Frozen
A
volte vorrebbe sentire il freddo, per sapere cosa
si prova. A volte vorrebbe solo chiudere gli occhi e ricordare cosa
vuol dire
essere una persona normale. A volte vorrebbe semplicemente essere
rimasto nelle
profondità del lago, ignaro di cosa lo avrebbe aspettato nel
mondo esterno.
Il
freddo non lo può sentire, ma il calore sì e la
mano di Pitch è incredibilmente calda a contatto con la sua.
Rimane immobile: vuole
imprimersi nella memoria quel contatto, eppure una parte di
sé gli urla di
andarsene, di dare le spalle all’Uomo Nero e fuggire.
Ma
non vuole, non muoverà neanche un muscolo. Non
ricorda nemmeno l’ultima volta che ha sentito il calore di
un’altra persona sul
suo corpo, forse non è proprio mai successo; rimane fermo,
mentre la neve sotto
di loro lascia spazio ad ombre e lui e il suo nuovo compagno si
lasciano
avvolgere dalle tenebre.
Compagno…
Pitch sa come parlare, sa come persuadere
e Jack è stanco di stare da solo. Trecento anni sono tanti
per chiunque,
trecento anni da solo sono fin troppi. Più ci pensa e
più sta male. Il
malessere che non lo ha abbandonato per anni aleggia ancora su di lui,
anche
ora che dovrebbe finalmente lasciarselo alle spalle.
*
<
Non devi per forza restare da solo, Jack.>
Era
una proposta troppo allettante per non cedere
alla tentazione di ascoltare fino in fondo e lo spirito si era lasciato
andare,
nella speranza di sentire qualcosa che effettivamente lo aiutasse a
dimenticare
quel che aveva passato.
<
Ho dei compagni, ora.>
<
Ma davvero, Jack? Aspetta, sono gli stessi che
ti hanno ignorato negli ultimi tre secoli, dico bene? Quelli che sono
venuti a
recuperarti solo quando faceva loro comodo, vero?>
C’era
qualcosa che si stava rompendo dentro di lui,
il ragazzo lo sentiva: era quella piccola speranza di aver trovato il
posto
giusto per sé, un rifugio in cui incontrare facce amiche,
volti che si
sarebbero illuminati nel vederlo, che gli avrebbero parlato, che
l’avrebbero
visto.
Si
era già parzialmente scheggiata quando aveva
visto la disperazione nello sguardo di Bunnymund, disperazione e
delusione che
non riusciva assolutamente a scacciare dalla testa. Era bastato un solo
passo
falso e aveva gettato alle ortiche quel poco che era riuscito ad
ottenere dopo
trecento anni; e, certo, era poco, ma per lui valeva moltissimo.
Pitch
doveva aver capito cosa gli stava passando per
la testa, Pitch pareva capire sempre tutto di lui e questo lo
spaventava. Se
l’era ritrovato molto più vicino di quanto si
sarebbe aspettato, tanto che gli
sarebbe bastato alzare un braccio per sfiorarlo. Ma rimase fermo,
congelato sul
posto, ad ascoltare altre parole dolorose.
<
Loro non ti capiscono, Jack. Non possono
capirti. Hanno sempre avuto uno scopo, qualcuno che credeva in loro,
degli
amici, una famiglia. L’uomo della Luna è stato
clemente, ha dato loro tutto
quello che non ha dato a te, che non ha dato a me.>
Aveva
preso a girargli intorno, come un falco che
vola sopra la preda, ma Jack aveva chiuso gli occhi, un po’
perché la testa gli
doleva, un po’ perché sperava che fosse tutto
frutto della sua fantasia, che,
una volta riportato lo sguardo sul mondo, si sarebbe ritrovato accanto
al lago
da cui era fuoriuscito, da solo, ma senza rimorsi o sentimenti
contrastanti.
<
Io so come ti senti, lo so perfettamente. Anche
io sono stato solo per secoli, so cosa vuol dire non avere nessuno
accanto,
nessuno che ti degni di uno sguardo, nessuno che creda in te!>
La
sua voce echeggiò distante nella spianata di neve
e gelo e Jack, molto lentamente, si azzardò ad aprire gli
occhi. Il bianco
dell’Antartide accecò per un istante il suo
sguardo, prima di riuscire a
mettere a fuoco quella figura nera, stagliata contro
l’orizzonte. Pitch Black
era lì, di fronte a lui, lo stesso sguardo sofferente che
Jack si era visto
addosso fin troppe volte.
Era
quello che l’aveva spinto a fare una scelta. Una
scelta che ancora non sapeva se rimpiangere o meno.
*
E’
più facile di quanto non sembrasse, molto meno
problematico di quanto si era aspettato. D’altronde lo
può vedere negli occhi
del ragazzo, il motivo per cui è tutto così
semplice: disperazione, pura e
semplice disperazione.
La
sua paura è così densa che Pitch la sente attorno
a lui, avvolgente, soffocante: inala a pieni polmoni quella sensazione
così
inebriante, così piena. Si sente diventare più
forte ad ogni secondo che passa,
ma qualcosa gli rovina il momento, qualcosa che lo irrita
terribilmente. Quella
disperazione è terribilmente familiare e questo gli
dà fastidio.
Non
serve mentire per convincere Jack Frost a
passare dalla sua parte, perché le parole che fuoriescono
sono quelle che ha
trattenuto dentro di sé per secoli. Sono rabbia, invidia,
tristezza,
solitudine, un agglomerato di emozioni di cui non è mai
riuscito a disfarsi.
Inizia
con un progetto nella mente, con il desiderio
di vendetta sempre più forte in lui, con la convinzione che
quel ragazzino
prodigio potrà davvero essergli utile per dominare le menti
e i cuori del mondo
intero. Finisce chiedendosi se lo spirito del ghiaccio sarà
in grado di
salvarlo, se insieme potranno in qualche modo cominciare un nuovo
momento della
loro esistenza.
Non
ha risposte al momento, ma quando Jack Frost
accetta la sua mano tesa, sente che qualcosa sta già
cambiando.
*
Il
covo di Pitch non è poi così buio, dopo un
po’
che ci si è abituati all’oscurità. Non
è stato facile lasciare la mano
dell’Uomo Nero, non dopo essersi affezionati a quel gentile
tepore, ma Jack si
è costretto a farlo ugualmente.
Non
è ancora certo di aver fatto la scelta giusta,
ma spera di scoprirlo in fretta, perché ogni sua decisione
è preceduta da una
lunga riflessione interna su cosa sia giusto e cosa no. Non potrebbe
perdonarsi
un altro errore, non se il rischio è di tornare veramente da
solo.
Si
tiene a distanza di sicurezza dal suo nuovo
compagno, un paio di metri, in tempo per reagire in caso di attacco,
sufficientemente vicino per non perdere
di vista il padrone di casa. Le fatine dei denti
rumoreggiano dentro le
gabbie, le scuotono, tentano inutilmente di uscire; Jack lancia loro
un’occhiata triste, ma distoglie subito lo sguardo. Non ce la
fa a guardarle.
Al
centro della sala c’è un enorme mappamondo
contrassegnato da lucine che si vanno spegnendo ad una ad una.
<
Quelli sono…>
<
I bambini che credono ancora ai cosiddetti
“guardiani”. Come puoi notare, presto non ne
resterà neanche uno…>
Il
giovane spirito apre la bocca per replicare, per
opporsi, per convincere l’altro che quella non è
la cosa giusta da fare, ma le
parole si bloccano in gola. Chi è lui per distinguere cosa
è giusto e cosa no?
Nessuno ha mai creduto in lui, perché dovrebbe
preoccuparsene?
Pitch
gli scocca un’occhiata divertita, giallo
dorato su un fondo nero pece. Ha
ancora
in mano il contenitore con i suoi ricordi, Jack se ne accorge solo
adesso.
L’uomo glielo porge, il sorriso una serie di denti acuminati.
<
Li vuoi, Jack? I tuoi ricordi, la tua altra
vita?>
Ha
fatto follie per recuperare quei ricordi, ha
sacrificato la Pasqua e la fiducia degli altri guardiani per uno
straccio di
collegamento col passato, ma tutto questo ora sembra non avere
più importanza.
Scuote la testa, ficcandosi le mani in tasca.
<
Non m’interessa.>
“Non
più, ormai”.
Li
ha visti più volte, bambini che fanno i capricci,
che piangono e si disperano, che fanno stupidaggini per ottenere
qualcosa e una
volta che ce l’hanno la buttano in un angolo, completamente
priva di fascino.
Si sente così, in quel momento, ma non ci può
fare niente. Ha paura che,
qualsiasi cosa ci sia dentro quel piccolo contenitore, vederla potrebbe
distruggere anche questo nuovo inizio. Ha già perso una
volta una probabile
famiglia, non vuole che accada una seconda volta nel giro di poche ore.
Pitch
sorride comprensivo, facendo sparire in una
tasca del suo abito la scatolina incriminata.
<
Quando vuoi, Jack, sai dove trovarla.>
*
Il
tempo sembra non scorrere mai, lì dentro. Il
ragazzo non ha ancora trovato il coraggio di uscire, di vedere se
è notte o
giorno, ma il problema non è sapere l’ora: il
problema è che, al momento, Jack
Frost non ha assolutamente niente da fare e questo lo sta facendo
impazzire.
Pitch
si è rintanato nell’angolo più remoto
del suo
covo, per concludere e perfezionare ancora i suoi esperimenti con la
polvere
nera, attività a cui il giovane non vuole assolutamente
prender parte. Se non
farà niente per impedire l’ascesa del Nightmare
King, di certo non cercherà di
accelerarla.
E’
quell’immobilismo a irritarlo profondamente. E’
la prima volta che non ha davvero niente da fare, nessuna tormenta di
neve da
portare, nessun gioco, nessun divertimento. Resta lì, in
quell’enorme stanzone,
assieme alle gabbie brulicanti di fatine e assieme
all’oscurità.
Vorrebbe
poter dormire, per far passare un po’ il
tempo, per schiarirsi le idee, ma da quando Sandman è stato
distrutto per gli
spiriti come lui si è persa anche la possibilità
di sognare. Jack ci sta
riflettendo quando uno sbuffo d’aria calda sul collo lo fa
sobbalzare.
Si
volta di scatto, il bastone impugnato a due mani,
pronto ad attaccare, ma tutto ciò che vede di fronte a lui
sono due grandi
occhi gialli, vuoti. Uno degli incubi di Pitch. E’ difficile
distinguere i suoi
movimenti, nero su nero, ma il ragazzo lo sente scalpitare, colpire il
terreno
con lo zoccolo prima di lanciarsi in un nitrito che gli fa accapponare
la
pelle.
Si
chiede se tra quei granellini scuri vi sia
rimasto qualcosa della sabbia dorata di Sandy, come sia potuta
scomparire così
in fretta tutta quella felicità e tranquillità.
L’incubo sbuffa di nuovo e il
soffio scompiglia per un istante i capelli già spettinati
del ragazzo; Jack si
accorge a malapena che si sta chinando sempre di più sulla
creatura.
Afferra
il muso del cavallo e spinge la fronte
contro quella dell’animale. C’è un
momento in cui sente solo la sostanza
granulosa contro la pelle che lo solletica, lo infastidisce. Poi
l’incubo
sbuffa di nuovo e il nero diventa più scuro.
*
Doveva
essere davvero freddo quella notte, ma per
lui non faceva alcuna differenza; spiccò un balzo,
lasciandosi trascinare dal
vento verso l’alto, sempre più su, una scia di
fiocchi di neve dietro di lui e
le nuvole davanti.
Una
luna enorme illuminava la città sottostante.
Jack si fermò a mezz’aria, osservando lo
spettacolo che gli si presentava; era
una notte troppo bella per passarla da solo. Scese in picchiata verso
una
piazza, dove l’acqua della fontana era rimasta congelata nel
getto. Opera sua,
ovviamente.
Il
ragazzo sorrise, compiaciuto, ma un improvviso
movimento in una stradina secondaria catturò la sua
attenzione. Appoggiò i
piedi nudi sul terreno e si guardò attorno, il bastone
stretto in mano. Per un
istante credette di essersi inventato tutto, ma poi una figura corse da
dietro
un bidone giù per la strada, un paio di lunghe orecchie
pelose che ciondolavano
ad ogni salto.
Jack
fece per chiamarlo – era il Coniglio di Pasqua,
giusto? Ricordava di avergli fatto un bello scherzo qualche anno prima
– ma si
bloccò di colpo. La voce non gli usciva, la sua bocca non
rispondeva ai suoi
comandi.
Bunnymund
si fermò all’improvviso, annusando
l’aria,
guardandosi attorno. Vide quegli occhi verdi su di lui, lo stavano
fissando, lo
vedevano, sapeva che lui era lì, a pochi metri di distanza,
davanti a lui, era
lì, era lì… eppure niente. Il coniglio
distolse lo sguardo, come se avesse
semplicemente guardato il vuoto, e con un paio di balzi
sparì dietro un angolo.
Un’ondata
di rabbia e dolore irruppe nel petto del
giovane, mentre il suo corpo tornava ad obbedirgli e la luna veniva
lentamente
oscurata dalle nubi. C’era mancato talmente poco, era
lì, a pochi passi…
dannazione!
Fuori
di sé, Jack prese la rincorsa e tornò a
librarsi in aria, deciso a mettere più chilometri possibili
tra lui e quella
città. Il paesaggio sotto di lui continuava a cambiare, ma
il dolore al petto
non accennava a diminuire, fino a che, dopo quelli che parvero secoli,
si
ritrovò in un luogo dall’aria terribilmente
familiare.
Un
piccolo villaggio in mezzo al bosco, le case ancora
in legno, tutto illuminato a festa. La gente sfidava il freddo e usciva
nella
piazza, scaldandosi accanto ad un grande fuoco comune, ridendo,
scherzando.
Jack
conosceva quel villaggio. Atterrò in mezzo a
tutti, osservandoli uno per uno, scavando nella memoria per scoprire
dove lo
aveva già visto. Un ragazzino corse dietro ad un cane e,
senza neanche
accorgersene, andò addosso al giovane, passandogli
attraverso come se fosse
fatto d’aria.
Frost
si portò le mani al petto, mentre un ricordo
gli tornava in mente: era il primo luogo che aveva visitato dopo aver
conosciuto l’Uomo sulla Luna. Il primo luogo in cui nessuno
si era accorto di
lui. Aveva una gran voglia di urlare, ma sapeva che, anche se lo avesse
fatto,
nessuno lo avrebbe udito; rimase in silenzio, allontanandosi da quel
posto,
cercando di dimenticare tutto.
Poi
l’oscurità. Si ritrovò ad annaspare
sott’acqua,
il bastone dimenticato chissà dove e tutto attorno a lui il
buio più totale.
Aveva
paura, ma non poteva gridare, non poteva
chiedere aiuto. Aveva paura, ma non c’era nessuno con lui,
non un volto amico,
non uno solo che potesse vedere cosa gli stava accadendo.
Aprì
la bocca e l’acqua gli entrò in gola,
agitò le
braccia fino a che ne ebbe la forza, ma queste diventavano sempre
più pesanti
ad ogni movimento mentre una forza sconosciuta lo trascinava a fondo,
sempre
più giù.
Un
urlo riecheggiò da qualche parte, ma c’era solo
una parola che riusciva ancora a pensare.
“Aria…
aria…”
*
Ci
sono delle braccia a trattenerlo, braccia forti
che non hanno intenzione di lasciarlo andare. Sta ancora cercando di
respirare,
di prender aria nei polmoni, quando se ne rende conto e, il
più piano
possibile, apre gli occhi.
E’
ancora buio lì, ma l’acqua è scomparsa
assieme a
buona parte della paura, eppure Jack non riesce a smettere di tremare.
<
Si può sapere come ti è saltato in mente di
giocare con i miei incubi?>
Vorrebbe
dire a Pitch che non è stata colpa sua, che
è inutile che sia così furioso, che non
accadrà mai più, ma non ha le forze per
replicare. Si limita a prendere delle grandi boccate d’aria,
costringendosi a
tranquillizzarsi un poco alla volta.
Quando
si sente abbastanza calmo, lancia un’occhiata
oltre alla sua spalla e nell’oscurità scorge il
viso pallido dell’Uomo Nero. Ha
un’espressione furente e inflessibile, ma al momento non
gliene importa più di
tanto. Torna a chiudere gli occhi, concentrandosi sul calore che il
corpo
dell’altro emana. Per distendere i nervi, per il momento,
basterà questo.
*
Avrebbe
dovuto accorgersi subito che qualcosa non andava
nel momento in cui si era allontanato dal suo nuovo ospite: Jack Frost
sembrava
un pesce fuor d’acqua, così intento a guardarsi
intorno, a cercare qualcosa da
fare in un ambiente che non era assolutamente il suo. Ma di metterlo al
corrente dei suoi piani, dei suoi esperimenti non se ne parlava, era
fin troppo
prematuro; meglio lasciargli un po’ di tempo per abituarsi
alla situazione, per
adattarsi al posto.
Peccato
che, nonostante i trecento anni che si
portava alle spalle, lo spiritello rimanesse ugualmente un ragazzino
incline a
cacciarsi nei guai e combinare disastri. Aveva percepito subito quando
il
giovane era entrato in contatto con l’incubo, ma quando
arrivò sul posto per un
attimo temette di essere arrivato troppo tardi.
Altri
incubi arrivarono, tanti e inquieti.
Annusavano l’aria, scalpitavano, gli puntavano addosso i loro
occhi dorati;
Pitch ci mise un poco ad accorgersi che non era per il ragazzo che
erano
accorsi, ma per lui. La puzza della sua paura era sufficiente da
mandare in
visibilio le sue stesse creature. Cercò di recuperare il
controllo di sé,
specie quando Frost recuperò coscienza, abbandonandosi su di
lui e riprendendo
le forze.
Piano
piano, gli animali si allontanarono,
inghiottiti dall’oscurità. Rimasero solo loro due
e un enorme silenzio che
nessuno sapeva come spezzare.
*
Ci
sono domande a cui non riesce a trovare risposta.
Una tra le tante è perché si sia agitato
così tanto quando ha sentito Jack
scivolare nel baratro dell’incubo. Pitch non si affeziona
facilmente agli
altri, non è nella sua natura: lui è nato per
terrorizzare, per alimentare le
paure di ciascuno. C’era solo una persona a cui era veramente
legato, ma fa
parte di quel passato che preferisce non ricordare.
Scuote
la testa, lanciando un’occhiata al ragazzino
adagiato su una poltrona, leggermente più pallido del
solito, per quanto questo
possa sembrare fisicamente impossibile. No, Pitch si rifiuta di credere
di
essersi preoccupato per il piccoletto. Deve aver temuto che la sua
dipartita
avesse influssi sul suo piano, dev’essere così.
Non ci sono altre spiegazioni.
<
Allora?>
Frost
alza uno sguardo confuso su di lui, come se
non capisse la domanda implicita. Poi realizza tutto e si caccia le
mani nella
tasca della felpa, cercando di sfoderare un sorrisetto superiore che
non gli
riesce assolutamente credibile.
<
Sto bene, davvero. Mai stato meglio.>
Nessuno
dei due crede a quelle parole, neanche per
un istante, ma il Nightmare King scrolla le spalle, leggermente
irritato: non
ha intenzione di fare da balia ad un moccioso e di curarsi di lui
più del
dovuto. Torna a concentrarsi sul tomo che ha aperto davanti, cercando
qualche
elemento in più che possa aiutarlo a potenziare ancora la
sabbia nera e magari
impiegare il potere del ragazzo.
Una
lettura quanto mai difficile, specie con un
tormento invernale alle costole. Jack sembra essersi ripreso
più di quanto
l’uomo fosse portato a credere, oppure – e Pitch
pensa che non sia così
impossibile – sta solo cercando di dimostrarsi
all’altezza delle sue parole,
perché si alza di scatto dalla poltrona e comincia a vagare
per la stanza,
osservando uno ad uno i tomi della sua biblioteca, i vetrini esposti, i
suoi
esperimenti lasciati a metà.
E,
giusto perché il silenzio è d’oro,
comincia a
parlare.
Sono
solo chiacchiere del più e del meno, ricordi di
quando andava in giro a far divertire i bambini, a creare il caos per
le
strade, a chiudere le scuole. Pitch non sa perché gli sta
raccontando tutto
questo, ma preferirebbe seriamente che stesse in silenzio. E a un certo
punto,
quando quella parlantina sembra davvero ben lungi dal concludersi,
borbotta una
secca replica.
<
E io che credevo che l’incubo ti avesse
sistemato per un po’…>
Jack
lo guarda disorientato, come se si accorgesse
solo in quel momento di avere un pubblico, qualcuno che lo sta davvero
ascoltando. E’ un attimo e l’Uomo nero si ritrova
il ragazzino alle sue spalle,
tutto concentrato nel provare a decifrare le formule del tomo.
<
Che cos’è?>
<
Nulla che ti possa interessare.> ribatte
lui, cercando di ignorare la presenza dell’altro e tornare a
concentrarsi sul
suo lavoro.
<
Riguarda la sabbia di Sandy, vero?>
Sembra
pentirsi di aver pronunciato quel nome un
secondo dopo averlo fatto, perché i suoi occhi si spalancano
all’improvviso e
si tira indietro dal suo nuovo compagno, cercando qualcosa da dire.
Forse teme
che Pitch possa prendere male quel riferimento al vecchio guardiano,
forse sta
semplicemente tradendo la promessa che si era fatto, quella di non
impicciarsi
nei piani dell’altro.
<
Sì, si tratta di questo.>
*
Jack
sa che dovrebbe imporsi di stare zitto, tornare
alla sua poltrona e recuperare le forze oppure – e sarebbe
molto più sensato –
scoprire che fino ha fatto il suo bastone, ma qualcuno sta rispondendo
alle sue
domande e la sua curiosità non è mai stata
così forte.
<
Quindi intendi davvero creare un mondo di
terrore?>
L’Uomo
nero inarca un sopracciglio, ma continua a
tenere lo sguardo fisso sul volume.
<
Credevo di aver esposto in maniera
sufficientemente chiara questo punto.>
Lo
lascia tornare al suo lavoro ancora per un po’
mentre lui continua a rimuginare sulle parole da usare, su cosa dire
esattamente. Ricorda quello che ha provato entrando in contatto con
l’incubo,
ricorda quant’era acuta la sua paura: non può
augurarsi un mondo così, non ci
riesce proprio. Eppure deve esserci un modo.
Decide
di cambiare strategia; non è un granché bravo
con le parole, non ha né esperienza né
un’abilità innata nell’abbindolare gli
altri, ma sa come si sente Pitch, o, almeno, quasi. E’
l’unica carta che ha
qualche possibilità di funzionare.
<
Com’era prima? Quando la gente credeva in te,
quando avevano paura?>
C’è
un’ombra sul volto di Pitch, una in più del
solito almeno. E’ solo un attimo, ma Jack la coglie senza
difficoltà e in un
attimo si rende conto: ha fatto centro.
*
Erano
secoli che non
tentava di ricordare il passato. Il desiderio di vendetta, di rivincita
aveva
preso il sopravvento, spazzando dalla sua mente quegli epici momenti
antichi,
quando gli umani tremavano come foglie e sobbalzavano ad ogni fruscio.
Aveva
rinchiuso quei
ricordi – assieme a quelli della sua vita precedente
– in un angolo remoto di
sé e, per un motivo o per l’altro, non desiderava
affatto riportarli alla luce.
Certo, non si era mai sentito così forte come allora e con
forte intendeva
invincibile, potente, con niente e nessuno a poter reggere il confronto.
Ma
più che il delirio e
l’estasi di quei momenti ricordava il dolore per essere
escluso dall’Uomo della
Luna, la sofferenza nel vedere i guardiani, nell’essere
consapevole di non
essere uno di loro: lui era unico, era speciale ed era solo.
E
lì, in cima alla
vetta del potere, non aveva trovato quella che cercava, la sua vita
passata
aveva continuato a tormentarlo. I ricordi erano la morte del suo
presente, la
sua dannazione eterna.
Per
questo restò in silenzio
per una lunghissima manciata di secondi, dopo che Frost gli aveva
rivolto
quella domanda. E la risposta che uscì dalle sue labbra
voleva dire tutto e
nulla.
<
Era speciale. Era
tutto diverso ed era tutto identico.>
*
Jack
non sa cos’ha scatenato nell’Uomo Nero –
forse
è perché lui non è proprio una cima,
ma non riesce a cogliere il significato
recondito della sua risposta. Ma una reazione c’è
stata, qualcosa dev’essere
scattato dentro di lui, il ragazzo ne è certo e quel che ha
ottenuto è quanto
di più vero potesse ricevere da Pitch.
<
Sai, è successo anche a me di sentirmi
speciale. Quando portavo la neve nel parco, ad esempio, tutti i bambini
si
lanciavano in battaglie di palle di neve. Pensavo che fosse tutto
merito mio e
mi sentivo bene.>
Probabilmente
è una cosa sciocca da dire, ma
l’occhiata che l’altro gli scocca è
enigmatica, quasi cauta.
<
Con la paura non funziona così. Non puoi far
divertire la gente con la paura.>
Si
fissano per qualche istante, prima che Jack gli
sorrida, il primo vero sorriso da quando la Pasqua è andata
distrutta.
<
C’è gente che paga per avere paura. Le hai mai
viste le orde di ragazzini che vogliono andare sulle montagne russe?
Urlano
come dei pazzi. E i film dell’orrore? Ho visto code
chilometriche fuori dai
cinema.>
<
Non conquisterò il mondo con montagne russe e
cinema.> ribatte secco Pitch, ma il ragazzo scrolla le spalle
con
noncuranza.
<
Non ti dico di farlo, dico solo che potresti.
La paura non è sempre un male di per
sé… fossi in te ci penserei.>
*
Sono
passate un paio d’ore dalla loro breve
chiacchierata e Jack è ancora stravaccato sulla poltrona:
che lo voglia far
intendere o meno, si sente ancora un po’ debole. Pitch finge
di proseguire nel
suo esperimento, ma la sua mente è altrove.
Ripensa
alle parole dello spiritello e a quello che
ha visto nel contenitore dei ricordi: un moccioso scavezzacollo, senza
la più
pallida idea di quando fermarsi, incurante dei limiti, delle barriere.
Così
sventato da pattinare su una superficie ghiacciata dove bastava poco
perché si
formasse una crepa, perché tutto crollasse.
“Se
ci fossi stato io, se gli avessi instillato un
po’ di paura, forse si sarebbe fermato, forse non sarebbe
morto.”
E’
un pensiero che non riesce a togliersi dalla
mente.
“Sei
morto a causa della mia negligenza, Jack
Overland Frost.”
Prova
a concentrarsi, ma si sente inquieto,
distratto: ha sperato in un cambiamento quando ha stretto la mano al
ragazzo,
ma mai avrebbe pensato che potesse succedere… questo. Si
chiede se non fosse
già tutto previsto: forse l’Uomo della Luna ha
mandato il piccoletto per lui.
Forse c’è davvero un’altra
possibilità anche per lui.
Vede
il ragazzo sbadigliare e stiracchiarsi. Senza
farsi notare, allunga una mano verso una bottiglietta alla sua
sinistra, al suo
interno vortica lentamente della sabbia dorata. La lascia fluttuare
davanti a
sé e, piano piano, facendo attenzione a non infettarla, la
indirizza verso Jack
Frost.
Tutti
hanno diritto a dei bei sogni, ad un riposo
senza incubi, Jack in primis.
Mentre
lo spiritello si accoccola meglio sulla
poltrona e si abbandona al sonno, Pitch ritorna finalmente al suo
esperimento:
le stesse preoccupazioni di prima lo tormentano, ma è come
se si fosse tolto un
peso dal petto.
A
cuor leggero torna a lavorare.