L’ombra del re
C’era un pugnale sul
tavolo, la lama lucida rifletteva i raggi abbaglianti del sole, che
filtravano attraverso un pertugio tra le spesse tende che nascondevano
le ampie vetrate della stanza. Il suo sguardo seguì il
profilo dell’arma, leggermente ricurvo, mortalmente affilato;
ci passò sopra un dito, mordendosi appena il labbro
inferiore quando un movimento azzardato portò la lama a
graffiare la sua pelle olivastra. Non faceva male, ma alla vista del
sangue – del suo sangue, per essere
precisi – non si sarebbe mai abituato. Leccò la
ferita e afferrò con lentezza il pugnale, nascondendolo tra
le vesti nero pece.
Lungo il corridoio il sole, senza
più alcuna tenda ad ostacolarlo, colpiva in pieno le
coloratissime vetrate, proiettando giochi di luci e colori sulle
pareti. A disturbarli solo quell’ombra furtiva, abituata ad
agire nel buio, alle spalle di ogni conoscente, di notte: i suoi passi
non facevano alcun rumore, il suo respiro era silenzioso e controllato,
gli occhi abituati alla tenebra in cui il suo animo era ormai
sprofondato da tempo. Sfiorò inconsciamente quella lama
sotto le sue vesti, mentre un sorriso appena accennato
gl’incurvava le labbra. “Da quanto
tempo…”
Lui era lì, dove si era
sempre aspettato che fosse: affacciato al balcone, immerso nella luce
più pura, il volto fiero e piacevole verso la folla
acclamante, a lui le spalle possenti. Aveva un aspetto decisamente
regale con quel portamento, la schiena dritta, la testa alta, quella
chioma indomita di capelli castano-rossicci agitata al vento. E sopra
di essa, la mela della discordia: quel piccolo cerchio metallico,
dorato, anch’esso sfavillante per i raggi del sole. Era un
ninnolo come tanti, in fin dei conti. O, almeno, questo era quello che
si era sempre ripetuto, quando la rabbia cominciava ad avere il
sopravvento e l’autocontrollo gli scivolava tra le dita.
Sarà anche stato un gingillo inutile, ma sul suo capo, ah,
sul suo capo mutava completamente di significato.
Eccolo lì, il re, il
comandante, il dio in terra, affacciato a bearsi dell’amore e
dell’acclamazione del suo popolo adorante, una folla
sterminata di volti ignoti, insignificanti. Ah, la plebaglia in
venerazione dell’unico uomo di cui tutti conoscessero il
viso. E lui non se ne vantava mica, assolutamente no: era troppo
meschino glorificarsi di fronte agli altri, sbattere in faccia a tutti
la sua fortuna, la sua fama. No, Mufasa – re Mufasa
– sapeva perfettamente che ciò che aveva un
po’ lo doveva al merito, ma soprattutto alla fortuna. La
fortuna di essere nato nella casa giusta al momento giusto, di essere
il continuatore della stirpe regnante. La fortuna di essere il
primogenito.
Ancora una volta le dita corsero al
pugnale nascosto, ma questa volta ne strinsero l’impugnatura
con forza e rabbia. Fu colpa dell’odio se fece scivolare
fuori dalle vesti quella lama affilata, fu l’odio a farlo
camminare, in silenzio, verso la larga schiena del loro amato re,
ignaro e incredulo del fatto che potesse esistere anche un solo essere
umano capace di non amarlo. Fu l’odio, in fine, a muovere la
mano guantata di nero, l’arma stretta in una morsa ferrea:
sollevarsi e abbassarsi, ritmicamente, un affondo dopo
l’altro.
Non c’era più
alcuna folla adorante di fronte a lui, né alcuna luce a
rischiarare l’aria: solo la lama, ormai rossa, che
ripetutamente calava sulla possente schiena, scavando, squarciando,
macchie scarlatte che s’allargavano sull’abito del
monarca e la consapevolezza, feroce ed estasiata, che quello era un
nuovo inizio, il suo inizio. Non era
più l’odio a far muovere quella mano, era lui,
Scar. Lui che, dopo anni di umiliazioni ed insulti, si prendeva la sua
agognata vendetta e ne assaporava ogni singolo istante, con una
soddisfazione che mai fino a quel momento aveva provato.
Il suo animo gioì
selvaggiamente quando vide quella montagna di muscoli, carne e sangue
scivolare lentamente sul pavimento senza un gemito. Gli veniva da
ridere e probabilmente lo fece pure, la sua felicità che
riecheggiava e rimbombava sulle pareti del corridoio dietro di lui e
raggiungeva ogni stanza, ogni ambiente, così che tutti
sapessero che era tempo di cambiare musica: era lui, re Scar, a sedere
sul trono per diritto, da quel giorno.
Tronfio del suo successo, non si
curò nemmeno del fatto che quella folla esultante, tanto
numerosa prima, fosse tutta d’un colpo sparita: prima o poi
sarebbe tornata, volente o nolente, perché lui ora esigeva
tutti i tributi che gli erano stati sottratti fin dai suoi primi anni
di vita. Con quel sorriso spietato sul volto, sfiorò appena
con la punta dello stivale il corpo esanime ai suoi piedi. Eccolo, il
sapore della vittoria. Con un colpo secco rovesciò il
cadavere, ma l’esultanza gli si bloccò nei
polmoni: di fronte a lui, pur nel freddo abbraccio della morte, il viso
di suo fratello rimaneva fiero, regale, tanto che non sembrava neppure
morto.
Era davvero il colmo.
Calò nuovamente la lama su di lui, più forte,
più forte, perché nessuno potesse mettere in
dubbio che Mufasa era davvero morto, perché, anche nel
più profondo recesso della sua anima quel terribile dubbio
venisse sradicato. Ma, invece di sbiancare e irrigidirsi, il corpo
sembrava riacquistare vitalità, la pelle era morbida, il
colorito acceso, gli occhi, anche se fermi, erano luminosi come non
mai. Scar indietreggiò, l’inutile arma cadde a
terra squarciando il silenzio.
Poi, un incubo che diveniva
realtà, il cadavere si mosse: prima un braccio, poi
l’altro, si puntellava sui gomiti, si chinava in avanti, si
rimetteva in piedi. E, lentamente, quello sguardo fisso si spostava su
di lui.
Si svegliò con un grido
in gola, il respiro affannoso e le lenzuola madide di sudore che
s’appiccicavano alla pelle: l’immagine di quegli
occhi era ancora vividamente impressa nella sua mente.
L’uomo – perché in quel
momento, da solo, nel buio tetro della sua stanza, si sentiva tutto
tranne che un re – si sforzò di controllarsi, di
placare l’adrenalina che correva nelle vene e il cuore che
batteva all’impazzata. Il rumore di quel battito rimbombava
nelle orecchie con una forza incredibile.
Lentamente, mentre
l’immagine di quei terribili occhi si faceva sempre
più opaca, Scar recuperò la lucidità e
la freddezza di sempre. Si era lasciato suggestionare troppo da quello
stupido, stupidissimo incubo: non c’erano motivi di temere il
ritorno di suo fratello, il suo corpo giaceva sotto terra da ormai
dieci anni e non aveva mai dato motivo di credere che dovesse alzarsi
d’un tratto e vendicarsi del suo assassino.
D’altronde, rifletteva l’uomo passandosi
distrattamente una mano sulla barba nera che gli copriva il mento,
l’aveva visto lui stesso, con quei suoi occhi, il cadavere
incriminato. E, per quanto i rozzi popolani e i sudditi più
superstiziosi lo bisbigliassero al riparo da orecchie indiscrete, tutti
quei discorsi su morti resuscitati, stregonerie varie e bevande
miracolose erano solo fandonie.
Abbandonò la testa
contro il cuscino e, soddisfatto che il suo cuore avesse ricominciato a
battere con un ritmo più naturale, fece l’unica
cosa che poteva tranquillizzarlo in quei momenti successivi al panico:
ricordò cosa era veramente successo quella mattina di dieci
anni prima. La sua mente non rabbrividiva nel ripercorrere, tappa dopo
tappa, quel piano così crudele, anzi, lo studiava e
ristudiava, chiedendosi se ci sarebbe stato modo di svolgere il tutto
in maniera più pulita e discreta o se davvero quello, pur
dopo tante revisioni, restava comunque l’assassinio perfetto.
Il ricordare il corpo esanime di suo fratello a terra, ricoperto di
polvere come ogni altro infimo essere vivente, gli faceva sempre tirare
un respiro di sollievo. Non era una sua fantasia, non aveva sognato ad
occhi aperti per tutto quel tempo: Mufasa era, in tutto e per tutto,
deceduto. Nessun dubbio a riguardo.
Un tragico incidente,
così era stato presentato al popolo e agli altri membri
della corte – la più difficile da convincere, come
aveva immaginato, era stata lady Sarabi, i suoi occhi diffidenti non
l’avevano lasciato per un solo istante – una
battuta di caccia come tante altre, ma con un esito letale. Un
terribile fatto, che aveva visto l’amato re Mufasa travolto
da un branco impazzito di cinghiali. I contadini di quella contrada si
erano spesso lamentati della devastazione che quelle bestie portavano,
distruggendo i campi arati ed il raccolto. Subito dopo
l’accaduto era stato dato l’ordine di sterminarne
ogni singolo esemplare, così da eliminare il problema alle
radici e rendere al tempo stesso onore alla memoria del defunto
monarca. Un vero peccato che il corpo del piccolo principe Simba non
fosse mai stato ritrovato.
A quel pensiero
nell’animo di Scar fece capolino un nuovo dubbio,
un’inquietudine che lo rodeva come un tarlo e gli faceva
venire i brividi: avrebbe dovuto occuparsi di persona di quella piaga
di suo nipote, ma da sempre aveva avuto una certa avversione a
sporcarsi le mani. Aveva preferito lasciare quel compito a tre dei suoi
predoni, quella gente barbara di cui si era servito per mettere in
scena quel bel teatrino di morte. Certo, i predoni non erano affatto
famosi per la loro intelligenza, ma quei tre parevano avere un
po’ più di sale in zucca rispetto ai loro
compagni. E poi l’ordine era stato semplicissimo:
“Uccidetelo”.
Era talmente banale che neanche un
barbaro idiota avrebbe potuto fallire, eppure il non aver visto il
cadavere del nipote preoccupava re Scar, quasi si aspettasse di veder
sbucare quel ragazzino smilzo dalla finestra, armi in pugno e
desideroso di vendicarsi. “No, è una
sciocchezza.”, si ripeté per convincersi, il buio
della stanza meno impenetrabile ora che i suoi occhi vi si erano
abituati. Erano passati dieci anni da quel giorno e, anche nel caso che
il moccioso fosse sopravvissuto a quei tre imbecilli che gli aveva
mandato contro, non sarebbe mai riuscito a resistere a lungo da solo,
nella foresta, alla mercé di ladri e bestie feroci.
Con quel chiodo fisso in testa Scar
tornò a stendersi, più deciso che mai a non farsi
rovinare il sonno da un pensiero così strano.
*
La mattina seguente
l’idea che suo nipote fosse vivo e vegeto, intento ad
architettare piani di riconquista del regno con chissà quale
armata, aveva completamente abbandonato la mente di re Scar; alla luce
del sole tutti quei dubbi erano stati spazzati via, lasciando campo
libero alla meticolosa logica di quell’uomo privo di
scrupoli, che occupava gran parte del suo tempo
nell’escogitare nuovi celati modi di spremere il proprio
popolo all’osso.
Quando però
entrò nella sala del trono, il suo intento di meditare in
silenzio per conto suo incontrò subito delle resistenze:
delle gracchianti urla raggiunsero le sue orecchie e gli fecero
storcere la bocca. Forse quei selvaggi non avevano capito, neanche dopo
tutti quegli anni, che lui non ammetteva quei suoni sguaiati nel suo
castello. Ricordando rapidamente il glorioso passato della Rupe dei Re,
si avvicinò al gruppetto di guardie che rideva sempre
più forte; non ci mise molto a riconoscere in quei tre
Banzai, Shenzi e Ed – il suo nuovo cappio al collo,
pensò sconsolato, il giorno in cui sarebbe riuscito a
regnare senza l’appoggio di quelle iene avrebbe davvero
dominato il regno. Per terra, di fronte a loro, c’era la
figura gracile ed impacciata del maggiordomo Zazu.
< Ehi, capo! Questo qui dice
che non c’è più nulla da
mangiare…> esordì Banzai con tono
petulante, pungolando con un piede quel mucchietto di pelle e ossa che
un tempo era una delle figure più importanti della corte.
Scar fissò una ad una quelle facce così ottuse e
si chiese come avesse fatto seriamente a dipendere da gente del genere.
< Parlatene con il cuoco. Fuori, ora. Tutti e tre.>
Lo sguardo che quei barbari si
scambiarono non gli piacque per nulla, ma si avviò
ugualmente verso il trono senza degnarli di un’ulteriore
occhiata; ogni volta che sedeva lì, con l’immenso
salone di fronte, un riusciva a reprimere un brivido che gli percorreva
la spina dorsale. I tre si allontanarono borbottando, lasciando sul
pavimento il maggiordomo.
< Zazu…>
L’uomo si alzò in fretta dal pavimento,
inciampando nel tentativo. Si avvicinò titubante al trono,
gli occhi bassi nascosti dal ciuffo di capelli corvini; aveva sempre
avuto una brutta sensazione ogni volta che si era avvicinato a
quell’uomo, anche prima che egli salisse al trono. Dovevano
essere quelle iridi di un verde sfavillante, la cicatrice che sfigurava
il volto o il ghigno crudele che così spesso arcuava le sue
labbra.
< Mi dica, sire.>
balbettò con un mezzo inchino, aspettandosi qualche
frecciatina sarcastica od una richiesta umiliante, come accadeva sempre
più spesso. Un’ondata di nostalgia lo
investì ricordando le ore passate a camminare fianco a
fianco con Mufasa, nei giardini del castello; in quei momenti si era
sentito come un membro della famiglia reale, un fratello e un amico. Si
era illuso che sarebbe durato per sempre, fino alla fine della sua
vita. Evidentemente non era andata così.
< Trova Sarabi, dille di
procurare il cibo, in qualsiasi maniera. Non voglio più
sentir parlare di questo problema.>
*
C’erano problemi, in quel
regno, ce n’erano fin troppi: proprio per questo Scar aveva
pensato bene di mantenere in vita le uniche due persone veramente in
grado di fronteggiare queste difficoltà di tipo pratico.
Zazu e Sarabi dovevano ringraziare la loro esperienza di corte se non
erano accidentalmente caduti da cavallo, sbattendo il capo contro un
masso inopportuno. Scar non era un inetto in quel campo, semplicemente
non gl’importava: tutto ciò che aveva sempre
voluto era il potere, una volta ottenuto non aveva alcun interesse nel
sapere come vivevano i suoi sudditi o se il raccolto procedeva bene,
finché nessuno minacciava la sua incolumità.
In realtà gli sforzi
dell’ex-regina e del maggiordomo erano serviti ad arginare il
disastro, ma la situazione era comunque molto difficile: la
siccità aveva dato inizio alla carestia e i predoni iene,
alleati del nuovo sovrano, avevano fatto il resto.
Sarabi… la regina non
aveva preso affatto bene la notizia della morte di suo marito e del suo
unico figlio; in effetti era l’unica di cui Scar avesse
temuto la reazione. Una donna così fiera, così
forte non si sarebbe lasciata mettere i piedi in testa facilmente.
Temendo che riuscisse a organizzare una salda resistenza,
l’uomo si era affrettato a far entrare i predoni nel corpo
delle guardie, integrando dove possibile e costituendo una guardia
privata per la sua sicurezza. Tutte misure di facciata che servivano a
porre la debita distanza tra il nuovo re e i suoi possibili
attentatori, prima fra tutti l’ex-regina.
Per un attimo, un folle istante,
aveva immaginato di prenderla in sposa, per vincolarla a lui e tenerla
sotto controllo, ma l’idea di servirsi il veleno con le
proprie mani e consegnarsi a lei in quella maniera l’aveva
distolto dal suo intento. Un tempo l’aveva desiderata, o
almeno questo era quello che aveva sempre creduto; forse, in
realtà, la voleva solo perché era promessa a
Mufasa. Ricordava ancora una volta in cui un loro amico
d’infanzia, che aveva capito che Scar era attratto dalla
ragazza, se l’era lasciato sfuggire con una battuta di fronte
al fratello maggiore. Il giovane si era aspettato una sfuriata, una
rabbiosa rivendicazione e invece niente: solo quel sorriso, un
po’ mesto, ma di certo affettuoso, che Mufasa gli aveva
rivolto, come a dire che, se questo era ciò che desiderava,
lui gliel’avrebbe concesso, perché voleva solo ed
unicamente la felicità del suo fratellino.
All’epoca i rapporti tra
i due erano ancora buoni, o almeno questo era quello che il maggiore
credeva. Scar sospirò, passandosi una mano sul volto:
ricordare il passato gli aveva fatto tornare in mente il sogno della
notte precedente. Osservò distrattamente un paio di barbari
ridere sguaiatamente nel giardino sottostante, i volti rossi per il
troppo vino; la stessa inquietudine che l’aveva assalito
poche ore prima si riaffacciò alla porta: come aveva fatto a
fidarsi di gente come quella per svolgere un compito così
delicato?
Risoluto a scacciare per una buona
volta quei tremendi dubbi, il re si scostò dal balcone
dov’era affacciato e chiamò un servo. Avrebbe
affidato ad una persona di fiducia, ad un vero soldato,
l’onere di cercare il principe Simba, ovunque egli fosse,
vivo o morto, a costo di battere ogni singolo centimetro della loro
terra desolata. Non poteva più rimandare.
*
Pur con il fragoroso russare di
quel grassone di Pumbaa che gli fracassava i timpani, Simba
pensò di essere estremamente fortunato: non c’era
stato bisogno di trovare riparo per quella notte, il cielo nero era
senza una nuvola, trapuntato di stelle luminosissime. Il giovane si
voltò a cercare con lo sguardo i suoi compagni, nella
speranza di poter conversare un poco, visto che in quel momento non
aveva affatto sonno. Pumbaa, alla sua destra, era ad un paio di metri
di distanza, schiena a terra, la grossa pancia che si alzava e si
abbassava al ritmo del suo russare; Timon, sul lato opposto, era
raggomitolato in posizione fetale, le braccia sopra le orecchie nel
tentativo di sopportare quel frastuono a cui non era mai riuscito ad
abituarsi.
Simba sorrise
nell’osservare quella strana coppia e tornò ad
ammirare il cielo, il pensiero tornava indietro al suo primo incontro
con quei due. Nel ricordarlo, dovette ammettere di essere stato davvero
fortunato. Non era venuto a cercarlo nessuno, dopo
l’incidente. L’idea che qualcuno potesse mettersi
sulle sue tracce lo aveva terrorizzato per anni, diviso tra la
nostalgia di casa – e di sua madre e di Nala – e la
paura di dover affrontare le proprie responsabilità.
Zio Scar aveva ragione, era colpa
sua se suo padre era morto… chissà se
l’aveva detto agli altri! Che faccia avrebbe fatto sua madre,
se l’avesse saputo? Probabilmente si sarebbe rifiutata di
crederci, avrebbe accusato lo zio di essere un bugiardo… se
solo avesse saputo com’erano andate le cose!
Le stelle gli ricordarono quella
notte con suo padre, uno degli ultimi momenti passati insieme, forse
quello che più gli era rimasto impresso nella mente. Forse
suo padre lo stava guardando da lassù, forse lo aveva
perdonato già da tempo, per il suo terribile crimine. Forse,
invece, dall’alto dei cieli reclamava una vendetta che gli
spettava di diritto e che forse qualcuno, prima o poi, avrebbe compiuto.
Il ragazzo scosse la testa,
accorgendosi di avere gli occhi umidi: in quei momenti avrebbe voluto
nascondersi sotto terra e non pensare più a nulla,
né al passato né al futuro… come aveva
fatto, d’altronde, in tutti quegli anni passati nel nome del
famoso motto, “Hakuna Matata”. Si agitò,
un poco a disagio, sul suo giaciglio d’erba, sperando che il
sonno lo cogliesse in fretta, impedendogli di ricordare ancora. In fin
dei conti, era lontano leghe dalla sua terra natia, in un remotissimo
angolo del regno, lontano dalla folla e dai cantastorie; viaggiava da
villaggio a villaggio, nutrendosi di quel che cacciava o raccoglieva
nel sottobosco – e ogni tanto di quello che riuscivano a
sgraffignare dai possedimenti altrui, facendo ben attenzione a non
farsi scoprire: non c’era persona più anonima di
lui, in quel posto. Nessuno conosceva il suo passato, nessuno sapeva
chi fosse né poteva immaginarlo.
Avrebbe dovuto essere una ragione
sufficiente per stare calmi e vivere senza pensieri, ma il tempo non
aveva cancellato quei terribili momenti dalla sua mente.
Sbuffò, improvvisamente stanco. Era la notte a portargli
quell’inquietudine. Il giorno successivo sarebbe stato tutto
più semplice.
*
Quella notte sognò lui,
ma non era di spalle come nell’incubo della sera prima.
Più che un sogno, aveva il sapore di una reminiscenza molto
vivida. Erano ancora giovani, suo padre regnava con mano ferma e il
popolo aveva occhi solo per lui, senza badare troppo ai suoi due
figlioli scapestrati. Mufasa aveva un talento per ficcarsi nei guai,
mentre Scar trasformava ogni gioco in una sfida molto spesso
pericolosa: i due, messi assieme, erano una calamita per le sciagure.
Si erano nascosti nel fienile di un
contadino, a cui avevano probabilmente giocato qualche brutto tiro,
visto che li stava cercando col forcone in mano. Forse non aveva
apprezzato che quei due giovanotti, di cui ignorava
l’identità, si fossero dimostrati così
entusiasti della sua bella figliola. Mufasa doveva tenersi una mano
premuta sulla bocca per non far sentire le sue risate, mentre
l’uomo continuava a sbraitare ed inveire, agitando il forcone
in aria come una sorta di lancia.
Era tutto davvero divertente,
almeno finché il contadino non entrò nel fienile
per continuare i suoi affari; i due fratelli si nascosero in fretta
nella paglia, facendo ben attenzione a non lasciar scoperto un lembo di
tunica o non se la sarebbero cavata con poco. Sotto quel mare di fieno,
con l’odore acre che penetrava nelle radici e il corpo del
fratello premuto contro il suo, Scar ebbe un attimo di smarrimento; il
sangue gli pulsava forte nel cervello mentre osservava di soppiatto le
mosse del contadino, una parte di lui pregava che non si accorgesse di
nulla e uscisse in fretta da là, un’altra era
intenta ad ascoltare il ritmo rapido del suo cuore.
Indietreggiò un poco e
con la testa urtò qualcosa; l’aria calda sulla
guancia gli fece intendere che era andato dritto contro suo fratello.
Alzò lo sguardo su di lui e lo vide impassibile, tranquillo
come sempre, gli occhi concentrati a studiare le mosse di quel villico;
non sembrava minimamente agitato o preoccupato per il guaio in cui
s’erano cacciati.
Il più giovane rimase
immobile: l’idea di farsi scoprire lo terrorizzava a morte.
Suo padre non l’avrebbe presa bene, questo era certo, e
– come accadeva il più delle volte – non
sarebbe stato certo Mufasa ad essere punito. Si morse appena il labbro
nel ricordare come suo fratello riuscisse a passare sempre per il bravo
ragazzo che, assolutamente senza volerlo, finiva per cacciarsi nelle
situazioni più assurde.
Gli lanciò
un’occhiata di soppiatto; stargli così vicino lo
metteva a disagio. Non si era mai abituato al contatto fisico e, per
quanto possibile, cercava di mantenere le giuste distanze da tutti; in
quel caso non gli era possibile. Scar sentì il respiro farsi
più veloce e pesante, un sottile velo di sudore imperlargli
la fronte: l’odore del fieno penetrava con forza nelle sue
narici, la testa girava sempre più veloce.
La scena cambiò: non
più il fieno, non più il contadino armato di
forcone che inveiva e bestemmiava. Era nel castello, ora, nella stanza
in cui si rifugiava frequentemente a leggere i tomi impolverati della
biblioteca; ma quel giorno era lì per un altro motivo. Per
la vergogna, principalmente, ma anche perché sapeva che suo
padre non sarebbe venuto a cercarlo lì: lasciarsi colpire in
maniera così stupida da suo fratello era un'onta che non
riusciva a sopportare, specie perché molti avevano assistito
al loro duello.
Era uno scontro tra ragazzi, di
quelli che Mufasa gli proponeva per esercitarsi meglio con la spada:
sapeva perfettamente, e il loro vecchio padre era dello stesso parere,
che non si può essere re se non si è abili nel
combattimento. E' così che ci si guadagna la fama presso i
sudditi, il rispetto e la lealtà del proprio esercito, la
paura degli avversari. Ma, per quanto si sforzasse, Scar non era mai
stato portato per quel genere di attività, un'altra conferma
del fatto che lui non era proprio destinato a regnare.
Quel giorno si era distratto, di
fronte a tutti, nel momento meno opportuno e il risultato era
quell'orribile taglio sull'occhio e uno, molto meno visibile e molto
meno grave, sul braccio. Chiuse gli occhi, cercando di rimuovere dalla
propria mente l'urlo di sua madre quando aveva visto il suo
secondogenito crollare a terra e lo sguardo preoccupato e deluso di suo
padre. Era scappato con la coda tra le gambe, incapace di sostenere
quella situazione, e non aveva voluto andare in nessun posto se non la
biblioteca. Due curatrici lo avevano seguito, disposte a medicarlo
ovunque egli fosse andato. Avevano fatto quant'era possibile e gli
avevano consigliato riposo, venendo scacciate in malo modo: non voleva
nessun altro spettatore della sua umiliante condizione.
L'autunno stava cedendo rapidamente
il posto all'inverno e in ogni stanza del castello la legna ardeva nei
camini e scaldava la fredda pietra e l'aria; Scar si
avvicinò con la sedia al fuoco, dando le spalle alla porta.
Avrebbe voluto alzarsi e prendere un libro qualunque, per distrarsi, ma
aveva il terrore che, alzandosi, il suo sguardo sarebbe corso allo
specchio posto sopra il camino: non aveva ancora trovato il coraggio di
guardare il suo occhio bendato, aveva solo sentito il taglio con le
dita, prima che le curatrici lo disinfettassero.
Già al tatto gli aveva
fatto ribrezzo, non osava pensare a quando sarebbe stato costretto a
guardarlo. Sospirò, passandosi una mano tra i capelli;
udì appena dei passi felpati, ma non si voltò a
controllare chi fosse.
< Vattene.>
ordinò con voce roca, ma lo sgradito visitatore non si
fermò.
< Fratello...> Scar
s'irrigidì nel sentire la voce di Mufasa: tra tutti era
l'ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento, secondo
forse solo a suo padre. Rimase immobile, sperando che l'altro gli
concedesse ancora un po' di solitudine, ma il fratello gli
girò attorno e rimase in piedi tra la sedia e il camino,
un'espressione mortificata stampata sul volto.
< Che
c'è?> Se fosse riuscito ad esprimersi con un tono
disinvolto, Scar non avrebbe saputo dirlo, ma la confusione che lesse
negli occhi del fratello gli confermò che, in qualche modo,
ci era andato vicino.
< Io...> Le parole
del legittimo erede al trono s'interruppero, morendogli in gola; non
riusciva a far altro che guardare la figura sofferente del
più giovane e farsi divorare dai sensi di colpa. Scar
alzò l'unico occhio visibile e ficcò il suo
sguardo in quello dell'altro: un'occhiata inquisitoria e cieca d'ira,
che pareva urlare quello che il ragazzo avrebbe voluto dire. "Sono
così patetico che non riesci neanche a parlarmi... a trovare
delle frasi di circostanza che non sembrino false?".
Mufasa abbassò gli
occhi, sconfitto, e per un istante il più giovane s'illuse
di poter essere lasciato nuovamente solo; e invece sussultò
quando suo fratello gli si fece più vicino e
sfiorò con la punta delle dita il braccio ferito. Si
inchinò di fronte a lui, un ginocchio a terra. Le sue dita
scesero lungo il braccio fino a prendergli delicatamente la mano e
portarne il dorso alle labbra.
< Mi dispiace.>
Era una delle rarissime volte in
cui Mufasa, l'orgoglioso Mufasa, dal carattere indomito e propenso a
cercar guai, gli chiedeva scusa. Forse era l'unico caso in cui non lo
diceva perché costretto, ma perché sentiva dal
profondo del cuore di aver sbagliato. La mano libera di Scar
artigliò la coscia su cui era appoggiata, mentre il giovane
si mordeva il labbro inferiore: sentiva il suo volto andare in fiamme,
un nodo fastidioso all'altezza dello stomaco e la testa assolutamente
vuota. Non aveva idea di cosa fare né di come rispondere,
così quelle che uscirono dalla sua bocca furono le solite
frasi fatte che pronunciava in automatico, quando sentiva di non avere
più il controllo della situazione.
< Non è stata
colpa tua, non preoccuparti. Non avrei dovuto distrarmi.> Quelle
parole risuonavano vuote di senso anche alle sue orecchie. Ma Mufasa
scosse la testa, assolutamente non convinto: conosceva sufficientemente
bene il fratello da intuire abbastanza spesso quando stava mentendo o
meno. Un'abilità che avrebbe perso nel tempo.
< No, la colpa
è mia. Non avrei dovuto chiederti di combattere con me, so
quanto lo odi. Perdonami, davvero.> Il moro strinse le labbra in
una linea sottile, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal
fratello, che continuava a sfiorargli la mano ora con la bocca, ora
strusciandosi con la guancia.
La figura sbiadiva, si dissolveva
lentamente, i confini divenivano sfocati. Mufasa si spingeva su, verso
il volto del fratello, la mano libera si appigliava al ginocchio
dell’altro, alla coscia in cui Scar continuava a conficcare
le unghie. Le dita del più giovane, quelle contro cui prima
si strusciava la guancia dell’altro, si liberavano dalla
dolce presa, andavano ad afferrare i capelli castano-rossastri, mentre
Mufasa si sporgeva a sfiorargli la benda sull’occhio, ad
accarezzargli il viso. Le sue labbra, quelle labbra rosse si
scontravano contro la linea serrata del più giovane, che si
schiudeva lentamente.
Scar aprì gli occhi e
rimase immobile e teso, i muscoli contratti, il corpo gelido. Sentiva
il pulsare del cuore nelle orecchie, ma al di là di quello
c’era solo il gelo, il freddo terribile che lo attanagliava
nonostante le coperte del suo letto. Si alzò, nella mente
ancora le ultime immagini del sogno, e si avvicinò al
caminetto; la legna era poca – non come ai tempi di suo padre
o ai tempi d’oro del regno di suo fratello – ma
accese comunque il fuoco. Si sedette, sfinito, e si prese la testa fra
le mani.
Stava ammattendo, non
c’erano dubbi. Doveva smetterla di ricordare il passato,
doveva smetterla di farsi perseguitare dagl’incubi. Aveva
bisogno di sapere la verità, di essere certo che Mufasa e
tutta la sua stirpe fosse davvero scomparsa dalla faccia della terra.
Il suo uomo era partito alla ricerca del corpo di Simba da quasi un
mese. Per aver risposte non avrebbe dovuto attendere molto.
*
Stava arrivando il freddo e, stando
fuori all’aria aperta tutto il giorno, chiunque se ne sarebbe
accorto; Simba si strinse nei quattro stracci che indossava mentre
osservava con gola gli ortaggi e le carni sulle bancarelle del mercato.
Erano giunti in quel paesino la sera precedente e avevano trovato
riparo in un fienile, ma il problema del cibo, con l’avanzare
dell’autunno, si faceva sempre più pressante.
Quella mattina avevano deciso di dividersi, perché da soli
si dava meno nell’occhio che in tre e qualcosa di straforo si
poteva anche sgraffignare.
Stava giusto per avvicinarsi ad una
bancarella molto invitante, quando si accorse di essere osservato;
alzò lo sguardo e notò un vecchio che lo fissava
insistentemente, lo sguardo attonito e incredulo. Era un vecchietto
canuto, la figura secca e minuta, gli occhietti neri, il naso
arrossato: gli ricordava qualcuno, una vaga reminescenza del passato.
Fece un passo avanti, intenzionato
a parlare con quell’anziano omino, ma una mano
calò sulla sua spalla, afferrandolo bruscamente; prima che
il ragazzo potesse anche solo provare a divincolarsi, altre mani lo
presero, lo tennero fermo. Lo prese il panico, temendo che fossero
briganti, ma si trovò davanti uomini vestiti di nero, spade
alla cinta, lo stemma della casata reale appuntato sul petto.
Avrebbe voluto gridare, ma la voce
gli si strozzò in gola; un colpo secco e tutto divenne nero:
l’ultima cosa che vide fu il volto esterrefatto del vecchio.
*
L’avevano trovato,
l’avevano trovato! Scar non riusciva a darsi pace: vagava per
la stanza mordendosi il labbro inferiore e non riusciva a far altro che
ripetersi quelle semplici parole. Un messo era arrivato di prima
mattina e aveva voluto farsi ricevere solo ed unicamente dal re; la
notizia era attendibile, avevano preso il ragazzo, era quasi certo che
fosse proprio lui. Il riconoscimento finale sarebbe stato compito di
Scar in persona.
Ore dopo, a pomeriggio inoltrato,
erano tornati i cacciatori con la loro preda: aveva dato ordine che
entrassero in silenzio, senza fragori, il ragazzo col volto coperto e
imbavagliato, in modo che nessuno potesse riconoscerlo. Era
già stata preparata una stanza, più che altro una
cella, nel luogo più recondito e sicuro di tutto il palazzo,
lontano dagli occhi indiscreti della servitù.
Ora era lì, in suo
potere, ma Scar non trovava il coraggio di verificare di persona se
fosse davvero lui: la curiosità lo rodeva internamente, ma
era ancora restio a scender quelle scale e affrontare faccia a faccia
il giovane.
Lasciò che il tempo
passasse, che il cielo si facesse di un nero pece e che il castello si
lasciasse scivolare nel sonno, ad eccezione delle sentinelle che
restano vigili sui bastioni e pattugliavano i corridoi. Al collo aveva
appeso la chiave che apriva la porta della sua nuova
prigione. Considerò l'idea di gettarla via, in un fiume, o
sotterrarla, fare in modo che nessuno venisse a scoprire dell'esistenza
di quel ragazzo, che nessuno potesse salvarlo dal suo destino.
Ma la curiosità lo
bloccò. Voleva sapere - l'idea lo terrorizzava, ma doveva
sapere - che aspetto avesse, dopo così tanti anni,
suo nipote; si chiese se avesse il viso simile a quello di Mufasa, il
suo portamento, i suoi stessi occhi, quel colore così
particolare dei capelli, la sua stessa voce. Non poteva aspettare
ancora.
Si alzò dalla sedia,
consapevole del fatto che, se avesse provato a dormirci sopra, non
sarebbe riuscito a chiudere occhio. Uscì dalle sue stanze,
s'incamminò silenzioso per i corridoi vuoti, scese sempre
più in profondità, nelle viscere del castello, in
quella gabbia sotterranea. La porta di ferro massiccio gli si
stagliò davanti, imponente, impossibile da abbattere.
Sfiorò ancora la chiave che portava al collo e
appoggiò la fronte contro il freddo metallo.
Gli si presentò l'ultima
via di fuga e, per un istante, la tentazione di voltare le spalle a
quel luogo e tornare nel suo letto a baldacchino fu fortissima; ma
prima che potesse cedere, prima che la sua mente approvasse quella
ritirata, le sue mani già afferravano tremanti la chiave, la
portavano alla toppa, giravano impazientemente.
La stanza era buia, immersa in un
nero pece impenetrabile. Accese una delle torce che sapeva trovarsi
alla sua sinistra e man mano, passo dopo passo, facendo ben attenzione
a non fissare la figura che man mano emergeva dall'ombra, Scar
illuminò il più possibile la stanza. Quando ebbe
finito, la luce raggiungeva anche gli angoli più reconditi
di quella triste prigione.
Scar fece un respiro profondo, poi
un altro e si voltò. Suo fratello ricambiava il suo sguardo
con un'espressione indecifrabile in viso; il re rimase immobile, a
fissare quei tratti che conosceva così bene, che non
rivedeva da così tanto tempo. Mufasa lo osservava con la
stessa espressione che aveva mentre gli baciava la mano.
< Zio Scar?>
La realtà gli
ripiombò addosso: non erano gli occhi di suo fratello,
quelli. Erano dello stesso colore, della stessa forma, ma vi si poteva
scorgere paura, incertezza, sensazioni che suo fratello non aveva quasi
mai mostrato. Anche i capelli erano uguali, la fisionomia, gli zigomi,
i tratti generici, tutto ricordava Mufasa, ma quello che si trovava
davanti non era lui.
*
Simba non riusciva a capire. Era
sempre stato convinto che fosse stato suo zio a salvarlo, a
permettergli di fuggire, di non affrontare le sue
responsabilità. Eppure gli uomini che l'avevano catturato
erano al suo servizio, l'avevano costretto a tornare, l'avevano
riportato indietro, da dove era fuggito. E suo zio, tra l'altro, non
aveva detto nulla quando si erano trovati faccia a faccia: l'aveva
guardato in una maniera strana - non che suo zio fosse mai stato
"normale", ma era più strana del solito. L'aveva lasciato
lì, nel cuore della notte, una torcia ancora accesa, ma che
andava consumandosi lentamente, e quelle pesanti catene che gli
impedivano di muoversi liberamente.
Il ragazzo cercò di
farsi forza e appoggiò la testa contro il muro. Si chiese se
Nala e sua madre sapessero che lui era là, forse sarebbero
venute a trovarlo, forse non avrebbero voluto affatto vederlo, dopo
quello che aveva fatto. Chissà che ne era di Timon
e Pumbaa... e quel vecchio che lo fissava in maniera strana?
Forse lo aveva riconosciuto, per qualche impensabile motivo?
Si lasciò sfuggire un
gemito disperato, mentre la luce della torcia cominciava a declinare e
il buio si faceva sempre più fitto.
*
Quella notte aveva sognato Mufasa.
Ormai stava diventando un'abitudine, oltre che un vero e proprio
fantasma che lo inseguiva ovunque andasse; Scar era stufo. Stanco di
scappare da quei ricordi, stanco di vedere suo fratello dietro ogni
armatura del castello, in ogni angolo della stanza, in un'ombra
qualsiasi proiettata sul muro. Voleva che smettesse di tormentarlo, ma
al tempo stesso non voleva dimenticare quei ricordi che man mano
affioravano. Doveva esserci un modo per raggiungere un equilibrio.
Quando scese nuovamente le scale
che portavano alla prigione, il sole splendeva alto nel cielo. Ma nelle
viscere della terra la luce non si vedeva. La porta gli parve meno
imponente della sera prima, non lo proteggeva più
dall'essere che era rinchiuso nella stanza, lo separava e basta.
L'aprì con decisione, sicuro di quel che doveva fare.
Quando si trovò di
fronte a Simba, così vicino da poter sentire il calore del
suo corpo, si accorse di quelle sottili differenze tra lui e il padre:
il fisico meno imponente, le spalle più magre, l'arco
leggermente diverso delle sopracciglia. Tuttavia, quando si
chinò su di lui, una mano a sollevargli il mento, si chiese
se le sue labbra sarebbero state esattamente come quelle del precedente
re.
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