Prologo - St Jerome
HAMLET VITTORIANO
"I could be bounded in a nutshell, and count myself a king of infinite space."
Amleto: atto II, scena II
[Si ringrazi la GiudiciA per i bellissimi banner] Mi
rendo conto che è da parecchio che non pubblico qualcosa, per
cui mi sono messa al lavoro e ho sfornato questa breve storia. Si
tratta di cinque capitoletti in tutto, prologo ed epilogo compresi.
Avrei voluto ampliare un poco, ma ho preferito limitarmi per
comodità. Quest'originale si è guadagnata il primo posto nel Contest "Sangue e
Pazzia", indetto da Yuko Chan. Grazie.
E devo ammetterlo, è
la prima volta che tratto il genere. Nonostante tutto, considerazioni
critiche positive o negative saranno sempre ben accette. Per scrivere
di questa vicenda, ho dovuto fare qualche ricerca circa l'ambientazione
e i costumi; se tra di voi c'è un appassionato e profondo
conoscitore dell'Inghilterra di fine Ottocento, chiedo scusa per
eventuali discrepanze.
Infine, ultima cosa. I cosiddetti "easter eggs"
sono degli elementi per lo più nascosti, dichiaramente
impliciti. Ebbene, questa storia è un giallo, credo. E
forse, dico, forse ho sparso
qualcosa fra le righe. Indizi, fili di Arianna. A voi la scelta se
indagare o meno. Per quanto mi riguarda, alla fine svelerò tutte
le piccole curiosità e coincidenze che mi sono divertita a
nascondere.
Buona lettura <3
* * *
PROLOGO:
ST JEROME
«Padre, ho peccato.»
Nel
confessionale, padre Wilfred si riscosse. Benché annunciate dal
debole scricchiolio dell’inginocchiatoio, quelle parole
l’avevano colto di sorpresa. Fino a pochi istanti prima credeva
che più nessuno avrebbe messo piede in quell’umile chiesa
poco lontana da Londra: il sole aveva già cominciato ad
abbassarsi dietro il piccolo campanile di St Jerome, lasciando
così che le prime ombre del tramonto si allungassero sulle vie
come tante mani di demoni, e, poteva giurarci, i diffidenti abitanti di
quell’angolo di mondo si affrettavano a chiudere i loro negozi e
a rientrare svelti a casa. L’avrebbe fatto anche lui, se solo la
sua intenzione non fosse stata schiaffata sul nascere da quel penitente
dell’ultimo minuto. Strinse un poco il crocifisso che teneva in
grembo e, nella semioscurità del confessionale, girò lo
sguardo.
La voce
era arrivata da destra. A parlare era stato un uomo, di cui poteva
indovinare solo il colore dei capelli, di una tonalità scura
come caffè macinato. La grata di legno che li divideva lasciava
intravedere troppo poco, com’era giusto che fosse. Padre Wilfred
aveva imparato a convivere con il fitto schema delle pareti dei
confessionali e già da anni aveva smesso di cercare
d’indovinare chi s’inginocchiava dall’altra parte. I
penitenti, si diceva spesso, avevano poi tutti lo stesso volto; quello
di una creatura umana che si poneva anima e corpo nelle mani di Dio.
«In nomine Patris, et Filii et Spiritus Sancti»,
recitò, in tono stanco ma benevolo. Il tono di un padre
paziente, quarantatre anni sulle spalle, in eterno dialogo con Nostro
Signore. «Confessa i tuoi peccati, figliolo, e il nostro buon Dio
poserà la sua mano clemente su di te.»
«Ho
ucciso un mio fratello», venne dall’altra parte. E poi,
dopo ancora un momento, stavolta con la voce distorta da un brivido:
«Ho ucciso un uomo, padre.»
Il parroco
si sentì formicolare la base della nuca e le sue dita, in cui
era morbidamente adagiato il crocifisso, si strinsero con più
fermezza, obbedendo al fremito che gli aveva passato la coscienza da
parte a parte. L’impressione era quella di un gelo ora tangibile,
affilato come spilli di ferro. Vero, la clemenza era destinata a
chiunque, ma mai, mai aveva creduto che un giorno avrebbe ascoltato una
confessione simile. Fuori, oltre la grata, il penitente aprì di
nuovo bocca.
«Padre. Mi avete sentito?»
Ora
c’era un velo di supplica, in quella voce. Pareva la domanda di
un ragazzino spaurito che, dopo una marachella, si consegna a testa
bassa sotto gli occhi torvi e accigliati del genitore. Il paragone
costò a padre Wilfred la stessa, inquietante sensazione di
un’unghia che percorreva sinuosa la sua spina dorsale, gioendo
del brividi che s’infilavano rapidi nelle ossa. Oh Dio, pensò. Buon Dio.
«Vi
prego», si sentì dall’altra parte, dietro la griglia
di legno, dietro quel contorto gioco di asticelle che nascondeva il suo
volto. Era quasi un pigolio, ora, come se le labbra gli tremassero in
modo incontrollabile. Labbra forse umide, sotto guance umide, sotto
occhi umidi. «Oh, vi prego. Io posso spiegarvi. Il Diavolo si
è servito della mia mano. Vi prego, padre, vi scongiuro.
Salvatemi.»
Gli
assassini non entravano nelle chiese. Non passavano tra le panche, non
s’inginocchiavano con cristiana sofferenza accanto ad un
confessionale occupato. Soprattutto, i veri assassini non si pentivano.
Eppure era ciò che quell’uomo stava facendo, mormorando la
sua peccaminosa mancanza in un luogo tanto sacro e caro a Dio. Wilfred,
immobile nella penombra come una criminale braccato, deglutì
cercando di fare meno rumore possibile e girò di nuovo gli occhi
quando scorse, attraverso i piccoli fori squadrati, che l’uomo si
era mosso.
«Lasciatemi vedere il vostro volto», stava dicendo.
«Lasciatemi vedere gli occhi dell’uomo a cui dovrò
la mia salvezza. Se solo usciste... se solo io potessi vedervi,
potremmo sedere insieme. Potrei mostrarvi perché questa mano
è stata maledetta», e il parroco vide, sollevata contro la
griglia, la mano di cui parlava. Tremava convulsamente contro il legno,
tanto che i brividi riuscivano a scuotere le dita. Dita lunghe,
affusolate. Le dita di un artista. «Oh, vi prego. Uscite, padre.
Uscite e salvatemi. Io voglio essere salvato.»
La mano si
era mossa. Era scivolata oltre la griglia, fuori dal suo campo visivo,
diretta alla piccola maniglia intarsiata del confessionale. Quella sola
constatazione bastò a schizzare adrenalina e panico nelle vene
di padre Wilfred, che sembrò riscuotersi di colpo.
«Non aprite, per Dio! Non aprite!»
«Siate generoso», diceva l’uomo. Ora singhiozzava. La
sua mano non c’era più, già scivolata alla
porticina. «Siate caritatevole. Uscite. Salvatemi.»
«Non...!»
Il sangue gli era salito alle tempie. Pulsava dolosamente. Fece per
precipitarsi contro la porticina, tentò di afferrare e bloccare
la maniglia dall’interno.
Troppo tardi.
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