“Pronto? Sì…sì, sono io
Marco Tenni. Che… cosa??? Ma…è uno
scherzo?! Chi è che sta parlando!!!”
L’HALLOWEEN
PIÙ LUNGO DI SEMPRE
La telefonata sconvolse non poco Marco. Gli avevano
comunicato la prematura morte della sua ragazza. E non è
cosa facile da digerire…
Ovviamente poteva trattarsi di uno scherzo, non
c’è dubbio. Anzi: le successive frasi della
misteriosa persona avrebbero fatto propendere chiunque per una siffatta
conclusione.
Di fatti la misteriosa e calda voce con la quale stava interloquendo
per mezzo del freddo apparecchio telefonico aggiunse alla tragica
notizia un qualcosa di molto strano (e vi assicuro che
“molto” è un eufemismo…): se
Marco avesse voluto riavere la sua povera Marta, sarebbe dovuto
discendere nel regno degli inferi per riprendersela, e come insegna il
mito di Orfeo ed Euridice, non si sarebbe potuto voltare a guardarla
finché non fosse riuscito a portarla fuori da quel
così funereo posto.
Poi la linea cadde, ed il classico “tu-tu” del
telefono impose un ritmo martellante alle meningi del giovane.
Ora mi chiedo: come si fa oggigiorno a credere a queste follie?! E
soprattutto è un’altra la cosa che mi preme
sapere: dove cavolo sta il regno degli inferi? Questo dovete proprio
dirmelo, così ne starò ben alla lontana!
Tra l’altro quello era pure un giorno alquanto particolare:
era il 31 ottobre. Halloween!!!
La telefonata avrebbe stordito chiunque, ma molteplici sarebbero state
le reazioni ipotizzabili, data la risaputa molteplicità di
caratteri che contraddistinguono le vite umane. Così,
senz’altro, qualcuno l’avrebbe presa a ridere,
confidando nella certezza del fatto che si trattasse d’uno
scherzo. Altri sarebbero corsi immediatamente a casa della propria
ragazza per accertarsi della fondatezza o meno della notizia. Altri
ancora si sarebbero lasciati prendere dalla più totale
disperazione, naufragando in un mare di lacrime. Marco non
seguì nessuna delle tre vie appena indicate. Anzi, fu
assolutamente atipica la sua condotta emotiva: si sentì
paralizzare dentro, mentre la fronte cominciava a sudare freddo.
L’inebetimento più totale gli regnava nella testa,
spossata e pesante. Le articolazioni si irrigidirono d’un
tratto.
Non che voglia fare un trattato di patologia, ma vi assicuro che le
cose andarono così: del resto è noto a tutti che
le ansi più gravose per l’animo si ripercuoto
inevitabilmente anche sul fisico.
E dunque, schiavo della più totale confusione, le
convulsioni che gli animavano a mo’ di spasimi la
respirazione gli inflissero una sola eco con effetto ridondante nel
silenzio della stanza: Marta.
Ma cosa fare? Quale sarebbe dovuta essere la prima mossa?
Correre a casa di Marta per vedere se è tutto uno scherzo?
Non ne aveva le forze. E la vista si stava annebbiando man mano che
fagocitava questi gravosi pensieri.
Ma almeno chiamarla al cellulare, questo sì che
l’avrebbe potuto fare! Eppure era come paralizzato anche di
fronte ad ogni possibile scenario del pensiero.
Sentì suonare alla porta.
Come d’incanto l’apatia che lo possedeva scomparve
improvvisamente, e di getto si diresse verso l’uscio di casa.
All’apertura della porta, la sorpresa fu a dir poco magra:
una mocciosetta travestita da strega che chiedeva impertinente
“dolcetto o scherzetto?”. Le avrebbe inferto
volentieri una sonora pedata, ma nel suo cervello ripiombò
l’amorfo nome di “Marta” che lo dissuase
da qualsiasi azione per farlo ritornare in quello stato
psico-cadaverico in cui versava poco prima. Richiuse in modo innaturale
la porta senza offrire alla bambina alcuna caramella, e lasciandola di
stucco: ai suoi occhi infantili Marco era sembrato uno zombie che non
era riuscito neppure a proferire una parola.
Il telefono era lì, fermo sulla scrivania: sarebbe bastato
un impercettibile movimento per scacciar via ogni sorta di dubbio.
Doveva chiamare Marta. Ma non riusciva a trovarne il coraggio.
“E se fosse morta davvero? No… non penso che avrei
la forza di sentire i suoi genitori, lacerati dal dolore e dal
pianto”: questo si ripeteva nella testa Marco, mentre fissava
immobile il telefono.
E così, innaturale come era stato sin’ora, in
maniera altrettanto innaturale prese ed uscì repentinamente
di casa, sbattendo violentemente la porta, forse per tentare di
lasciarsi alle spalle pure le terribili paure che lo attanagliavano.
Sceso giù in strada, complice anche il freddo pungente, gli
occhi si fecero lucidi: si era finalmente giunti alla
prossimità del pianto. La memoria, che è cosa
cara e preziosa a tutti, a volte però è tanto
perfida nei suoi giochi del destino: in quella mente caotica e
sconvolta di Marco, proprio allora iniziò a ripescare i
ricordi di una vita passata assieme a Marta. Ed il sorriso della
ragazza era una lenta tortura che stritolava con perizia il suo animo.
Una lacrima, al fine, gli rigò la guancia destra. Al
contempo i suoi occhi bagnati scorsero qualcosa in lontananza: erano le
giostre che andavano via. Infatti, fino a qualche giorno prima, in
città erano arrivati il circo e le giostre. Lui non ci era
capitato, visto che odiava i clowns e le giostre le riteneva un
divertimento per ragazzini. E lui non si sentiva più
ragazzino già da un pezzo. Ed oggi anche un po’ di
più. Sta di fatto che di fronte a lui era iniziata la
mobilitazione dei giostrai, intenti a smontare le loro creature del
divertimento e ad imboccare la prima strada che li avrebbe portati in
chissà quale altra città per allietare i bambini.
Vita da nomadi, vita da incantatori.
Marco arrivò sul grande spiazzo dove ormai restavano pochi
baracconi da smontare ancora. Dei giostrai non si vedeva neppure
l’ombra, ed il buio infliggeva solenne un aspetto tetro e da
incubo alle giostre ancora in piedi ed abbandonate alle tenebre
notturne. C’era la giostra dei cavallini, con un telone
bianco che la copriva per metà. E c’era il bruco
mela: un enorme verme verde che sembrava sorridere beffardo al nostro
povero Marco. Più in fondo, lontana da tutto e circondata da
fogli di carta spazzati via dal vento, c’era una enorme tenda
nera dove campeggiava impressa una zucca gigante dal ghigno spavaldo:
la più lugubre di tutte le visioni. Marco vi andò
incontro come un soldato parte per la guerra: senza la certezza del
ritorno. Mano a mano che si avvicinava ad essa il vento diventava
più intenso, l’aria più fredda e gli
ululati della notte più prossimi. Gli iniziarono a far male
ed a pesare anche le lacrime sul volto. La vista umida non gli
poté comunque celare l’enorme scritta che
sovrastava il tendone nero: “IL REGNO DEGLI INFERI”.
Porca miseria! Quel nome…!
Il sangue nelle vene di Marco cominciò a ribollire, ed il
cuore iniziò a scandire prepotentemente ogni passo. Aveva di
fronte qualcosa di unico: forse una visione, forse il peggiore degli
incubi, forse la soluzione ad ogni suo dubbio. Forse Marta.
Entrò nell’antro del tendone a passi discreti, con
la saliva che veniva deglutita con violenza. Dentro non c’era
niente: solo ombre, buio. E la disperazione di Marco, solo in mezzo al
nulla. Portò distrutto le mani al volto, ed
iniziò a frignare come un bambino.
D’improvviso l’assordante silenzio che lo avvolgeva
fu spezzato da una voce che rimbombava nel telone: “Marco.
Sei dunque giunto al momento di fare la tua scelta”.
Marco sollevò impaurito la testa dalle mani, ed invano
cercò attorno a sé qualcuno.
Ma la voce continuò a proferire parole: “Se vuoi
riavere la tua Marta non devi far altro che riuscire da dove sei
entrato, senza voltarti finché non sarai fuori, o la tua
Marta scomparirà per sempre, e non la rivedrai mai
più”.
Marco, dopo un primo istante di inerme sbigottimento, risoluto
rimboccò la via dell’uscita: teneva gli occhi
strettissimi, quasi a farsi male, per paura che li avrebbe aperti. Il
viso risultava imprigionato in una morsa ferrea, in cui i denti
cercavano di trattenere le parole che avrebbe voluto dire. Intanto,
stava continuando nella sua lenta camminata verso l’esterno:
il tempo sembrava non passare mai. Quello sarebbe stato per lui
l’Halloween più lungo di sempre.
Inaspettatamente, quando fu a metà strada, una voce dietro
di sé lo chiamò suadente:
“Marco!”. Era la voce di Marta: non c’era
dubbio! In Marco la tentazione di voltarsi fu enorme: strinse i pugni
al punto di far quasi sanguinare le mani. Ma non mollò, e
continuò dritto per la sua strada.
Quella voce femminile dietro a lui però non smise di
chiamarlo: ad ogni proferimento del suo nome, Marco sentiva sempre
più vicina la resa. Ormai era deciso: si sarebbe voltato.
Mancavano pochissimi passi all’uscita, ma era troppo forte la
voglia di rivedere anche solo per un istante Marta. E poi, se ne era
convinto, quell’istante sarebbe durato per sempre: sarebbe
stato un po’ come guardare in faccia Dio.
Così, mordendosi violentemente le labbra e lacrimando
copiosamente, si arrese al destino, e si voltò di scatto. Di
fronte a lui c’era lei in tutto il suo splendore: Marta.
Lei lo guardava commossa e sorridente: lui fece in tempo solo a dire
singhiozzando “scusami…”.
Fece in tempo a dire solo questa misera parola, prima che Marta si
gettasse in contro a lui, portando le braccia attorno al suo capo, e
regalandogli un bacio tra le lacrime di entrambi.
“Sciocco! È tutto uno scherzo! Non
l’avevi capito?”
A queste parole sussurrategli da Marta, Marco non seppe come
rispondere, e la guardò un po’ stupito ed un
po’ stordito.
“Era una prova d’amore! Ora lo capisci? Volevo
vedere fino a che punto mi amavi!” disse ancora Marta.
Marco assunse un’espressione da citrullo: “Che vuoi
dire?” chiese, al dunque.
E Marta, asciugandosi le lacrime, gli sussurrò:
“Vuol dire soltanto che oggi ti amo un po’ di
più”.
E scoppiò il bacio appassionato tra i due.
(HAPPY) END
NOTA
DELL'AUTORE:
L'idea
mi è nata pensando alle tante leggende che ruotano attorno
ad Halloween, e risalendo nel tempo agli antenati primi delle leggende,
e cioè ai miti dell'antichità (di cui quello di
Orfeo ed Euridice ne è un exemplum). Sta di fatto che i
tempi mutano, nel bene e nel male (forse più nel male...), e
tutto va necessariamente ri-contestualizzato in un'ottica postmoderna
affinchè la lezione(-morale) insita nel mito o
leggenda non perda la sua genuina essenza. Così, rifacendomi
anche alla mia attualità personale, ho pensato che
oggigiorno l'Amore è cosa ben poco poetica (o meglio, sono
sempre in meno a saperne fare poesia), e quindi - ispirandomi
pure alla recente esperienza accaduta ad un mio amico, che mi ha voluto
suo confidente - una prova d'amore oggi non è altro che un
vezzo, un vuoto tentativo di rimpinguare un sentimento che si sente
lontano. E dunque il tragico finale del mito ha dovuto piegarsi
all'esigenze dell'attualità, trasformandosi un un happy end
che in realtà ha ben poco di happy se ci si pensa bene, ma
inevitabilmente dimostra la velleità di questi nostri tempi,
così precari in tutto e per tutti. Anche per chi vuole amare.
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