Benvenuti.
La storia è tutta incentrata sul seguente aneddoto
riguardante
il dandy e una delle persone più geniali ed estrose mai
esistite: Oscar Wilde.
Questi era
alla dogana per entrare negli Stati Uniti e alla domanda:
"Anything to
declare?"
Egli rispose:
"Nothing but
my genius."
Nulla
eccetto il mio genio.
Disclaimer: i personaggi ovviamente non sono miei, non mi
appartengono, non ci guadagno nulla se non la soddisfazione di
scrivere. Tra l'altro le parentele potrebbero variare. Anzi, variano.
I
Londra 1856.
Tanto tempo fa, da
una galassia
lontana, distante anni luce dalla nostra piccola Terra, provenne
un'astronave che ondeggiò nel cielo fino a non lasciare
presso
la porta di casa, in un lampo di luce, un fagottino contenente un
neonato che venne accolto dalla famiglia che se lo era trovato alla
porta il cui cognome, nelle mani di quel piccolo, sarebbe diventato
davvero famoso.
Assieme a lui, tra
i lembi del
tessuto che lo proteggevano, vi era una bellissima pietra simile ad uno
smeraldo, solo mille volte più luminosa.
Qualche
anno dopo.
Nella classe
affollata di
bambini, ciascuno con il suo grembiule rigido, il fiocco vistoso e con
le mani rigorosamente lungo i fianchi, il maestro chiese con un certo
orgoglio.
“Ditemi
bambini, cosa vorreste fare da grandi?”
Domanda davvero
scontata. Banale. Che noia.
Ligi al loro dovere
e ai sogni
dei propri genitori borghesi di vederli sistemati ciascuno rispose in
modo altrettanto convenzionale:
“L'avvocato.”
“Il
banchiere.”
“Il
dottore.”
Finché
non fu il turno
del ragazzino più strano con cui il venerabile maestro, in
tutti
i suoi anni di onoratissima carriera, aveva avuto a che fare: un tale
Oscar Wilde, un tipo che sicuramente, con quell'aria di tronfia
superiorità e aperta ostilità al decoro
nonché
alle regole, non sarebbe andato molto lontano.
Tale Oscar Wilde
con un bel sorriso escalmò:
“Io
voglio diventare un idolo pop!”
Ai giorni nostri...
C'era una volta un
ragazzino molto
solo che viveva in una famiglia ottusa e complicata, una di quelle
famiglie che sopprimevano ogni libertà, ogni
volontà di
esprimersi.
Potrete
quindi capire, cari lettori, in che razza di brutto mondo si trovasse
il nostro povero protagonista.
Ma a
lui in fondo
non importava. Si, perché sapeva di essere infinitamente
superiore a quell'accozzaglia di gente bigotta, lui era... un artista.
Artista
perché vedeva il mondo a modo suo e artista
perché si
esprimeva completamente a modo suo. Immaginate quanto stare tra quattro
pareti, così noiosamente piene di gente talmente lontana
dalle
sue idee e dalle sue concezioni, fosse assolutamente soffocante.
Il mondo è un sogno?
Me lo chiedo spesso ma
altrettanto
spesso non so trovare una risposta. So perfettamente che restare in
questa casa mi chiude, mi opprime... perché qui sono
sprecato.
Non ho intenzione di
passare la mia
vita ad assecondare i voleri degli altri che mi vorrebbero diverso,
meno appariscente, meno convinto delle mie idee.
Che vadano a farsi
fottere. Io sono così e così intendo restare.
Guardai la sveglia
girandomi sul cuscino appallottolato.
Le otto e quarantasette.
Squisitamente in ritardo.
<<
Deidara! Ma ti vuoi alzare?! >>
Mia madre. Ah... che
donnetta noiosa
e senza spina dorsale... ogni volta che mi vede abbassa gli occhi
perché si vergogna di aver cresciuto un figlio come me:
effeminato, eccentrico e, secondo la sua modesta opinione, squilibrato
mentalmente.
Perché
secondo lei sono
omosessuale: ovvio, lei fa due più due. Mi scambia per una
donna
quando mi vede entrare in casa, ho personali gusti estetici, dunque a
rigor di logica io dovrei essere un omosessuale.
Mah... la
verità è che non lo so nemmeno io.
Penso di essere
piuttosto confuso in
questo periodo perché al momento l'unica persona a cui penso
è me stesso. E se fossi omosessuale? Dové il
problema?
Ah... certo. Io sono il
problema, in ogni caso.
E avere un figlio
ricchione in casa
è una vergogna per tutto il vicinato, un'ignominia per la
quale
nemmeno le tendine di pizzo della finestra basterebbero per nascondersi
e continuare a spiare gli altri.
Sbuffando sollevai le
coperte e mi
guardai allo specchio, passandomi distrattamente una mano tra i capelli
scompigliati che si ammassavano per arrivare fino alle orecchie.
Ed era già un
gran bel traguardo rispetto a quando mi costringevano a tagliarli corti
due centimetri.
Dovrei farmeli crescere
ancora.
Scesi le scale, non
trattenendo una
smorfia nel vedere il perfetto salottino arredato con tanto gusto da
mia madre: come potrebbe mai rinunciare alla sua collezione di teiere
di porcellana che poggiano su altrettanti graziosi centrini candidi
come la neve?
Una cosa era certa: se
mai avessi
ereditato quella casa non avrei esitato a darle fuoco, pareti e inutili
cianfrusaglie dal dubbio gusto estetico comprese.
Entrai in cucina e fui
sottoposto ad
un'altra delle acide occhiate di mia madre che, con in mano un mestolo
e saggiamente riparata da un grembiule amorevole, era intenta ad
elaborare qualche strana pietanza nel vago tentativo di impressionare
gli ospiti che la sera ci avrebbero raggiunti a casa.
Per intenderci: lei
viveva per i surgelati. La casa intera era un surgelato.
Non perché
lavorasse e non avesse mai tempo di cucinare, semplicemente non ne
aveva voglia.
Ma se ci sono gli ospiti
è
diverso: bisogna fare una bella figura, sempre, e mostrare di essere
una donna attenta a ogni singolo angolo della casa.
Che persona davvero
coerente, mi meraviglia.
<< Deidara
perché non ti prendi un pigiama come fanno tutti?
>>
Mi guardai qualche
istante la canotta
nera e i boxer poi alzai lo sguardo verso di lei chiedendole con
apparente aria stupita: << Perché?
>>
Lei emise un sospiro
spazientito per
poi puntarmi minacciosa il mestolo contro, che era stato imbevuto in
una strana crema dal colore vagamente verdognolo:
<< Se non
ti affretti a
comportarti da bravo ragazzo... - rimase qualche istante in silenzio
infine ammise rassegnata – ah se solo tu fossi come tua
sorella.
Lei è gentile, a modo, veste sempre in maniera
impeccabile...
non come te che... non so, non so davvero dove andrai a finire.
>>
Certo, il figlio
immorale che
andrà in mezzo ad una strada. Chissà
perché ma non
mi sembra una storia nuova...
Mi sedetti su di uno
sgabello del
bancone della cucina facendo ondeggiare il latte nella tazza senza
pensare a nulla di particolare.
Osservai qualche istante
mia madre
armeggiare con quella mistica crema verde vomito finché lei
non
si girò sbuffando e mi disse:
<< La
scuola inizia alle nove.
Tua sorella è già uscita da un pezzo... o intendi
forse
marinare per andartene in giro con quei tuoi amici così...
così... >>
Non le uscirono le
parole di bocca.
Accidenti dovevano fare un effetto proprio terribile le persone con cui
uscivo io, neanche frequentassi l'Anticristo personificato.
<<
Così come? >> La incalzai io con un sorrisetto
sarcastico sulla bocca.
Mi lanciò
un'occhiataccia:
<< Oh! Sei impossibile Deidara! E vedi di andare da un
parrucchiere e farti tagliare quei capelli, non voglio che sembri una
donna!>>
Con noncuranza mi toccai
le punte bionde, guardandomele qualche istante, per poi rispondere:
<< Tu
credi? Stavo giusto pensando di farmeli crescere un altro po'...
>>
Dovevo davvero aver
toccato una corda
dolente. Ecco la madre versione cerca – e –
distruggi: mi
squadrò qualche istante disgustata poi tornò a
puntarmi
contro il mestolo il cui contenuto, nella rabbia delle parole che
avrebbe ruggito, si sarebbe ignobilmente sparso sul tavolo lindo come
una tavola operatoria.
<< Tua
sorella Ino è
mille volte meglio di te! Dovresti prendere esempio da lei qualche
volta e smetterla di comportarti in questo modo talmente... - alzai un
sopracciglio guardandola scettico – diverso!
>>
L'aveva detto! Io ero
diverso. Mia
sorella, l'impeccabile, perfetta, aggraziata Ino era conforme a quanto
la società si sarebbe aspettato da una ragazza.
Ero io, solo io, il
pesce fuor d'acqua, che non si sarebbe mai adattato al mondo.
Ma nessuno aveva ancora
capito che in realtà era il mondo a doversi adattare a me.
Arrivai elegantemente in ritardo a scuola.
Stare chiuso fuori per
due ore prima
di entrare in occasione dell'intervallo era un compromesso
più
che degno perché avevo il tempo per sedermi su uno dei
muretti
vicini e disegnare.
Disegnavo qualsiasi cosa
mi capitasse
a tiro ma non per riprodurla uguale identica, era davvero troppo
scontato, bensì per stravolgerla, per sconvolgerne le forme
e le
apparenze.
Ne reinterpretavo i
colori, le
sensazioni che mi dava guardare quel paesaggio, quell'oggetto o quella
persona. E usciva fuori qualcosa di assolutamente inaspettato.
L'esperienza mi ha
insegnato che
persino un palo della luce può diventare un soggetto
interessante. E quel giorno la mia vittima era una lattina,
schiacciata, ritorta e abbandonata lungo il ciglio della strada. Era
stata usata e gettata via senza troppi problemi.
Io non volevo essere
quella lattina: non volevo essere sfruttato dagli altri per poi venire
abbandonato.
Non nascondo
però che avrei
voluto essere io a contorcere gli altri per poi gettarli via quando non
ne avessi più avuto bisogno. Un potere straordinario.
Ma improvvisamente
suonò la
campanella che segnò l'intervallo, il momento scolastico
più agognato da orde di studenti e, perché no,
anche di
professori.
Sbuffai e riposi
quaderno e matita
ma, poco prima di andarmene, mi girai raccogliendo la lattina per
gettarla nel cestino poco vicino. Mi sentivo meglio: avevo usato io
quella lattina per l'ultima volta.
Il custode venne ad
aprirmi presso il
cancello, scuotendo la testa quando mi fece entrare. Ormai ci
conoscevamo da un po'... credo si fosse abituato ai miei perenni
ritardi.
Il grande cortile
d'entrata si era
già gremito di frotte di studenti e studentesse che, con la
divisa pulita ed ordinata, si confondevano tra la massa.
Erano numeri in un
archivio, nient'altro.
Mi guardai un attimo il
colletto
della camicia sbottonato... pensa un po', non mi ero nemmeno messo la
cravatta. Meno male, altrimenti mi sarei sentito soffocare.
Avanzando scorsi
immediatamente Ino
con il suo gruppetto di amichette del cuore: Sakura e Tenten. Quanto
erano noiose loro e le loro stupide chiacchiere.
Lo so, non sono un
fratello maggiore
ideale, al contrario, pur avendo solo due anni in più di Ino
agli occhi degli altri sembrava che fosse lei la donna di casa e io...
beh, io ero solo un ragazzino sessualmente confuso. Ma degli occhi
degli altri non me ne è mai importato granché, a
dire il
vero.
Fu quindi con un certo
sprezzante divertimento che mi diressi verso di lei.
Sapevo che detestava
farsi vedere con
me, anche lei vittima dei preconcetti di nostra madre, soprattutto se
davanti alle care amiche.
Quando mi vide arrivare
la scorsi
sgranare gli occhi per la sorpresa e smise di parlare, rimanendo
paralizzata, persino i lunghi capelli biondi sembravano come sospesi
nel tempo. Le altre due per qualche istante non capirono il
perché della sua strana reazione quando improvvisamente si
voltarono e mi videro.
Tenten mi
fissò qualche istante, per poi alzare gli occhi al cielo,
mentre Sakura sbuffò senza troppi complimenti.
Ma fra tutte la
più pronta fu
Ino, dal momento che aveva passato i deliziosi sedici anni della sua
vita in mia compagnia: << Che cosa vuoi? >>
Diretta. Bene, io sarei
stato più diretto.
<< Dopo
scuola devi filare dritta a casa: mamma vuole che tu l'aiuti nelle
pulizie. >>
Non era vero, c'era la
domestica. Ma per Ino era vergognoso parlare davanti alle altre di cose
umilianti come pulire casa.
La verità era
che avrei potuto
essere offensivo, avrei potuto insultarla come e quando mi pareva. Ma
non lo facevo mai perché non c'era divertimento, era bello
invece colpire l'avversario nei propri punti deboli e poi, a dirla
tutta, con Ino non c'era alcuno stimolo... ecco perché era
raro
che anche solo ci parlassimo.
Oggi era stata
un'eccezione, davvero interessante.
La vidi arrossire di
botto e
contorcere la bocca in una smorfia tristemente poco artistica e per
nulla adatta al suo bel faccino pulito.
Fece per aprire la bocca
quando
distolse improvvisamente gli occhi da me per puntarli alle mie spalle.
Mi girai di scatto e feci un leggero sorriso quando vidi chi aveva
avuto il potere di frenare l'indignazione di Ino.
<< Sasori.
>> dissi semplicemente.
Quest'ultimo mi
salutò
apparentemente privo di emozione, il volto che sembrava perennemente
imperturbabile, come se qualsiasi cosa si fosse riversata addosso a lui
lo lasciasse completamente indifferente.
Il giorno in cui lo
ritrassi, mentre
eravamo nella pausa pranzo sul prato della scuola, disegnai una sfera.
Semplice, perfetta, immutabile: una superficie liscia su cui nessuno
poteva sostare pena l'esser costretti a scivolare giù.
Perché nessuno poteva tentare di prendere Sasori, di
dominarlo,
di scalfirlo.
Lui era il mio personale
alieno.
E io? Non saprei dirlo
con esattezza,
all'inizio pensavo il suo pittore di corte, sebbene non condividessi
con lui molte cose su ciò che intendevamo per arte, ma poi
ho
scoperto che eravamo semplicemente amici.
Un po' strani come amici
in effetti
perché non ci parliamo granché, giochiamo sugli
sguardi,
sui disegni, su di una singola parola.
Per quanti lo pensino...
no, non ci sono mai andato a letto.
Forse,
chissà, un giorno mi
aveva accarezzato l'idea. Ma non mi andava di vederlo nudo e scoperto
davanti a me e io a mia volta non volevo essere nudo e scoperto davanti
a lui.
Per me Sasori era
Sasori, il mio
sempai, e nient'altro. Un maestro in tutti i modi in cui potrebbe
essere un maestro, anche nella mistica aura di intoccabilità
che
lo avvolgeva.
<< Deidara
oggi pomeriggio
c'è la riunione del club di arte. Dovremmo guardare le
ultime
cose fatte perché fra poco ci sarà il festival
della
cultura, preparati psicologicamente. >>
<< Uhn...
>> borbottai.
Detestavo quelle
stupidaggini.
Festival della cultura... mah, la cultura, secondo mia personale
opinione, è totalmente relativa.
Sasori si
allontanò. Io lanciai un'occhiata a mia sorella che era
rimasta impietrita a vederlo andarsene.
Tutto sommato Ino lo
ammirava, era
quasi soggiogata da lui. Ma, accidenti, per amarlo ci voleva ancora un
bel po' di strada... avrebbe perso la testa per qualcuno della sua
età, ci avrebbe fatto sesso e magari sarebbe pure rimasta
incinta...
Sorrisi. Basta, dovevo
smetterla di
viaggiare con la fantasia... però sarebbe stato divertente
vedere la reazione dei miei quando avrebbero scoperto che la loro
adorata figlia sedicenne era in dolce attesa.
Casa distrutta,
esplosione, furia... fantastico.
Feci un cenno di saluto
allontanandomi a mia volta ma non mancai di sentire Sakura borbottare:
<< Ma come
fai ad avere un fratello così? Non voglio nemmeno immaginare
chi si porti a letto la sera...>>
<<
Nessuno. Andiamo ora.>> tagliò corto Ino.
Ghignai. Era
interessante il metro
con cui gli altri mi valutavano, anche se la mia attività
notturna probabilmente non corrispondeva in pieno alle fantasie
perverse delle amiche di mia sorella.
Il titolo
della fanfiction
è tratto da un film a mio parere magnifico: Velvet Goldimine
appunto, di Todd Haynes. Interpretato da Jonathan Rhys Meyers, Ewan
McGregor e da Christian Bale, un film narrato quasi come se fosse una
favola.
La scena con cui
comincio è
quasi l'inizo del film stesso, il quale mi ha ispirato per scrivere
questa storia che spero vi piaccia. Quindi a volte, chi ha visto il
film, potrà vedere dei punti di contatto con quest'ultimo
anche
se la trama sarà piuttosto diversa, se non totalmente.
Altra ispirazione mi
è stata data da un particolare avvenimento:
Un giorno passeggiavo
per piazza
Castello (il centro di Torino - nd da una certa Autrice che ha un
pessimo rapporto con la geografia e senso dell'orientamento sotto
zero). Davanti a me vedo due ragazzi, forse avranno avuto diciassette
anni, che camminano fianco a fianco, quasi appiccicati.
Dovevate vedere come
si guardavano:
si cercavano con gli occhi, tentavano quasi di respirare l'ossigeno
dell'altro. Ma la cosa più triste e bella allo stesso tempo
era
lo sfiorare delle loro dita.
Quasi istintivamente
volevano
tenersi per mano, toccarsi, ma dopo un po' che si tenevano stretti per
la punta delle dita imbarazzati le rilasciavano.
In particolar modo il
ragazzo
più alto sembrava totalmente rapito dal suo compagno, lo
guardava come si guarderebbe un innamorato.
Era brutto vedere che
dopo qualche istante che si tenevano per mano si lasciavano,
imbarazzati.
Perché la
gente penserebbe male di loro. Perchè la gente è
ipocrita e bigotta.
Fossero stati ragazzo
e ragazza
probabilmente invece avrebbero camminato mano nella mano e questo non
è giusto, non è corretto che gli altri giudichino.
Ho scritto yaoi sugli
avvertimenti
perché, come avrete capito leggendo, il nostro Deidara
è
una mente davvero libera. E credo che nel suo modo di essere rispecchi,
almeno in parte, il vero personaggio del manga.
All'inizio, lo
ammetto, Deidara mi
lasciava un po' perplessa, non sapevo se mi piacesse o meno ma, ad un
più attento esame, ho scoperto che è un
personaggio
davvero unico!
Non potevo che
eleggere lui come
protagonista assoluto di questo suo viaggio in un'AU tutta particolare.
Spero che lo seguiate in questa sua avventura dove
diventerà, un
giorno, un artista di successo anche se forse non riuscirà
ad
allontanarsi dall'ipocrisia che lo circonda.
Buon viaggio!
ps. Di solito scrivo
racconti
umoristici. Questa è la mia prima fanfiction che, tra le
altre
cose, ha anche una tematica yaoi. Che storia acida! Perdonate
già in anticipo i miei aggiornamenti stratosfericamente
lenti...
^_^'''
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