Note:
Dunque,
questa scena è allo stesso tempo parte di SITR che no.
L'idea viene
da una scena che viene solo accennata nel capitolo 20. Ma in
realtà
può essere benissimo letta fuori da quel contesto,
è una cosa che
può succedere.
L'avevo
pensata completamente diversa, ma non so come mi è venuta
fuori
così. O meglio, l'ho scritta ascoltando “Sonata al
chiaro di luna
di Beethoven”, che credo mi abbia influenzato moltissimo. Non
so,
ma credo che la musica classica ben si addica a Leatherhead,
tormentato eppure gentile.
Il
risultato finale mi piace e non piace, non so se ha senso.
Il
link per la musica:
https://www.youtube.com/watch?v=5-MT5zeY6CU
Le
note del piano danzavano nell'aria, scivolando nella chiara
luminescenza delle lampade, sfiorando i delicati marmi consunti dagli anni e scheggiati dall'usura e dalla noncuranza di milioni di piedi
che li avevano calpestati; l'angelo della fontana, spenta da tempo
immemore, sembrava quasi essersi congelato mentre volteggiava su quella
ipnotica e greve melodia, le braccia in alto in una posa statica, le
pieghe del vestito in pietra che suggerivano un movimento fermo da
troppo.
Persino
la polvere ballava negli spiragli di luce dorata che filtravano da
piccoli buchi sul soffitto, vorticando leggiadramente nel bagliore in
spirali aggraziate e indolenti, piccoli pulviscoli quasi luminescenti
essi stessi.
Un
giro di accordi tormentato seguì nel silenzio, le note che
esprimevano un dolore intrinseco, una tristezza, una lenta ponderata
riflessione, una calma emozione.
Non
sapeva spiegare perché, ma sentiva sé stesso in
quella melodia; gli
sembrava che ogni nota, ogni pausa, esprimesse ogni centimetro della
sua persona.
Leatherhead, se avesse dovuto mai esprimersi in musica, si sarebbe definito
Sonata al chiaro di luna di
Beethoven, con le sue note squillanti, ma calme, lente e
dolci,
tristi eppure quiete.
Non
sapeva nemmeno quante volte l'avesse ascoltata, nella sua vita. Di
certo negli ultimi anni, quando il controllo sulla sua parte animale
era diventata quasi impossibile, quella melodia era diventata una
delle poche cose che lo aiutava a focalizzarsi su sé stesso
e
a riprendere la ragione, spazzando via la rabbia.
Per
quel motivo, Sonata al chiaro di luna si ripeteva
quasi in
loop continuo nella sua casa, la stazione della metropolitana
abbandonata che i suoi amici avevano trovato per lui, dallo squisito
stile classico.
Aveva
un vecchio giradischi e un disco in vinile recuperati dalla discarica,
un po' malconci, che aveva passato giornate intere a rimettere a posto
con le sue mani, con pazienza e competenza. Sì, il disco
saltava
leggermente nella parte dell'allegretto, ma ormai si era abituato al
lieve graffiare della puntina in metallo prima di quel pezzo e anzi,
lo attendeva persino, con una parte della mente, lo stomaco che
provava una lieve morsa nell'attesa e poi si rilassava subito dopo,
inconsciamente, come una promessa che trovava compimento.
Non
che prestasse davvero orecchio alla melodia in continuazione, la
usava come sottofondo per rilassarsi, ma c'era una parte di lui che
vi faceva sempre attenzione, suo malgrado. Anche in quel momento,
nel suo camice da laboratorio intento ad osservare nel microscopio la
reazione dell'antipatogeno sperimentale, la melodia arrivava alle sue
orecchie distendendo i nervi, focalizzando la sua attenzione,
rilassandolo.
Respirava,
al ritmo delle battute.
Le
ultime note echeggiarono cupe e rimasero vibranti nell'aria per
qualche istante, fondendosi insieme al silenzio e al suo respiro.
Stava
girando la rotella del microscopio per mettere a fuoco, quando
udì
una voce, lontana, che chiamava il suo nome; si raddrizzò
all'istante
e corse via dalla zona allestita a laboratorio, verso il giradischi
nell'angolo, sollevando il braccio con la puntina che graffiava a
vuoto, ascoltando di nuovo.
“Leatherhead!” udì chiamare ancora, questa volta sicuro di
non esserselo
immaginato. La voce sembrava urgente e preoccupata, perciò
si
avvicinò con apprensione all'entrata della sua casa, il
suono di
passi annacquato in avvicinamento sempre più forte.
Michelangelo
apparve trafelato, muovendosi con fretta e urgenza, un piccolo
fagotto tra le braccia, dello stesso colore della sua maschera. Lo
stringeva con garbo e premura, i ciuffi di pelo arancio sfuggiti da
sotto le sue dita che ondeggiavano per le lievi vibrazioni.
“Michelangelo,
cosa...” lo accolse impreparato, spaventato dall'aria seria
che
aveva in viso.
“Leatherhead, Klunk... Klunk non sta bene” soffiò fuori
l'amico, con voce
affranta.
Gli
mostrò il felino, che non sollevò nemmeno la
testolina nella loro
direzione: se ne stava immobile tra le braccia del padrone, gli
occhietti semichiusi che non guardavano niente in particolare, spento
di ogni vitalità.
Il
grosso coccodrillo umanoide fece strada verso il laboratorio e invitò
Michelangelo ad appoggiare il felino sul tavolo ingombro di provette e
alambicchi, sul quale ebbe la premura di stendere una coperta.
Klunk
diede un miagolio tetro quando venne lasciato andare e Michelangelo
trattenne quasi il respiro per la preoccupazione. Prese ad
accarezzarlo con agitazione, per fargli capire che era lì
con lui.
“Raccontami
cosa è successo, per favore” disse Leatherhead,
mentre prendeva
lo stetoscopio dall'altro tavolo, infilandolo nei fori auricolari.
La
voce dell'amico gli arrivò ovattata alle orecchie, mentre
auscultava
il battito del cuore del gatto.
“È
da un paio di giorni che è strano. Sta mangiando poco, che
per un
mangione come lui è insolito. Ma in questi ultimi tempi
andava e
veniva spesso dal rifugio e pensavo che fosse solo innamorato. Ma
oggi son tornato dal giro di ronda ed era accasciato nella sua cuccia
senza forze e poi, ha vomitato! É così debole e
io... io non so
cosa abbia” raccontò con voce sempre più
alta e lacrimosa, mentre la
mano percorreva ritmicamente il pelo del felino, forse
più per
rassicurare sé stesso che il gatto.
“Perdita
dell'appetito e vomito? Devo misurargli la febbre e fare delle
analisi” mormorò Leatherhead, poggiando lo stetoscopio sulla
spalla
per prendere il necessario.
“Non
preoccuparti, mio caro amico, scopriremo cos'ha il tuo gatto”
lo
rassicurò gentilmente, con un sorriso bonario alla sua
espressione
terrorizzata suscitata dalle sue parole.
Liquidi
variopinti correvano gorgogliando per i tubi trasparenti di provetta in alambicco,
nel silenzio.
“Michelangelo?
Michelangelo, svegliati, amico mio” chiamò Leatherhead piano,
scuotendolo per una spalla.
Il
mutante si riscosse con un grugnito sorpreso, guardandosi attorno in
allarme, dalla poltrona dove riposava.
Si
era addormentato mentre lui studiava i campioni di sangue di Klunk,
sfinito dalla preoccupazione e dalla stanchezza. Il micio dormiva
anche lui, o almeno così sembrava, sul tavolo del
laboratorio.
“Non
hai riposato dopo la ronda di ieri notte, vero?” chiese
premuroso,
mentre Mikey si stropicciava la faccia soffocando uno sbadiglio,
annuendo.
Poi
si interruppe e saltò su dalla sedia, correndo verso Klunk;
si fermò
nell'atto di accarezzarlo, la mano esitante sospesa in aria, per non
disturbarlo.
“Come
sta?” domandò sottovoce, accarezzandolo con lo
sguardo.
“Ancora
non lo so. Ha la febbre, perciò gli ho dato un antipiretico
mentre
esamino il sangue per capire cosa abbia” rispose Leatherhead,
commosso dalla sua premura.
“Perché
non vai a casa a riposare? Controllerò io Klunk e non appena
saprò
cosa ha, ti chiamerò immediatamente” concluse con
un sorriso
incoraggiante, osservando le occhiaie sotto gli occhi dell'amico, ben
visibili dato che si era tolto la maschera.
Michelangelo
sembrò titubare. Non voleva lasciare Klunk, lo aveva capito,
ma
ondeggiava da quanto era stanco, perciò non poteva
continuare a
stare lì a preoccuparsi e non dormire; non avrebbe giovato
né a lui
né al gatto, in fin dei conti.
“Mi
chiamerai immediatamente? Per qualsiasi motivo o dubbio o
novità?”
si informò con trepidazione, la voce roca.
“Assolutamente”
lo rassicurò, senza esitare.
La
mano di Michelangelo si poggiò lieve sul pelo di Klunk,
sfiorandolo
delicatamente con la punta delle dita, come se lo stesse salutando,
poi annuì verso l'amico e andò via, lentamente,
triste e stanco.
Leatherhead sospirò, poi lo sguardo corse al felino, che con gli
occhietti
mezzo aperti e lucidi lo osservava, in quello che lui ritenne uno
sguardo spaventato.
Se
fosse per paura verso di lui o per il suo stare male, non lo seppe
dire.
Finalmente,
dopo innumerevoli passaggi, dopo ore di procedimenti medici di
fortuna, -in fondo il suo laboratorio non era esattamente come quello
di un qualunque dottore o ricercatore,- il vetrino con il campione di
sangue era pronto per essere analizzato.
Avvicinò il viso agli oculari e girò la rotellina nel silenzio,
almeno
esterno, cercando di mettere a fuoco. Le confuse macchie dalle forti
tonalità rosse presero infine forma, dai contorni nitidi, e
Leatherhead si concentrò al massimo.
Nella
sua testa, le note del pianoforte scandivano i secondi.
“C'è
una riduzione dei globuli bianchi” disse tra sé,
mentre la mente
già metteva quell'informazione in coda alle altre per
trovare la
patologia.
Si
allontanò dal microscopio e si avvicinò al mobile
adibito al
deposito di medicinali, la maggior parte sintetizzati e messi
insieme da lui. Gli Utrom fortunatamente gli avevano insegnato anche
la chimica, durante la sua educazione e la sua crescita; non sapeva
come avrebbero fatto lui e i suoi amici mutanti a
procurarsi medicine, altrimenti, anche le più semplici.
Dopo
aver preso un paio di scatole senza scritte né indicazioni,
si
avvicinò per scrupolo al computer assemblato assieme a
Donatello e
digitò velocemente, per cercare conferma della sua
intuizione.
D'altronde non era davvero un dottore, c'era un alto margine che
potesse sbagliarsi.
Sospirò,
avvicinandosi al felino e poggiando sul tavolo le medicine.
Klunk
aveva una gastroenterite, una malattia piuttosto grave per un gatto,
ma curabile se trattata in tempo. Certo, tutto dipendeva dal micio,
più che dalle medicine. Lui avrebbe solo dovuto
somministrargli una
soluzione fisiologica per via endovenosa per combattere la
disidratazione e antibiotici per contrastare le infezioni batteriche.
Il resto era tutto dato dal sistema immunitario e dalla forza di
Klunk.
Iniziò
ad assemblare il kit per la flebo, collegando la cannula alla sacca
di liquido e girando la rondella per regolare il flusso; una volta
connessa all'ago a farfalla, le sue mani si fermarono.
Doveva
toccare Klunk, per potergli mettere la flebo. Ma c'era una parte di
lui che non voleva, non poteva toccare un essere così
piccolo e
perfetto, senza sentire la paura di romperlo.
Aveva
paura che si rompesse al solo tocco delle sue mani. Era uno
scienziato, pratico e logico, ma la sua parte animale provava
un irrazionale terrore di arrecare danno al prossimo e non c'era
dubbio che non sapesse come maneggiare un essere vivente
così
piccolo, non con le sue manone enormi e sgraziate.
Anche
Klunk sembrava pensarla allo stesso modo, perché lo guardava
in
maniera ostile, da sotto le palpebre semi chiuse.
Leatherhead tentennò
ed esitò, con il piccolo ago nella mano che scintillava, sospeso sopra
il suo paziente con timore. Prese un profondo respiro e
pizzicò la
pelle del micio vicino alla collottola, infilando l'ago con un solo
gesto e lasciandolo andare nello stesso istante. Rilasciò
il
fiato, sollevato.
Aveva
toccato il gatto il meno possibile, non poteva averlo rotto.
Girò
la rondellina per permettere al liquido di fluire e con una siringa
iniettò l'antibiotico nella sacca della flebo, con un
sorriso
soddisfatto. Tutto quello che serviva a Klunk, da quel momento in
poi, era tempo.
Lo
lasciò da solo, tornando ad occuparsi degli esami che stava
compiendo prima che Michelangelo gli portasse Klunk, con il proposito
di controllare il felino di tanto in tanto, per non disturbarlo.
E
avrebbe avvisato il suo amico solo quando avesse avuto dei riscontri
sulla terapia, per non metterlo in allarme senza motivo.
Stava
trascrivendo una fitta serie di numeri e formule e reazioni, quando
il primo miagolio lo scosse. Erano passate due ore, non se n'era
accorto.
Si
voltò verso il felino, che sdraiato sulla pancia guardava
nella sua
direzione, un po' meno spento. Quello ricambiò il suo
sguardo e gli
miagolò di nuovo contro.
“Ti-
ti senti male?” chiese Leatherhead confuso, più a
sé stesso
ovviamente, avvicinandosi a lui con cautela.
Klunk
diede un altro miagolio, senza muoversi.
Il coccodrillo
scienziato lo controllò con occhio clinico, senza
però
toccarlo. Solo per potergli misurare la febbre spostò la sua
coda,
per un secondo soltanto.
Klunk
rimase pazientemente fermo, ma iniziò a miagolare di
continuo, come
una nenia. Eppure non gli sembrava che stesse peggio di prima, anzi,
seppur lieve sembrava mostrare più energia.
Arrivò
alla radice del problema solo dopo qualche momento:
Klunk
voleva delle carezze. Voleva un contatto fisico rassicurante e
d'affetto, che lo facesse sentire al sicuro.
Ma
lui, lui non poteva. Lo avrebbe di certo rotto se lo avesse toccato.
Così fragile, al suo confronto.
Il
felino miagolò ancora una volta, un verso di insofferenza e
impazienza.
Leatherhead guardò il suo musino fiero e arrabbiato, con timore
reverenziale. Sembrava quasi che gli stesse ordinando di
accarezzarlo e dargli attenzioni.
Ma
cosa ne poteva sapere un gatto delle sue paure? Come poteva sapere
che il suo più grande timore era di fare del male agli
altri, anche
involontariamente? Lui era un mostro in fin dei conti, e anche se
Klunk era abituato a stare con dei mutanti, lui era diverso.
Michelangelo era gentile e dolce, lui era una belva senza controllo,
che una volta l'aveva aggredito, l'amico, pensando persino di averlo
ucciso.
Non
poteva permettersi di fare del male a Klunk. Sarebbe bastato anche un
piccolo incidente, un'unghia del felino che lo graffiava, e lui
avrebbe dato di matto.
Ma
ovviamente l'animale non poteva saperlo e se ne fregava. Miagolava in
maniera insistente e straziante, chiedendo il suo affetto, che non
poteva darglielo.
Forse
sarebbe bastata una leggera pacca sulla testolina per farlo calmare.
Leatherhead allungò una mano, deciso, ma poi quella si
fermò tremante,
senza osare toccare il suo paziente. Era persino più piccolo
della
sua mano.
Sembrò
ripensarci per un attimo.
E
forse si sarebbe ritratto indietro, se Klunk non avesse fatto la sua
mossa. Con un gesto veloce la sua piccola linguetta saettò
nell'aria, leccando il dito del coccodrillo.
La
sensazione rasposa della sua lingua riscosse e sorprese Leatherhead,
piacevolmente. Spezzando la paura allungò la mano, infine, e
la
tuffò nel folto pelo, scorrendo con le dita sulla sua
schiena, un
oceano arancione di velluto. Il ronzio soddisfatto di Klunk
riempì
l'aria e lui sorrise, commosso.
Lui,
il mostro, l'enorme e incontrollabile creatura piena di paura e rabbia
che a volte prendeva il controllo e distruggeva tutto, stava
coccolando un gattone arancione, tranquillamente, fiduciosamente,
serenamente.
Staccò
la mano da quel contatto e lo sguardo di Klunk si fece offeso, mentre
lo seguiva nel suo spostamento. Leatherhead andò
nell'angolo del
giradischi e fece partire il motorino: il disco iniziò a
girare,
ipnotico, su sé stesso; la mano abbassò il
braccetto con la
puntina, che entrò in contatto con la nera superficie,
seguendo i
solchi come un fiume scorre nel suo letto, trasformando il vuoto in
musica.
Le
note del pianoforte riempirono l'aria e Leatherhead sorrise.
Tornò
da Klunk e si sedette vicino al tavolo, rituffando la mano nel suo
manto, gioendo delle sue fusa ronzanti, che ben si armonizzavano alla
melodia.
“Ti
piace Beethoven, mio piccolo amico?” domandò
gentilmente. Il micio
strofinò la testa contro la sua mano, in risposta, e quello
gli
bastò in fin dei conti.
Forse
il mostro che albergava in lui poteva essere domato con della buona
musica, un nuovo amico e delle carezze felici.
|