SCENDO ALLA PROSSIMA
Valeria era uscita presto, quella mattina. Gli studi di registrazione
si trovavano all’altro capo della città, ma lei
non aveva mai preso la patente, nonostante avesse ormai superato i
trent’anni, quindi si muoveva con autobus e metro.
Arrivò alla fermata del corso principale, accompagnata solo
dalla familiare e confortante sagoma della sua chitarra, che le
avvolgeva le spalle.
Alzò il naso all’insù espirando forte.
Nell’aria c’era un vago sentore di pioggia, il sole
infatti era già sorto da un pezzo, ma nulla se non una
sottile aura di luce riusciva a penetrare un fitto banco di nuvole.
Accanto a lei alcune ragazzine con zaini in spalla chiacchieravano
concitate di compiti ed interrogazioni, attendendo l’autobus
per andare a scuola. Un anziano con un bastone sedeva sotto la
pensilina leggendo un giornale ed una donna in tailleur con un trench
scuro guardava nervosamente l’orologio sbuffando e battendo
un piede a terra.
Valeria sorrideva, invece, in maniera semplice e spontanea.
Quell’anonimo 23 Novembre era il suo giorno, quello della sua
rinascita, a cui avrebbe dovuto aggrapparsi per superare
l’anno appena trascorso.
Da lontano si delineò la figura di un autobus. Valeria
strinse appena gli occhi per leggere il numero e la destinazione sul
display luminoso. I suoi occhi erano già di per
sé piccoli e leggermente allungati, neri e profondi come la
notte, contornati da folte ma curate sopracciglia, ed in quel momento
divennero effettivamente come due fessure.
A pochi metri, riconobbe il numero del mezzo, era il suo.
Salì dalla porta posteriore e, come sempre, le venne
istintivo camminare fino in capo alla vettura e poggiarsi con le spalle
accanto al gabbiotto del conducente, sistemando la chitarra poggiata
sui piedi uniti e stretta tra le ginocchia.
Il déjà vu che seguì non la colse
impreparata. Il sorriso sul suo viso vacillò qualche
istante, gli angoli degli occhi si abbassarono
all’ingiù, fissò il suo riflesso nei
vetri delle porte appena chiuse e ricordò.
Non si trovava a Roma,
ma nella sua Bari. Il numero 53 era l’autobus che prendeva
per andare alla scuola di canto della sua città, dove teneva
un corso. Anche quel pomeriggio ci era salita con il solito palpitante
nodo allo stomaco ed il consueto sorriso luminoso che,
chissà come, riusciva a rendere i suoi occhi più
grandi.
Si era avvicinata alla
cabina del conducente ed aveva bussato contro il vetro.
«Mi scusi, a
quale fermata devo scendere per arrivare al suo cuore?» aveva
recitato con aria fin troppo seria.
La donna che guidava il
mezzo si era girata solo per un secondo per non perdere il contatto con
la strada, ma tanto era bastato perché Valeria si vedesse
riflessa nei suoi occhi ridenti di gioia.
«Come fai a
pensarne una nuova ogni giorno?”»le aveva risposto
divertita, con gli occhi nuovamente fissi sulla strada.
Valeria aveva incrociato
le braccia sulla sbarra metallica che le divideva e ci aveva poggiato
sopra il mento.
«La
verità è che ci penso la notte, mentre tu ronfi
beatamente al mio fianco tirandoti tutte le coperte».
«Lo faccio a
posta”»aveva protestato la donna, mentre le
spuntava un sorriso malizioso sulle labbra «Così
tu hai freddo e mi cerchi per abbracciarmi».
Valeria aveva osservato
il suo profilo, le pupille fisse davanti a lei, la curva furba che
avevano assunto le sue labbra, un sopracciglio che era svettato
provocatore verso l’alto ed un ciuffo di capelli biondi che
le era ricaduto sull’occhio.
«E io che mi
preoccupo ancora per te, nonostante tu decida di lasciarmi di proposito
al freddo» aveva commentato con aria sostenuta.
La donna aveva
fermato il mezzo accanto ad una fermata e ne aveva approfittato per
voltarsi verso di lei ed interrogarla con lo sguardo.
Valeria aveva infilato
una mano in tasca e ne aveva tirato fuori un merendina, che le porse
con un grosso sorriso.
«Così
stasera non arrivi affamata a cena» le aveva spiegato, e non
era riuscita ad evitare di guardarla con occhi languidi e innamorati.
La donna aveva afferrato
la merendina sfiorandole il dorso della mano per qualche istante di
troppo, intanto la fissava negli occhi.
«Grazie,
amore».
Glielo aveva solo
sussurrato quell’epiteto, ma Valeria l’aveva
sentito bene. Anzi, ancora prima di sentirlo, aveva capito che
l’avrebbe pronunciato da come l’aveva guardata,
intensamente, dolcemente, profondamente. Insomma, con amore.
L’autobus
intanto era di nuovo in movimento. La prossima fermata sarebbe stata
quella di Valeria.
«Passi tu a
comprare il latte ed il pane?» le aveva chiesto la donna.
«Sì,
certo» aveva assicurato Valeria, poi ci aveva ripensato
«Anzi, passo proprio al super prima di tornare a casa. Ti
serve qualcosa?».
«Gli
assorbenti. Quelli nella confezione blu, ma senza ali».
«Lo so che
assorbenti usi, Francesca» aveva ridacchiato Valeria,
abbassando il tono di voce per non farsi sentire dagli altri passeggeri
«Viviamo insieme da tre anni, ormai so anche… no,
questa battuta non si può fare, perché viene bene
solo con: “ so anche che marca di assorbenti
usi”».
Francesca aveva riso,
gettando un po’ la testa all’indietro.
L’autobus si era fermato e le porte si erano aperte.
«Buona
lezione» le aveva detto osservandola indietreggiare verso le
porte aperte.
«Grazie. A
stasera» Valeria l’aveva guardata finché
aveva potuto, poi si era girata ed era scesa con un saltello.
Prima che Francesca
chiudesse del tutto le porte, aveva avuto il tempo di gridarle:
«E mangia la fiesta!».
Le porte si richiusero davanti ai suoi occhi, forse era la seconda o
terza fermata, non lo sapeva. Si era persa in quel ricordo ed aveva
ritrovato sé stessa solo quando aveva nuovamente
intercettato il suo riflesso nei vetri.
Si osservò attentamente, non era molto diversa da allora.
Stesso abbigliamento volutamente trasandato, un po’ da
artista un po’ da nerd. I capelli li aveva lasciati crescere
ribelli e scuri, come i suoi occhi. A Francesca davano fastidio troppo
lunghi, perché diceva che quando la baciava, stando sopra di
lei, le finivano tutti in bocca e poi le coprivano il viso. E lei
adorava il viso di Valeria. Diceva che aveva un taglio vagamente
orientale, un po’ allungato, la pelle liscia, le labbra
grandi e piene e quel piercing sotto al labbro inferiore, esattamente
al centro del mento, che l’aveva fatta infuriare quando
gliel’aveva visto per la prima volta, e che poi aveva
imparato ad amare.
Valeria strinse un po’ di più la presa sulla
chitarra e si sporse oltre il vetro della cabina del conducente,
così, per curiosità. Scoprì che a
guidare era un uomo decisamente esile, con un naso aquilino e dei
capelli radi e unticci, che le ricordava vagamente il profilo di Giulio
Cesare.
Quel pensiero le fece ritrovare il sorriso sicuro di poco prima.
Diede una veloce occhiata all’orologio, mancava ancora
mezz’ora all’appuntamento con il suo produttore.
Aveva pensato tutta la notte al titolo da dare al suo nuovo album, il
secondo della sua carriera per il momento, ma non aveva cavato un ragno
dal buco. Erano già pronte tutte le tracce, dopo un anno e
mezzo di scrittura, sebbene a fasi alterne, i pezzi aspettavano solo di
essere incisi. Tuttavia, l’album non aveva ancora un nome.
Fino a quel momento non se ne era preoccupata, si era ripetuta che il
titolo sarebbe poi venuto da sé, e che già
arrivare ad incidere le canzoni sarebbe stato un bel traguardo, visto
l’anno che aveva appena trascorso.
Quando erano cominciati i problemi con Francesca, Valeria aveva
disperato di riuscire a portare a termine quel progetto. Le sembrava di
non avere spazio nella testa e nello stomaco, per sentire altro che non
fossero i loro litigi e le loro urla. Nemmeno per la sua amata musica,
e questa cosa la mandava in bestia.
Una frenata più brusca della altre le fece perdere
l’equilibrio ed urtare con la spalla contro la cabina del
conducente. Non era riuscita a reggersi, perché la sua prima
reazione era stata quella di stringere le mani attorno alla chitarra,
anziché attorno ad un corrimano.
Francesca aveva cominciato ad odiare la sua chitarra.
Una sera erano sedute a
tavola, stavano cenando, in silenzio, come accadeva da un po’.
Valeria aveva alzato lo
sguardo spento sulla sua compagna, ne aveva osservato il viso dai
lineamenti malinconici almeno quanto i suoi. Aveva sospirato e
Francesca aveva alzato gli occhi dal suo piatto per guardarla.
«Come
è andata la tua giornata?» le aveva chiesto
monocorde.
«Bene. La
tua?».
«Bene».
Si erano guardate ancora
un attimo, poi avevano nuovamente chinato il capo, ognuna persa nei
propri pensieri. Erano passati ancora cinque minuti, o forse di
più, e Valeria aveva lasciato cadere le posate sul piatto
causando un fastidioso tintinnio.
Francesca
l’aveva guardata, unendo le sopracciglia incuriosita, ma non
aveva detto nulla.
«Dopo domani
parto, ho un’altra serie di serate tra Toscana, Umbria ed
Emilia. Starò via due settimane» aveva annunciato
Valeria con tono piatto.
Francesca aveva
arricciato un angolo della bocca in una smorfia sarcastica.
«Certo»
aveva riflettuto scuotendo amaramente la testa «Ormai mi
parli solo per comunicarmi quanti giorni starai via».
«Lo sai che
non è così» aveva ribattuto Valeria
stancamente «Io ti parlo di tutto, o perlomeno lo farei, se
tu non avessi smesso di ascoltarmi».
Francesca era scattata
in piedi, facendo grattare la sedia sul pavimento. Aveva afferrato il
piatto che aveva davanti, assieme a bicchiere e posate ed aveva
raggiunto il lavello.
«E quando
dovrei ascoltarti?!» aveva sibilato velenosa «Se
ormai passi più tempo a suonare nei locali di mezza Italia
che a casa» poi le aveva dato le spalle ed aveva aperto il
rubinetto.
Valeria si era alzata a
sua volta e l’aveva raggiunta, le aveva posato una mano sulla
spalla per richiamare la sua attenzione, ma se l’era vista
scostare bruscamente.
«Fra, le
persone cominciano a capire la mia musica. Su facebook mi chiedono di
organizzare date nelle loro città. La gente compra il mio
cd. Perché non puoi essere felice per me?» aveva
usato un tono vagamente lamentoso e sconfortato.
Francesca aveva lasciato
perdere i piatti, si era asciugata velocemente le mani e si era girata
a fronteggiarla, con i pugni chiusi puntati ai fianchi.
«Come posso
essere felice per te, se la tua musica ti porta lontano da
me?» aveva obiettato nervosamente «Io voglio una
donna presente, voglio cominciare a pensare al futuro. Stiamo insieme
da sette anni e conviviamo da quattro, credo sia arrivato il momento di
farlo» si era fermata un attimo a prendere fiato ed i suoi
occhi si erano velati di disappunto «Io voglio una famiglia,
Vale. Ma tutto ciò che tu sei in grado di rispondermi quando
te ne parlo è uno schifosissimo: “poi vedremo,
c’è tempo” e te ne ritorni nel tuo
studio a strimpellare con quella dannata chitarra» aveva
terminato con tono più acuto.
Valeria mosse
istintivamente un passo indietro, distolse un attimo lo sguardo,
facendolo saettare ai propri piedi, poi puntò nuovamente gli
occhi nei suoi.
«Ma io pure
voglio una famiglia con te, solo non adesso. Non adesso che comincio a
vedere realizzati i miei sogni» la cadenza delle sue parole
era parsa quasi implorante.
«Beh, sai che
c’è di nuovo?! Anche io ho un sogno. Te
n’è mai fregato nulla dei miei, di
sogni?» le aveva urlato a muso duro Francesca.
«Fra, tu lo
sai che io darei la vita per te» Valeria aveva accorciato il
passo con cui si era allontanata prima e le aveva preso entrambe le
mani tra le sue.
«Non la voglio
la tua vita. Voglio la nostra vita. Insieme» Francesca aveva
scacciato bruscamente le sue mani e l’aveva oltrepassata
andando a sedersi accanto al tavolo con il gomito poggiato su di esso
ed una mano sopra la fronte.
Valeria
l’aveva fissata agitata, poi l’aveva raggiunta e si
era inginocchiata davanti alle sue gambe. Aveva inclinato il viso in
avanti per cercare il suo sguardo.
«Amore, per
noi due abbiamo tutta la vita davanti, ma per far conoscere la mia
musica devo sfruttare il momento» aveva usato un tono basso e
dolce, sebbene la voce le avesse tremato leggermente «Lo sai
che parto, ma poi torno sempre da te».
Francesca aveva preso un
lungo respiro e poi cacciato fuori tutta l’aria con un soffio
secco.
«Sono stanca
di aspettarti. E sono stanca di dividerti con la tua musica»
aveva pronunciato stancamente, perdendo tutto il vigore di un attimo
prima ed apparendo semplicemente esausta e sconfitta.
Gli occhi di Valeria si
erano spalancati, le avevano tremolato le narici ed il suo sguardo si
era riempito di terrore.
«Non
farlo» aveva avuto appena la forza di sussurrare.
«Sì,
invece. Scegli, o me o la tua musica» aveva risposto
Francesca, fissandola dritto negli occhi.
Il suono stridulo del campanello di prenotazione della fermata, la
strappò ai suoi pensieri.
Si rimise dritta, dopo l’urto, e nuovamente
incontrò il proprio riflesso. Aveva una smorfia malinconica,
adesso.
Ripensare ai mesi che erano seguiti a quell’ out-out di
Francesca, le faceva ancora male. Avevano continuato a litigare,
rinfacciare, recriminare e accusare. Dopo quella presa di posizione
della sua compagna, Valeria aspettava come una boccata di ossigeno i
giorni da passare in giro a fare concerti. Quella casa le era diventata
insopportabile, tra sguardi sinistri, grida mute, mani vuote e lenzuola
fredde.
“Se non capisce quanto la musica sia importante per me, non
mi ama davvero”, continuava a ripetersi. “Una
così meglio perderla che trovarla”, tentava di
convincersi. Però, quando finalmente se ne andava in
tournée, resisteva appena due sere, poi la sua mancanza le
annodava lo stomaco e le mozzava il fiato. Quando rientrava a casa,
abbandonava ogni proposito battagliero e tornava a pregarla di capire,
di accettare, di aspettare ancora un po’.
Quando Valeria si rese conto che Francesca la stava svuotando della
voglia di scrivere e suonare le proprie canzoni, capì che
erano arrivate al limite. Dopo mesi di guerra fredda, intervallata da
innumerevoli battaglie, combattute a suon di lacrime e pugni sul
tavolo, Valeria fece la valigia, imbracciò la sua chitarra e
se ne andò.
Era arrivata a Roma solo sei mesi prima, ed in quei sei mesi era
riuscita a scrivere più di quanto avesse fatto in tutto
l’anno precedente.
Non era stato facile. Di notte si sgretolava sotto il peso della sua
assenza, contorcendosi in un letto troppo grande per una persona sola.
Ma di mattina rimetteva insieme i suoi pezzi, incollandoli con le corde
della sua chitarra.
Valeria ebbe il tempo di guardarsi un ultima volta attraverso i vetri
della porta dell’autobus. Scorse nei suoi occhi
felicità e trepidazione. Ancora due fermate, poi sarebbe
scesa, pronta a cantare in uno studio insonorizzato la sua storia.
Rimise la chitarra in spalla e si avviò alla porta centrale.
Un distinto signore in giacca e cravatta le arrivò alle
spalle e si sporse appena verso di lei.
«Mi scusi, scende?».
Valeria scosse la testa, si fece da parte e pronunciò le sue
prime parole di quella mattina.
«Scendo alla prossima».
Le nacque spontaneo un sorriso sereno, e seppe di aver trovato il
titolo del suo nuovo album.
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