lasciò finalmente il calciatore. Lo guardò ancora con i suoi
occhi scuri, e dopo essersi portato un’ultima volta alla bocca la sigaretta,
ormai diventata un mozzicone, la spense sotto i piedi.
Si girò, dirigendosi
all’uscita per il campo.
Becker, invece, rimasto fermo contro il muro, si passò con
calma una mano sulla maglietta spiegazzata. Attese qualche secondo, poi ripuntò gli occhi sulla schiena del portiere che si
allontanava.
“Sai, Benji, ero convinto che avessi capito da
tempo certe cose. E cioè cosa c’è davvero di
importante, da salvare, in questo mondo che ormai conosce solo parole come egoismo,
potere, vittoria. Orgoglio”.
Il
portiere mosse di poco il viso, senza però voltarsi.
“Ma a quanto pare mi illudevo. Le persone come te non sono capaci di cambiare. Sei rimasto lo stesso
ragazzino odioso di otto anni fa. E
stai certo che continuando così rimarrai di nuovo solo, proprio come lo eri allora”.
Tom non aggiunse altro. Si staccò dalla parete e,
superato l’SGGK, immobile in mezzo al corridoio, si incamminò
fuori dagli spogliatoi.
Quella
sera, una notte senza luna. Freddo, un freddo secco, non un filo di vento. Nessuno
in giro.
Con gli
occhi bassi, Kris camminava lungo la rete del campo
d’allenamento. Da almeno dieci minuti non si decideva ad entrare, ma non perché
fosse arrivata in anticipo. Almeno, non solo per quello.
Mentre osservava il campo attraverso i piccoli rombi vuoti
creati dai fili verdi incrociati, annusava attentamente l’aria. Non aveva mai
fatto caso prima agli odori che c’erano la sera, ma
ora che li aveva sentiti ne era rimasta disgustata.
Gas di
scarico, e poco altro.
Infilò le
dita nella rete, fissandosi la punta delle scarpe da ginnastica ormai consumate.
In realtà aveva respirato bene i profumi di Fujisawa,
quell’estate. Ma erano stati
profumi. Piacevoli.
Quello
dell’oceano, che arrivava fin nell’ufficio di Nicole,
trasportato dal vento.
Quello dell’erba appena tagliata, proprio lì, al
campo, durante gli allenamenti.
Sensazioni.
Ricordi, in pochi mesi già così tanti. Ma che forse,
adesso, era meglio prendere e gettare via.
Tutti.
“Ora nemmeno l’aria è più
quella di quando sono arrivata”, pensò. “Niente.
Niente è uguale a quando sono venuta qui”. Alzò
gli occhi al cielo. Era nero come inchiostro, e per
nulla consolante. “Forse sono arrivata
davvero alla fine. E forse sarebbe meglio lasciar
perdere ogni cosa”.
Si staccò
dalla maglia metallica con un movimento improvviso, provocando una vibrazione
lungo tutta la rete. Era veramente tentata ad andarsene, ma al tempo stesso…
non ci riusciva.
Scosse la
testa, pensando che era una stupida a continuare a
sperare. In cosa, poi?
“Muoviti”.
La voce di
Price, emersa dall’oscurità, fece sussultare Kris, che si voltò di scatto,
facendo due passi indietro. Fissò la figura ferma a pochi passi da lei, e
deglutì. A quanto pare anche lui era arrivato in
anticipo. Fantastico…
“…
arrivo”, mormorò piano, quasi per non farsi sentire. Stava iniziando a non
poterlo più vedere, ma non avrebbe voluto che
succedesse. Non voleva odiarlo.
O, più precisamente, non poteva. Nonostante
tutto il male che le stava facendo.
“Iniziamo
subito”.
La guardò
un attimo. Anche Kris sollevò il viso, ma appena il
suo sguardo incrociò quello di Benji, il ragazzo si
voltò. Raggiunse l’ingresso del campo, e lei ne seguì i movimenti con occhi
lucidi di lacrime che Price, di sicuro, non aveva notato.
Sì. Avrebbe
continuato a subire quel calvario senza lamentarsi, e non solo per provare a se
stessa che poteva farcela.
Si passò
una mano sulle guance.
“Io ti amavo. E non posso dimenticarlo”.
Ora
l’aveva capito. Non poteva sfuggirgli, non poteva
opporsi.
E non se ne sarebbe andata. Qualunque cosa Price
avesse fatto.
Qualunque…
Lentamente,
entrò nel rettangolo di erba scura. Ma mentre si posizionava in porta, ormai preparata a ciò che avrebbe
dovuto sopportare per le prossime ore, Kristine notò Benji avvicinarsi insolitamente a lei. Aveva lasciato i
palloni dell’allenamento a terra, più indietro.
“Perché
non stai più venendo agli incontri con la squadra, al
pomeriggio?”, le chiese improvvisamente, rompendo il silenzio intorno a loro.
Kris lo
fissò, stupita. Non le aveva mai fatto domande su nulla,
in tutte quelle sere.
“Beh…”.
“Allora?”.
“Ecco, è
che… non riesco… a riprendermi dai tuoi…”. Rimase per qualche istante a pensare
a come chiamarli. “…a… allenamenti, in sola mezza giornata. E
la mattina vado a scuola. Quindi…”.
“Non dire
assurdità. Vedi di tornarci prima che decida di raddoppiarti le ore con me”.
“Ma…”.
“Ho
detto”, la interruppe ancora, alzando la voce. “che ci
tornerai. Nessun ma. Uhm, anzi…”
L’SGGK ridusse gli occhi a due fessure, fermandosi un
attimo.
“… Credo che
le cose si possano tranquillamente fare entrambe. Perciò,
da domani, le ore diventeranno tre. Siamo intesi?”.
Kristine mosse le labbra per replicare, ma dalla sua gola
non uscì alcun suono.
“E’… è
pazzo… tre ore… con lui?”.
Osservando
l’espressione comparsa sul viso di Grover, Price fece
un piccolo sorriso di soddisfazione. Non aveva avuto il coraggio di
rispondergli, proprio come aveva immaginato.
“E’ così
che alleno i miei sostituti, Becker”, sussurrò, prima
di voltarsi d’improvviso. “Precisamente… in questo modo”.
Corse verso
il gruppo di palloni abbandonati fra l’erba e, impossessatosi di una delle
sfere, scattò in avanti, dirigendosi velocemente verso la
porta.
Kris,
ancora sconvolta per le sue parole di poco prima, vide con orrore il ragazzo
avvicinarsi a lei. Non aveva nemmeno avuto il tempo di indossare i guanti, ma dubitò che a Benji importasse.
Come sempre.
La palla si
staccò dal piede del calciatore dopo pochi metri di corsa e raggiunse, con una
violenza inaudita, lo stomaco della ragazza che, ferma fra i pali, crollò subito
a terra.
La sfera rotolò
davanti a lei. Kris la fissò, e appoggiando entrambe le mani sull’erba tentò di riprendere fiato. Ma non
riuscì nemmeno a sollevare la testa perché un altro, fortissimo colpo la scagliò,
dopo solo pochi secondi, col viso nella rete.
Riaprì gli
occhi con fatica. Un dolore intenso le martellava le tempie, ma tentò di
ignorarlo.
“Allora?
Non sei più capace di bloccare il pallone? Su,
rialzati!”.
Dopo altri
tre tiri dello stesso genere, Benji ripeté ancora
quella frase. E dopo altri due, ancora.
E ancora.
la cosa non ti riguarda" soffio del suo respiroIl portiere della New Team, visibilmente stremato, cercò di rimettersi
in piedi per l’ennesima volta, ma un altro bolide lo anticipò. Il pallone lo
colpì questa volta alla spalla destra, scaraventandolo brutalmente in fondo
alla porta.
Kris
rimase immobile, appoggiata con la schiena alla maglia di corda bianca, la mano
sulla spalla dolorante.
“Vuoi iniziare a
lavorare seriamente, Grover?”, esclamò allora Price,
continuando a fissarla freddamente.
La
voce del ragazzo risuonò nella mente di Kristine che,
con la testa abbassata, tentava di controllarsi. Aveva una voglia disperata di
scoppiare a piangere, ma non lo fece.
“Non era questo che volevo. Non era
questo che volevo…”.
In
quel momento, però, una nuova, feroce pallonata la colpì ancora allo stomaco,
facendola tornare crudelmente nel presente. Si accasciò in ginocchio, tossendo.
“Dimmi…”.
Finalmente,
Benji si fermò. Smise di calciare palloni,
avvicinandosi senza fretta ai due pali bianchi.
Il
freddo, adesso, iniziava a farsi insopportabile.
“…
devo prendere in considerazione… l’idea di sbatterti fuori
dalla squadra?”.
Kris
sollevò lentamente lo sguardo. Price era a pochi centimetri da lei e la stava
fissando, le ginocchia piegate per guardarla negli occhi. Nei suoi, glaciali,
non c’era la minima compassione, e non accennavano a volersi distogliere dal
suo viso.
Un
brivido percorse la schiena di Kristine. Non sapeva
se fosse colpa del freddo nell’aria o di quello nello sguardo di Price. Non
riuscì a dire nulla, ma proprio allora il ragazzo mutò espressione, ed un
sorriso beffardo gli comparve sulle labbra.
“Prima
di offrirti come portiere ti saresti dovuto informare meglio,
lo sai?”.
Kris dischiuse la bocca.
“Co… cosa vuoi dire?”, mormorò.
Benji la fissò ancora per un istante, poi si rialzò, iniziando a
camminare lentamente, di nuovo, verso la linea mediana.
“Che il calcio non è uno sport per donnicciole”.
Quelle
parole sprezzanti sembrarono aleggiare, per un attimo, in quella cupa notte
senza luci, e a Kris parve che il proprio flusso sanguigno si fermasse, solo per poco. Che si fosse fermato il
battito del suo cuore.
Ma che bel visino! Lo sai, Grover?
Ora che ti guardo
bene mi sembri un po’ troppo gracile e delicato per resistere all’intero
campionato…
Era
quello che le aveva detto Mark
Landers, mesi prima.
Si è messo in mostra come al suo solito, non è vero?
Posso immaginare come si sarà comportato nei tuoi
confronti, avrà tentato di umiliarti in tutti i modi…
E Benji.
Quello che aveva detto quando l’aveva saputo.
Nella
sua mente, in quel momento. Quelle parole.
Se le ricordò.
Grover, mi
dispiace. Avrei dovuto esserci.
Kris
strinse le dita attorno ad un ciuffo d’erba, strappandolo.
Aveva
creduto…
Aveva
creduto che fossero diversi. Ne era convinta.
E invece…
Il calcio non è uno sport per donnicciole.
Price
aveva detto le stesse cose.
Per donnicciole.
Price…
In fondo… io e Landers
eravamo molto simili, qualche tempo fa. Ecco perché iniziammo
a odiarci cordialmente…
Era
sicura che fossero diversi. L’aveva sentito, percepito. Quel pomeriggio, a casa
di Benji, nonostante quello che lui le aveva detto.
Dici sul serio? Non ci credo… tu non
assomigli per niente a quel tipo…
Che idiota. Idiota.
Idiota.
Non poteva dimenticare
che l’aveva amato?
Non poteva… andarsene?
Sfuggirgli?
Strinse i denti, e
fissò Price. Lo fissò, come volendolo trapassare. Come potesse
lanciare delle lame, al posto di sguardi.
Lo fissò con un odio
che non sapeva di poter provare e con una rabbia che ormai, da troppo tempo, stava
trattenendo dentro di sé.
Affondò con forza le
dita nel terreno. Strinse il pugno attorno alla terra umida, sentendosi
ribollire.
Non l’aveva mai
guardato così. Non aveva mai guardato nessuno
così.
Lo sapeva, se ne
rendeva conto, ma adesso…
Adesso…
Benji…
Aveva
superato il limite.
Si
alzò, reggendosi con una mano al palo.
“Tu…
tu cosa vuoi saperne?”, iniziò prima piano, con un sussurro rabbioso. “Non sai…
non sai proprio nulla… non sai assolutamente NIENTE di me, Price!”, continuò
poi, gridandogli la stessa cosa che aveva detto a suo fratello, la sera prima. Si
sentiva strana, ma probabilmente era colpa dell’ira che le stava annebbiando la
vista o, ancora più probabilmente, del dolore che le pervadeva il corpo. Ebbe
l’impressione di perdere l’equilibrio, e si riappoggiò contro il palo.
Intanto
Price, per tutta risposta, aveva continuato a camminare, completamente
indifferente alle sue parole. Solo dopo un po’ si fermò, girandosi.
“E
questo cosa c’entra? ” disse.
Lei
rimase immobile, incredula di fronte all’incredibile distacco con cui andava
avanti a parlarle. Si portò una mano alla fronte, ormai sul punto di non capire
più nulla.
Pazzesco.
Era tutto assolutamente pazzesco…
Ma doveva
finire.
Si
lanciò furente dietro di lui, fino ad arrivare nei pressi delle panchine a
bordo campo. Il dolore adesso non importava, anche se ad ogni passo le sembrava di non essere più in grado di continuare.
Quando
afferrò Price ad una spalla il suo viso si contrasse
in una smorfia di dolore ma, almeno, riuscì a bloccarlo.
“Mi
sembra che fra uomini ci si debba parlare a viso aperto, o mi sbaglio? In questo caso sei tu la femminuccia, Benjiamin
Price!”, lo accusò Kris col fiato corto, senza però smettere di fissarlo.
Ma
il ragazzo, sempre estremamente calmo, a quel giudizio
assunse un’espressione indecifrabile.
“No,
ti sbagli. E’ solo che mi sembra stupido e inutile perdere la mia calma e il
mio tempo per discutere con te di una cosa simile. I problemi, qualunque essi
siano, si devono lasciare fuori dal campo. Te l’ho già detto una volta, mi pare. Per oggi, in ogni caso, è
meglio che la smettiamo qui”.
Dopo
queste parole, Benji si sistemò il cappello ma, nel
momento in cui fece per avviarsi verso lo spogliatoio, Kris gli sbarrò la
strada. Era sempre più furiosa.
Furiosa,
e addolorata.
“Per
quale motivo ti comporti così? Cosa DIAVOLO ti ho fatto?!”,
urlò senza quasi più voce, fermandosi a pochi centimetri dal suo viso. Questa
volta, Kristine stava piangendo.
Questa
volta, non era riuscita a trattenersi.
“Perché non cerchi di capirmi, almeno un po’? Sei freddo e crudele, ma io non sono solo un tuo compagno di
squadra, o un sostituto che devi allenare! Io…”. Kris si portò una mano al
petto, abbassando un attimo gli occhi. La mano le tremava. “… una volta ero
anche tuo amico, e tu lo eri per me… o forse hai solo
finto di esserlo? Dimmi, è così?!”.
Tornò
a guardarlo.
“Come…
come puoi dirmi di lasciare da parte i miei problemi, senza neanche sapere
cosa… mi fa star male, o la gravità delle mie preoccupazioni?! Rispondimi! Tu…
non sei più la persona che conoscevo. Quella con cui avevo
parlato tempo fa, a casa tua. Cosa… cosa ti ho
fatto per essere trattato in questo modo?! DIMMELO!”.
Le
parole le erano uscite dalla bocca come un fiume in piena. Non le importavano
le conseguenze. Voleva… voleva solo capire.
Far
terminare quella messa in scena crudele, e capire.
Benji l’aveva ascoltata
muto. La guardò negli occhi, dopo un istante di pesante silenzio.
“I
tuoi problemi non mi possono interessare. E poi, è giusto che prima o poi impari a crescere. Se i
sentimenti ti rendono più debole, allora dovrai sbarazzartene. Non mi importa se per te sarà difficile, o doloroso… dovrai
cambiare atteggiamento se vorrai continuare a giocare con la New Team.
Altrimenti, ripeto, per me te ne puoi anche andare
subito”.
Il
silenzio calò ancora una volta sul campo immerso nelle ombre, ad eccezione
fatta per i due fari accesi da Benji ai lati del
rettangolo. Kris guardò quel vuoto scuro davanti a sé per un lungo, lunghissimo
momento, riuscendo però a pensare ad una sola, unica cosa.
“No. Questo è davvero troppo”.
Basta. Basta.
La
ragazza alzò un braccio e, con tutta la forza che aveva, diede uno schiaffo a
Price.
Nell’aria
si udì un rumore sordo, e l’SGGK rimase fermo. Immobile,
allibito, con il viso piegato di lato.
Gli
occhi, spalancati, fissavano il vuoto, proprio come Kris pochi attimi prima.
“Non
ti preoccupare. Me ne vado immediatamente”, dichiarò quindi
lei, a denti stretti. “Comunque, avrei dovuto
immaginarlo che il grande e infallibile portiere Benjiamin
Price, così orgoglioso e pieno di sé, allenatosi e specializzatosi per anni in
Germania, non avrebbe mai accettato un principiante per sostituirlo. Ma penso proprio che nemmeno un professionista del tuo
stesso livello si sognerebbe mai di presentarsi come tuo sostituto. Quindi,
scordati pure la vittoria della New Team in questo
campionato, perché nessuno verrà ad aiutare un pallone gonfiato come te”.
Kris
si fermò per riprendere fiato. Non aveva idea di come potesse
parlare in un modo tanto orribile proprio alla persona che per anni aveva
considerato un modello da imitare. Che aveva amato con
tutta se stessa, seppur senza rendersene conto davvero.
Ma in quel momento, niente contava più. Niente.
Son tutti ricordi da gettare via. Tutti
quanti.
La
ragazza fece un profondo respiro, poi passò di fianco
a Benji, dirigendosi verso lo spogliatoio.
Prima
di lasciare il campo, però, si girò un’ultima volta verso di lui.
“Ah,
dimenticavo… l’unica ragione per cui ho accettato di
entrare nella New Team è stato perché avrei potuto giocare al fianco di
campioni del calibro di Oliver Hutton
e Tom Becker. E ancora adesso sono convinta che questa squadra valga
qualcosa solo grazie alla loro presenza. L’amicizia e l’intesa che c’è tra di loro sta alla base della loro forza e della loro
determinazione. E se per te i sentimenti davvero non
sono importanti, allora… beh, mi dispiace, ma non sarai mai nessuno. Addio, Benjiamin Price”.
Detto questo, Kristine aprì e richiuse
la porta, scendendo nel corridoio che portava agli spogliatoi.
Price,
ancora immobile, aveva la fronte imperlata da gocce di sudore. La decisione e
la violenza con cui Kristian gli aveva detto quello
che pensava l’aveva lasciato letteralmente senza parole. Non si sarebbe
aspettato neanche lontanamente una simile reazione, e quella spietata sentenza aveva indubbiamente prodotto qualcosa in lui.
Quelle
frasi, così simili a quelle di Becker.
Quelle
maledette parole alle quali aveva cercato di non pensare
per tutto il giorno.
Le persone come te non sono capaci di cambiare.
Si
scosse, e sollevando gli occhi fissò uno dei fari accesi sopra il campo.
Sorrise tristemente. Alla fine, la situazione si era ribaltata. Grover gli aveva restituito ogni parola, ma la differenza stava proprio nel fatto che tutto quello che Kris
gli aveva detto era vero, dannatamente vero, mentre le sue crudeli recite erano
sempre state solo penose mascherate.
Non
era però mai arrivato agli estremi di quelle sere. E non
aveva nemmeno mai creduto di essere in grado di diventare così.
E Tom,
questo, non lo sapeva.
Sia
Becker che Grover non sapevano che si era odiato, dio solo sa quante volte.
Ma aveva fatto finta di nulla e sempre, guardandosi
allo specchio, aveva provato a convincersi di stare osservando il solito Benji. Un Benji
che sapeva quello che faceva, quello che voleva.
Sì,
aveva fatto finta di nulla… perché quello che era successo quella notte, quando
Kris si era ubriacato, l’aveva costretto a commettere tutto ciò che aveva fatto
subire a Grover.
Non
aveva potuto farne a meno. Per difendersi.
Stai certo che continuando così rimarrai di nuovo solo, proprio come lo
eri allora.
Lo sapeva. Dannazione, lo
sapeva. Era stato più forte di lui.
Invece di parlare…
Invece di chiarire…
Aveva preferito crearsi uno
scudo, per far guarire il suo orgoglio offeso.
E per dimenticare.
Quella notte, quando Kris mi ha toccato, mi sono sentito…
attratto da lui.
E non
posso negare che… che ancora adesso lo sono, ma… non riesco a capirne… il perché.
Ripensando
a quelle parole, Benji si portò una mano sul viso,
coprendosi gli occhi.
Era
stata quella l’unica, vera ragione per tutto quanto.
Cosa aveva iniziato a
provare, da quel momento, per Kristian?
Cosa?!
Grover era un ragazzo, è
vero, ma c’era qualcosa nel suo atteggiamento, nel suo sguardo e nel suo modo
di fare che lo attraeva. Lo attraeva in modo incredibile, innaturale per lui.
Non poteva negarlo, anche dopo aver cercato mille volte di dimenticare quella
sensazione. E poi, quando quella sera Kris lo aveva
abbracciato… quando aveva sentito sul proprio corpo il tocco di quelle sue mani
dalle lunghe dita pallide e affilate non sapeva più, esattamente, cosa avesse
provato o pensato...
Una
sola cosa gli era però stata chiara. E cioè che non
sarebbe più riuscito a togliersi dalla testa quel contatto.
No,
era assurdo. Lo era tutto quanto. Di sicuro non gli piacevano i maschi, ma… ecco,
per Kris era differente. Era sempre stato differente,
anche prima di quella notte. L’aveva capito solo più tardi, ma lo era sempre
stato. Sempre.
Tornò
con la mente al loro prima incontro.
Mi chiamo Kris Grover, e ho
17 anni.
I suoi
occhi limpidi, la sua voce sicura, il suo corpo sottile.
Ecco, usa questi.
La fiducia che gli aveva
dato.
Sei sicuro che posso usarli? In fondo, per te, devono
essere importanti…
Quante
volte ci aveva ripensato. Quante.
Sospirò.
Comunque, aveva davvero esagerato. E
come gli aveva detto Tom, non poteva nemmeno essere
totalmente certo che Grover, quella notte, avesse
agito con lucidità. In fondo era ubriaco, e magari non si stava rendendo conto
di quello che stava facendo, di quello che stava dicendo…
Benji sollevò lo sguardo
al cielo notturno. Non avrebbe dovuto giudicare subito Kris, anche se adesso il
problema non riguardava più soltanto lui, ma
soprattutto se stesso. Voleva assolutamente capire il perché delle sensazioni
che aveva provato e che continuava a provare in presenza
di Kris. Non aveva mai avuto alcun interesse per il sesso maschile, e allora… allora
perché? Perché provava quella confusione?
Aveva
come l’impressione che qualcosa gli fosse sfuggito.
Qualcosa
di incomprensibile, nascosto proprio in Kristian Grover.
Iniziò
a soffiare una corrente gelida, ed il portiere della New Team,
con un altro sospiro, si tolse il cappello.
Avrebbe parlato con Kristian,
si sarebbe scusato. Avrebbe fatto tutto ciò che avrebbe
dovuto fare fin dall’inizio e forse, una volta per tutte,
sarebbe riuscito a chiarire tutti i suoi dubbi.
E, infine, avrebbe chiesto a Kris di
restare.
Nel
frattempo, nello spogliatoio, la ragazza aveva appena sbattuto violentemente la
porta del proprio armadietto.
“Perché… gli ho detto quelle cose?”.
La
sua voce risuonò nella stanza, producendo un piccolo eco. “E
poi, quello schiaffo…”.
Si
coprì il viso con una mano, pentita, appoggiandosi all’armadietto con l’altra.
“Anche se non ce la facevo più… forse ho esagerato”. Sospirò,
passandosi le dita tra i capelli. “Ma purtroppo ora non posso più cambiar nulla. Ormai non
m’importa più di sapere la verità sul comportamento di Benji.
Anche se lo scoprissi, e cercassi di far tornare le cose come un tempo, lui mi
odierebbe comunque dopo quelle mie parole orribili… ”.
Si
guardò il palmo, e lo chiuse a pugno.
Forse sono arrivata davvero alla fine.
Scosse
la testa. Portò il dorso della mano sulla guancia, e si asciugò una lacrima di
rimorso che le era appena scesa sul viso.
“Già…
è finita. E’ proprio finita. Non mi farò più vedere dalla New
Team… e non saluterò nessuno, nemmeno…”.
Si
bloccò.
“…
nemmeno… Tom”.
La
ragazza pronunciò il nome del giocatore ad alta voce, volgendo tristemente lo
sguardo verso il suo armadietto, poco lontano dal proprio. Si avvicinò, e sfiorando
con le dita la targhetta col su il nome del numero undici
sorrise dolcemente.
“Grazie
di tutto… mi mancherai, ma non voglio più crearti
problemi. E anche per te sarà meglio se mi
dimenticherai”.
Rimase
un attimo ferma, gli occhi fissi su quel nome stampato
che aveva contato e contava per lei più di quanto immaginasse. Poi, lentamente,
iniziò a cambiarsi, consapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta che
avrebbe lasciato le sue vesti di portiere in quello spogliatoio.
Iniziò
ad indossare la camicia. Quando impersonava Kristian
si era sempre dovuta vestire con felpe abbondanti e di qualche taglia più
grande per nascondere le sue curve femminili, nonostante utilizzasse comunque la fasciatura al petto. Ma,
adesso, questo non sarebbe stato più necessario. Stava per ritornare per sempre
solo Kristine. Solo lei, e più nessun altro.
Proprio
in quel momento, però, sentì girare la maniglia della porta dello spogliatoio. Si irrigidì, coprendosi istintivamente davanti con le
braccia. La camicia era infatti ancora slacciata.
L’anta
si aprì, e qualcuno entrò. Kris udì alcuni passi, che poco dopo si arrestarono.
Si
chiese chi potesse essere, ma non provò nemmeno a
girarsi, né finì di allacciare la camicia. Non ci riusciva. Immobile, non si
voltò. Sapeva che la persona misteriosa era adesso dietro di lei, distante solo
pochi metri, ma la paura di essere scoperta l’aveva inchiodata davanti al
proprio armadietto.
Cosa… cosa poteva fare?
“Dobbiamo
parlare, Kristian. E’ importante”.
Era
la voce di Benji.
“Non
ero in me in queste settimane. E non avrei mai voluto
ridurti così, credimi”. Una pausa. “Ma avevo… le mie
ragioni”.
Kris
trattenne il respiro.
“No, questo non deve succedere. Non
deve”.
Chiuse
gli occhi.
“Vattene…”,
sussurrò, a denti stretti. “Vattene, Benji, prima che
tutto si rovini davvero… ”.
Ma il ragazzo non l’aveva sentita.
“…
Kris?”.
Lei
non si mosse.
“VATTENE”,
ripeté, a voce più alta.
A
quel comando, Price fece invece un passo in avanti.
“Lo
so, anche tu adesso hai… mille ragioni per non volermi più vedere, ma ci sono
delle cose che devi assolutamente sapere… e altre, che
ti devo chiedere. Quindi… ”.
“Fermati…
n-non avvicinarti di più!”.
Kris
si strinse ancora di più nelle braccia, e Benji,
stupito, la fissò.
“E perché non dovrei? Avanti, girati e parliamone… adesso sei
tu che non mi vuoi parlare guardandomi negli occhi. Di cosa hai paura? Forse…”.
L’espressione del ragazzo si fece sospettosa.
“…forse
mi stai nascondendo qualcosa?”.
L’altra
spalancò gli occhi, nervosissima.
“…
no… cosa… cosa ti dovrei nascondere?”, rispose, la voce tremante. “Voglio solo…
che mi lasci in pace!”.
Price
rimase in silenzio per qualche istante. Kristine
pensò che, alla fine, avesse deciso di rinunciare a parlare. Invece,
all’improvviso, si diresse velocemente verso di lei, afferrandole la spalla.
Kris
trasalì.
“Son venuto qui per spiegarti tutto… a chiederti scusa dopo
che te ne sei andato mollandomi quello… quello schiaffo, e adesso, proprio tu
che fino a poco fa mi pregavi di capirti, non vuoi
parlare?! C’è qualcosa di strano in te, Kristian… che
cos’è che non mi hai detto? Rispondimi, maledizione… e almeno, se non vuoi
parlare, girati! Forse ti vergogni a cambiarti di fronte ad un altro ragazzo?”.
Benji strattonò
violentemente la spalla di Kristine, cercando di
farla voltare. Lei tentò di opporsi con tutte le sue energie, ma il portiere le
afferrò il collo della camicia, tirandolo con forza.
Tirò,
e dopo tutti gli errori che aveva commesso, quella fu l’ultima cosa che avrebbe
dovuto fare.
Ci
fu uno strappo, poi il silenzio.
Trascorsero
alcuni secondi prima che Price si rendesse conto della
realtà dei fatti. Davanti a lui Kris, sconvolta, era in
piedi, le braccia incrociate sul petto nel tentativo di nascondere le bende
sotto la camicia, ora mezza lacera.
Il
ragazzo la fissò, shockato.
Così…
era questo il segreto di Kris. Kris… Kristian, era
una ragazza.
Una
ragazza.
Ora…
era tutto chiaro.
Dio
santo, come… come aveva…
“Tu…”,
cercò di dire.
Kris
alzò lo sguardo, gli occhi lucidi.
“Mi
dispiace, Benji… io… i-io non potevo dirtelo… cerca
di capire… non… mi avreste mai fatto giocare… e questo era il mio sogno…”,
mormorò, sull’orlo del pianto.
Lui
strinse i pugni.
“Tu…
tu mi hai ingannato… ci hai ingannato per tutto questo
tempo…”. Puntò gli occhi per terra, cercando di contenere la rabbia. “Come…
come hai potuto farlo? Volevi… prenderti gioco di ME? Cosa
volevi dimostrare, eh? Dimmelo!”, gridò, avanzando di
colpo di un passo e tornando a fissare la ragazza.
Lei
sobbalzò indietreggiando, e si coprì il volto con le mani. Era disperata.
“No!
Io non volevo prenderti in giro… io… io volevo solo…”, balbettò, mentre le lacrime
le iniziavano a scendere lungo le guance. “…volevo…”. Ma
la voce le morì in gola.
Ad
un tratto, però, dopo un momento di pesante silenzio, il rumore della porta
dello spogliatoio che sbatteva attirò l’attenzione di entrambi. Tom Becker era lì, vicino alla
fila degli armadietti, e guardava addolorato Kris.
“Tom! Che ci fai qui?”, lo aggredì Benji.
Il
compagno non gli rispose, fulminandolo, in compenso, con una severa occhiata.
Poi lentamente si avvicinò a Kristine, ancora tremante.
La ragazza lo guardò attraverso il velo opaco delle lacrime.
“Oh,
Tom… ”, sussurrò.
Lui
si tolse velocemente la giacca della tuta, mettendogliela sulle spalle nude.
“E’ tutto a posto… sta’ tranquilla. Ora ci sono
qui io”, le mormorò con dolcezza. “E’ tutto a posto, Kristine”.
La abbracciò, e lei si abbandonò al numero undici
lasciandosi stringere senza opporre resistenza.
Price,
di fronte a loro, aveva intanto osservato la scena allibito.
“Cosa? Kristine?”, ripeté il
portiere, marcando il nome della ragazza. “E tu, Tom… tu lo sapevi? L’ hai sempre saputo e non mi…”.
Deglutì. “… non… ci hai mai detto
niente?”.
Becker fissò, duro, il
compagno di squadra.
“E’
stata lei a pregarmi di non dire nulla, e per la verità ho pensato anch’io che,
alla fine, fosse la cosa migliore da fare. Kris non
voleva rovinare l’amicizia che era nata con te, con gli altri. Inoltre, se vi
avesse detto chi era veramente, non avrebbe più avuto la possibilità di giocare
nella New Team. Io ho scoperto il suo segreto per
caso, ma non l’ ho accusata di nulla. Anzi, ho
compreso il motivo del suo gesto, e l’ ho sostenuta. Sappiamo tutti e due cosa significa avere un sogno, non è vero Price?”.
Fece
una pausa, sperando che l’altro capisse, ma inutilmente. L’SGGK
si limitò infatti a fissare sia lui che Grover con
ancor più astio, e Becker scosse piano la testa.
“Anche tu dovresti capirla, e non prendertela come stai
facendo ora”.
“Capirla?
SOSTENERLA?”. Benji allargò le braccia, incredulo. “Tom, questa ragazza ci ha INGANNATI!”,
sentenziò, puntando l’indice contro Kris, che, ancora, aveva il viso nascosto
nel petto del calciatore. “Si è unita illegalmente alla squadra! E’ una donna,
e non può giocare con noi! Se lo sapesse la Federazione, il
signor Parson…”.
Ma l’altro lo interruppe, senza nemmeno
far caso alle sue ultime parole.
“Mi
dispiace davvero che la pensi così. Kris ti ha sempre ammirato. Per lei, tu sei
sempre stato un modello da seguire. Possiede il talento e la volontà per
diventare un grande portiere, e tutto ciò che sai dire
è… ”.
“No,
basta. Vi prego”.
Becker venne
invece fermato dalla stessa Kris che, liberatasi dall’abbraccio rassicurante
dell’amico, si mise fra i due ragazzi. “Non voglio che voi due litighiate. In
fondo Benji ha ragione, Tom.
Vi ho ingannati. Non merito più la vostra fiducia, né
quella della squadra”.
Chiuse
gli occhi per un lungo istante.
“Quindi, vi prego… lasciate stare. Me ne andrò”.
Detto
questo, Grover spostò lo sguardo verso Tom. Sorrise, anche se con molta amarezza.
“Grazie
per tutto quello che hai fatto per me. Non me lo
dimenticherò mai, stanne certo. E
poi… ”.
Non
riuscì però a terminare la frase, perché Becker le
prese le mani, stringendole. La guardò negli occhi.
“Non
se ne parla, Kris. Tu non te ne andrai. La New Team ha bisogno di te, ci serve il tuo aiuto per
vincere il campionato. Sono sicuro che tutti saranno d’accordo con me. Anche se
sei una ragazza, vedrai che spiegando loro le cose capiranno…”.
Lei
gli sorrise ancora, questa volta dolcemente, per poi
stringergli le mani a sua volta.
“Grazie,
ma… ”. Si intristì. “… ma non
penso che Benji sia dello stesso parere”.
Ci
fu un attimo di silenzio e Price, che aveva ascoltato la conversazione senza
intervenire, rimase un attimo con la testa girata, gli occhi fissi sul muro.
Né
Kris, né Tom riuscirono a
capire quali pensieri gli fossero passati per la mente in quell’istante,
ma pochi secondi dopo il ragazzo si voltò, iniziando a camminare verso l’uscita
dello spogliatoio.
“No.
Per me va bene”, disse con voce incolore, voltato di spalle rispetto ai due. “Ma
non diremo nulla ad agli altri. Il clima della squadra
si potrebbe rovinare. Meglio aspettare la fine del campionato”.
Il
portiere sganciò dalla cintura a cui l’aveva fissato il cappello che aveva
tolto poco prima in campo, e se lo rimise in testa, abbassandolo sulla fronte.
“In
ogni caso”, precisò, prima di afferrare la maniglia, “quello che hai fatto, Grover, non ha la mia approvazione”.
Aprì
la porta, ed in tono gelido aggiunse le ultime parole.
“E non l’avrà mai”.
Grover e Becker osservarono Benji uscire sbattendo
la porta. I suoi passi risuonarono per un po’ in corridoio,
poi la calma tornò a regnare nella stanza.
“Price…”,
riuscì solo a dire Tom. “… ora… ora lo sa anche lui”.
Kris
spostò lo sguardo indietro, nel punto in cui, un attimo
prima, c’era stato Price.
“Ma
perché… è dovuta finire così?”, mormorò.
Il
numero undici, fermo dietro di lei, la osservò senza sapere che risponderle. In
quel momento non poteva fare niente per alleviare il suo dolore. Niente.
Perché Becker ormai sapeva.
Sapeva
cosa c’era nel cuore di Kristine Grover.
E Benjiamin
Price, adesso, vi aveva lasciato una ferita profonda, forse impossibile da
cancellare.
Impossibile
da guarire.
La
ragazza si strinse nelle braccia, mordendosi il labbro inferiore. Chiuse gli
occhi, ed un’unica lacrima scese a rigarle il volto abbassato.
“Anche se potrò ancora giocare, il mio sogno è finito qui. E non tornerà più”.
NOTE
Weh ^_^
Sono Leia!! Volevo solo dire una cosuccia su questo capitolo, e più
precisamente sul titolo. Credo renda bene l’idea che volevo
dare con la parte finale del 18, e con il termine della prima parte in
generale. Però è anche vero che molto altro si
concentra nel capitolo… la rabbia, la tristezza, la solitudine, l’impotenza di
fronte agli eventi, l’incontrollabilità della parte irrazionale di noi. Ho
riunito un sacco di cose in queste ultime pagine, forse anche un po’ troppe, ed
è per questo che, in teoria, sarebbero potuti andar
bene un altro paio di titoli. Un po’ mi dispiace di non averli potuti usare!!
Uffa!! ;_; basta, volevo solo dire questo… :P quindi siate
comprensivi, fatemi felice e piangete la morte prematura degli altri titoli con
me. BUUHHH!!! (quanto sono scema…) |