Buondì.
Scusate
le tante licenze che mi sono presa e le incongruenze, ma non è facile
parlare di questo periodo di cui non sappiamo pressoché nulla. A parte
il poco letto nel Kakashi Gaiden, dell’epoca
del team Minato non ci sono notizie e ho improvvisato.
Le
seguenti pagine vogliono essere un piccolo omaggio a quello che ritengo essere
il miglior personaggio di Kishimoto, il mio preferito
in assoluto – e di gran lunga.
Un
eroe. Anzi, Eroe.
A
Kakashi dello sharingan.
Buona
lettura
“Io mi chiamo Kakashi Hatake, i
miei gusti non sono affari che vi riguardino e non avrebbe alcun senso parlare
dei miei sogni, in quanto agli hobby ne ho diversi.”
Oltre gli occhi
Ritratto d’eroe
Rin
a volte pensava di odiarli tutti quanti, indistintamente. In quei momenti le
veniva voglia soltanto di urlare, sentiva ancora la mano quasi esanime di Obito
stretta nella sua e quella decisa e energica di Kakashi che la afferrava e la
strappava via, un secondo prima che la frana sommergesse anche lei. Un groppo
pesante le ostruiva la gola, allora, mentre la malinconia le scoppiava in testa
come una bolla e il senso d’ingiustizia le divorava lo stomaco.
Davvero,
in certi momenti li detestava tutti.
Detestava
i loro sguardi che si facevano vagamente sprezzanti quando il ragazzo voltava
loro le spalle e si allontanava, le smorfie superiori dei veterani e il loro
fastidio la cui vera causa, ne aveva concluso lei, non era altro che
l’invidia. Pura e semplice invidia nei confronti di quello shinobi che,
ancora ragazzino, superava tutti loro in abilità di una spanna. Potevano
pure dire che fosse inesperto, precipitoso e troppo esigente, ma la
verità era che Kakashi valeva semplicemente più degli altri. Lo
sapeva lei e lo sapeva Minato sensei. Tutti gli altri potevano anche
impiccarsi, per quanto la riguardava.
Non
che tutti quanti lo deprecassero. Maito Gai sembrava
aver deciso che fosse un portento e cercava a tutti i costi di dimostrarsi all’altezza
e Asuma-san continuava a sbalordirsi, ammirato da
ogni nuova tecnica. L’Hokage stesso non nascondeva il compiacimento per
la serietà con cui Kakashi portava sulle spalle la responsabilità
di quel potere fuori dal comune.
Ma
certe volte lei pensava di spaccare tutto. Sentiva la gente dire “bravo,
ottimo lavoro,” con espressione compiaciuta e poi, un attimo dopo,
mormorare perfidamente che “certo, è facile fare un buon lavoro
con quell’occhio”. “Chiunque può diventare un grande
shinobi, se gli piove dal cielo uno sharingan.” “Non era poi
così in gamba fino all’anno scorso, non è vero?”
E
giù risatine, cattive e odiose.
Loro
non ne sapevano assolutamente nulla. A sentirli sembrava quasi che Kakashi si
beasse nella fortuna straordinaria che gli era capitata, approfittandone per
mettersi in luce e far parlare di sé. Che fosse un borioso arrivato,
capace soltanto di vantarsi di abilità non sue e darsi arie da grande
guerriero quando quel che aveva fatto, in fin dei conti, era stato lasciar
morire il suo compagno di squadra e impossessarsi del suo potere. Non si davano
nemmeno la pena di guardarlo in faccia per scoprirlo più cupo,
più dolente e apatico di quanto fosse mai stato.
Quelle
che loro chiamavano arie, Rin lo sapeva, non erano
che manifestazioni della naturale riservatezza di lui. E quanto al mettersi in
mostra, Kakashi non faceva niente del genere. Il suo impegno quasi maniacale
nel portare scrupolosamente a termine le missioni con arditezza e sprezzo per
il rischio non era dovuto alla volontà di apparire, ma al senso del
dovere che da sempre lo contraddistingueva. Se mai Kakashi era cambiato, dal
giorno della battaglia sul ponte, non era certo perché fosse diventato
superbo. Soltanto più malinconico.
L’unico
vero cambiamento che lei vedeva era positivo. La morte di Obito era stata una
lezione che il compagno sopravvissuto, acuto e intelligente com’era,
aveva imparato a proprie spese. Non rimaneva certo indietro con i compagni in
difficoltà per mostrare che se la cavava meglio di loro, ma
perché piuttosto che rinunciare a una sola delle vite di chi gli era
accanto sarebbe morto nella maniera più orrenda. E questo,
nell’opinione di Rin, era tutto fuorché
deprecabile.
E
li odiava.
Odiava
anche lui, perché non reagiva. Se fosse stata lui li avrebbe rimessi a
posto una volta per tutte, facendoli tacere e possibilmente umiliandoli.
Kakashi invece faceva orecchie da mercante e fingeva di non accorgersi dello
scherno che gli cresceva intorno di pari passo con l’aumento della sua
forza. Stava per i fatti suoi, oppure con il sensei per allenarsi, qualche
volta con lei.
Un
pomeriggio decise di parlargliene. Non erano molto in confidenza, nonostante
fossero compagni di team, perché la venerazione a senso unico di Rin la portava a provare una strana forma di soggezione
verso l’amico, ma quel giorno i commenti sussurrati da un capannello di
giovani ANBU presuntuosi le avevano fatto davvero perdere le staffe. Si era
allontanata senza dire niente, stringendo soltanto i pugni con rabbia, e
proprio dopo qualche decina di metri percorsi nel corridoio, puntando
all’esterno del quartier generale, si imbatté nel ragazzo di
ritorno da una breve missione.
“Rin,” la salutò, compassato come sempre.
“Kakashi-kun,” rispose lei, cercando invano di celare
il fremito di rabbia della propria voce. Il giovane guerriero la guardò
con l’unico occhio scoperto tinto di vaga perplessità.
“Tutto
a posto?” chiese con distratta partecipazione.
Aveva
iniziato a essere premuroso con lei, Kakashi. Le sue maniere distaccate lo
celavano, in parte, ma dalla morte di Obito sembrava sempre che Kakashi si
preoccupasse che le potesse succedere qualcosa. Dopotutto, era per lei che
l’Uchiha si era lanciato in quella che s’era poi rivelata una
sortita suicida.
“Sì.
No,” biascicò irritata. “Non importa.”
Ci
fu un educato, perplesso istante di silenzio durante il quale lui non fece che
guardarla imperscrutabile, annuendo senza convinzione.
“Certo,”
commentò vago.
Rin
sospirò, scuotendo la testa.
“Facciamo
due passi?” propose titubante, sentendo crescere un po’
d’ansia. Non riusciva, davvero non riusciva ad essere naturale con lui.
Kakashi era…troppo.
Lui
annuì di nuovo, incamminandosi al suo fianco. Finché non furono
fuori non scambiarono una parola e anche per un breve pezzo di strada, nel
centro affollato del villaggio, continuarono semplicemente ad avanzare fianco a
fianco, in silenzio. Soltanto giungendo sulla via che costeggiava il lago Rin rallentò il passo, con un sbuffo. Lo
scrutò di sottecchi, scoprendolo intento a fissare davanti a sé
senza espressioni particolari.
“Sei
migliorato molto, quest’anno,” osservò, senza sapere da dove
iniziare.
Kakashi,
stranamente, non fece che annuire di
nuovo.
“Hai
imparato…molti jutsu negli ultimi mesi,”
osservò ancora lei, fermandosi a osservare l’acqua increspata da
riflessi di luce, senza più guardarlo.
Kakashi
si cacciò le mani in tasca, stringendosi nelle spalle.
“Non
è che sia molto difficile, con quest’occhio,”
commentò schernendosi.
Rin
fu sollevata che fosse stato lui a citare per primo lo sharingan. Era un
argomento che non sapeva mai toccare, così come le riusciva difficile
parlare di Obito stesso in generale. Ma ora che Kakashi aveva introdotto il
soggetto poteva osare.
“Sai,
c’è chi…tende a sminuirti per questo,” iniziò
incerta, fissando a terra.
Kakashi
tacque per un istante.
“Lo
so,” commentò atono. “Ma non ha importanza.”
Rin
serrò la mascella irata, si voltò con sguardo fiammeggiante.
“Come
puoi dire così? Dopo tutto l’impegno e gli sforzi che hai fatto,
dopo…”
“Rin,” la interruppe lui, grave. “A me non
importa, davvero. In fondo, che per me ora sia più facile è un
dato di fatto.”
Lei
si accigliò ulteriormente, il cuore gonfio di collera e dispiacere.
“Non
basta uno sharingan a fare di un mediocre un grande shinobi!”
protestò veemente. “Se tu non fossi stato già forte
non…”
“Ma
che differenza fa se la gente parla?” osservò lui, senza perdere
la flemma. “Non è questo che conta.”
Rin
ristette, spiazzata. Lo osservò per un istante in viso e Kakashi
accennò un sorriso bonario, il primo che gli vedeva fare da molto tempo.
“Se
ne parlano è perché effettivamente sta dando buoni frutti,”
continuò lui con serietà. “E’ questo che conta.
Obito…avrebbe fatto buon uso di quest’occhio, ne sono certo. E ora
ne farò buon uso io al suo posto.”
“Ma
la gente non ti riconosce…”
“Non
è per il riconoscimento, Rin,” fece lui,
più acceso. “Voglio essere il guerriero che lui sarebbe stato.
Quest’occhio…è un gesto di generosità per il bene
altrui. E io lo userò per il bene altrui, non c’è altro da
dire. Lo sharingan non appartiene a me, ma a Konoha.”
Rin
voltò la testa di scatto, per nascondergli le lacrime che le stavano
offuscando la vista. Chinò la testa mordendosi le labbra più
forte che poteva.
“Non
è giusto,” mormorò con voce rotta.
“Molte
cose non sono giuste,” rispose il ragazzo, grave. “Nemmeno la
guerra è giusta. Mi è stato dato uno strumento per il bene del
villaggio, Rin. Non voglio più essere
spazzatura, non m’importa più di essere stimato individualmente,
voglio solo difendere i miei.”
Rin
si accorse delle lacrime che ormai libere le rigavano le guance soltanto quando
percepì il suono soffocato dei suoi stessi singhiozzi. Nascose il viso
tra le mani, vergognandosi di quella debolezza. Kakashi era sempre stato molto
severo su quel punto, le emozioni non erano cosa da shinobi.
Invece,
inaspettatamente, sentì la mano del ragazzo posarsi sulla sua spalla con
insolita delicatezza, confortante.
“Dai,
Rin,” la riscosse lui, bonario. “Non devi
prendertela. Si accorgeranno che non sono un esaltato, basta dar loro tempo.
Per il resto, adesso posso essere davvero utile ed è l’unica cosa
che m’interessi.”
La
pena le traboccò dentro e non poté più trattenersi. Gli
gettò le braccia al collo, piangendo disperatamente. Per Obito, per lui
e per tutto quanto.
Kakashi
la lasciò fare pazientemente, dandole qualche leggera pacca che rivelava
il suo profondo imbarazzo. E Rin si rese conto che su
una cosa avevano ragione, i pettegoli: Kakashi Hatake era davvero molto
cambiato dal giorno della battaglia sul ponte Kannabi.
Era diventato un adulto.
Somigliava
a Minato sensei, adesso.
“Mi raccomando, cercate di
mantenere un basso profilo. Non dobbiamo scatenare una battaglia, ma verificare
quali sono i loro mezzi.”
La
frase di Minato sensei rimbombava nella mente di Kakashi come una minacciosa
condanna. Nella polvere accecante sollevata dalle esplosioni gli sembrava di
scorgere il suo silenzioso rimprovero, mentre lo scontro violentissimo
imperversava a pochi metri da lui. Il suo Goukakyuu
spazzò via un avversario mentre si guardava intorno con entrambi gli
occhi spalancati, pronto a scattar via per evitare gli attacchi.
Masao
sama era caduto da qualche parte, Tenzou stava
lottando a pochi metri di distanza da lui, sembrava cavarsela bene. Doveva
essere ferito, ma non in modo grave, mentre Junichi-kun
pareva molto più in difficoltà. Esitò per un paio di
secondi, con l’altro ANBU che si difendeva alla meglio da un duplice
attacco. Avrebbe potuto usare il chidori, ma non
avrebbe potuto utilizzarlo una seconda volta, e Rin…Rin non era lì.
Non
avrebbero dovuto dividersi. Sarebbe stato meglio se la squadra di supporto
fosse rimasta a distanza d’orecchio. Aveva provato a farlo notare ma Masao sama gli aveva risposto che non spettava a lui
decidere e che non bastava saper fare qualche jutsu
più degli altri per diventare un leader. Aveva stretto le labbra,
ingoiando il risentimento e la collera, e si era attenuto agli ordini come di
consueto.
“Sta’
attenta,” aveva mormorato preparandosi a separarsi dagli altri.
Rin
aveva annuito, decisa.
“Anche
tu, Kakashi-kun.”
E
ora c’era quella dannata battaglia e non riusciva a capire dove si
trovassero gli altri. C’era Gai, con Rin, o
almeno lo sperava. Anche Norihide sapeva il fatto suo
e si augurava che nessuno di loro l’avesse lasciata sola.
“Kawarimi!” mormorò nell’istante in cui
uno shuriken lo colpiva al fianco, sparendo in una
nube leggera mentre un ramo cadeva in terra al suo posto. Un istante dopo,
l’incauto nemico che lo aveva attaccato finiva sotto i suoi colpi.
Doveva
aiutare Junichi, il ragazzo quasi non si reggeva
più in piedi.
Nel
giro di pochi secondi uno degli aggressori si trovava affondato nella terra
fino al collo per il suo Dotono, lasciando
così al compagno la possibilità di finirlo. L’altro cadde
sotto il suo Turbine di Sabbia, appena copiato dai nemici stessi. L’ultima
cosa che quell’uomo fece fu sgranare gli occhi e osservare il ragazzo con
terrificato stupore. Evidentemente non si aspettava di trovarsi davanti uno
sharingan.
“Tutto
bene?” chiese ansimando, mentre Junichi
traballava e poi annuiva.
“Andiamo,”
intimò quindi Kakashi con urgenza. “Tenzou!
A cercare il secondo team!”
“Sì,
senpai!” rispose quello, fermo.
Ma
non era semplice muoversi. Quel commando era troppo numeroso, semplicemente
troppo. Doveva usare una delle tecniche di Minato sensei, anche se questo avrebbe
significato consumare un’ingente quantità del chakra che gli
rimaneva. Non sarebbero riusciti ad avanzare, se non avesse fatto qualcosa di
decisivo.
A
meno che non fosse riuscito a chiamare Pakkun. Non
era facile, in quel momento, ma i cani avrebbero ritrovato Rin
sicuramente più in fretta di lui.
“Tenzou!”
L’altro
ANBU non poteva sapere cosa avesse in mente, ma intuì la sua
necessità e gli si parò davanti, coprendolo e iniziando ad
attivare la sua abilità del legno. Kakashi si concentrò per
qualche secondo e poi, piantata la mano in terra, si vide circondato da tre dei
suoi compari a quattro zampe.
“Uee-eehi…” esclamò Pakkun
appiattendosi a suolo. “Che brutta situazione!” aggiunse, notando
l’infuriare della lotta.
“Dovete
trovare Rin!” ordinò lui senza badargli
troppo. “La ragazza che sta con me, ricordi?” aggiunse sbrigativo.
“La
tua ragazza? Amici, ha una ragazza e non ce lo dice!”
“Muoviti,
Pakkun,” sbottò lui, grave, con un
sospiro. “Tornate a darmi indicazioni e attenti.”
La
bestiola sembrò prenderlo sul serio e si preparò a scattare,
imitata dai due compagni.
“E
non ha nemmeno negato…” commentò distrattamente, prima di
trottare via.
“Bunshin no jutsu!”
Doveva
prendere tempo. Tenzou sembrava della sua stessa
idea, a giudicare dall’intricata prigione di legno che stava tirando su
come se niente fosse.
Non
avrebbe ricordato molto bene come si fossero svolti i fatti, in seguito. Ci fu
un momento in cui lui e Tenzou tennero a bada tutti
quelli che potevano, poi Junichi che cadeva, un altro
Katon per difenderlo, il ritorno di Pakkun. Il cagnetto che lo guidava via, approfittando della
distrazione guadagnata coi cloni e della copertura dell’incrollabile Tenzou, mentre i due quattro zampe più corpulenti si
adoperavano per trascinare via il ferito.
Poi
una voce nota che sbraitava “Ura renge!” con tono da invasato.
Gai.
Almeno
lui era vivo.
E
in forma, a giudicare da quella tecnica. Peccato non averla vista dal
principio, perché quando lo raggiunsero era già in piena
effettuazione.
“Dov’è
Rin?” urlò, affiancando il collega.
“Kakashi!”
esclamò lui, apparentemente entusiasta. “A quanti sei?”
Attese solo un secondo, notando la sua perplessità. “Quanti ne hai
stesi?” si spiegò, calciando via un tizio con tanta forza che
probabilmente nemmeno un suo singolo osso era ancora intatto.
“Ma
chi…Dov’è Rin?”
sbraitò il ragazzo, allibito, schivando un’ondata di sabbia che
Gai spezzò con un colpo di
braccio.
“Di
qua, ragazzo,” osservò Pakkun, puntando
dietro le loro spalle.
Norihide sembrava nei guai, Rin gli stava contro la
schiena, si proteggevano a vicenda.
“Katon!” iniziò Kakashi.
Il
kunai lo centrò in piena schiena senza che se
ne accorgesse, preso dall’ansia per la compagna di squadra. Sentì
la fiammata del dolore tra le scapole e il gusto ferrigno del sangue sulla lingua,
prima di sputare un grumo rossastro. Le ginocchia gli traballarono, ma si
portò la mano alla schiena e tirò via la lama, stringendo i
denti. Gli si stava appannando la vista.
“Quello
è un pezzo grosso!” commentò Gai, puntando il guerriero che
attaccava i due ragazzi feriti. “Giovani, addosso!” aggiunse
agguerrito, scagliandosi in quella direzione.
Kakashi
vedeva soltanto Rin. Era l’unica cosa che
occupasse il campo visivo. Aveva la fronte e le guance sporche di sangue, un
braccio inerte abbandonato lungo il fianco esile. L’uomo della sabbia
lanciò via Gai come se fosse stato un moscerino e Kakashi si rese conto
che quello era un avversario troppo forte. Il suo mare di sabbia che
stritolò Norihide un attimo dopo gliene diede
conferma.
Gai
si lanciò di nuovo contro l’avversario, interponendosi tra lui e Rin. Era quello di cui Kakashi aveva bisogno e si
affrettò a preparare il Mille Falchi. Non doveva sbagliare, non avrebbe
avuto una seconda occasione.
Pakkun
se l’era svignata. Pusillanime cagnaccio.
“Chidori!”
Centrò
in pieno il nemico mentre la sua sabbia si raggrumava intorno a Gai.
Tranciò il suo torace in due, sotto lo sguardo estatico e allibito del
campione di taijutsu.
Le
gambe gli cedettero definitivamente, facendolo crollare sulle ginocchia senza
fiato.
“R-rin…”
L’apprendista
medico stava già incespicando verso di lui, per occuparsi della ferita.
Quando Kakashi vide l’uomo alle sue spalle tutto quel che poté
fare fu sgranare gli occhi.
Sapeva
chi era, lo sapevano tutti. Quell’uomo aveva fatto a pezzi i compagni di
squadra di suo padre otto anni prima, aveva imperversato da un campo di
battaglia all’altro seminando il panico a Konoha. L’unico shinobi
con cui aveva accuratamente evitato di scontrarsi era il Lampo Giallo, il
sensei Minato.
Asase
no Temabo. Il guerriero della duna.
“Gai!”
Il
ragazzo in verde si lanciò in avanti con la consueta sicurezza, come se
si fosse trattato di un tizio qualunque. Non servì – prevedibile –
a rallentarlo ma anzi, Gai fu colpito da un tale jutsu
che Kakashi disperò di vederlo mai rialzarsi.
Non
aveva quasi più chakra, ma doveva provarci lo stesso. I tentativi finora
avevano dato risultati così scarsi da sfiorare il ridicolo, però
non c’era scelta. Concentrò quel che rimaneva del chakra nella sua
mano, mettendolo in rapido movimento. Non seppe nemmeno come gli riuscì
di alzarsi in piedi davanti al muro di sabbia e lame che stava cadendo su Rin, né come riuscì a proseguire quando la
prima di esse lo colpì. Doveva mirare a un punto vitale, seppe mentre
schivava un altro kunai sabbioso e sfruttava la
velocità copiata da Gai. Era l’unico modo. il colpo non sarebbe stato
abbastanza forte, altrimenti.
Sentì
Rin gridare di dolore. La vista gli si stava
già oscurando quando urlò con ogni forza, spingendo il braccio in
avanti.
“Rasengan!”
E
poi fu tutto nero.
“Kakashi!
Senpai, mi senti?”
Era
la voce di Tenzou, ne era abbastanza certo, anche se
sembrava provenire da un punto troppo lontano per udirla nitidamente. Poi un
filo di luce sfiorò le sue pupille, quindi si rese conto di stare
cercando di aprire gli occhi. Mosse le labbra per parlare – o meglio ci
provò, erano secche e troppo pesanti. Al secondo tentativo andò
molto meglio.
“Sì,”
sfiatò roco.
“Hai
steso Asase no Temabo. Come
ci sei riuscito?” stava dicendo Tenzou, che
iniziò a intravedere nella nebbia dei suoi occhi. La testa gli faceva un
male cane, aveva usato lo sharingan per ore. Tenzou aveva
una strana voce. Più che sollevato sembrava desolato, cauto.
“E’…morto?”
esalò lui, stremato.
“Gli
hai bucato la testa,” confermò Tenzou
spiccio.
Un
buco in testa, tutto lì. Come rasengan faceva veramente schifo,
ma era servito all’occorrenza. Se Minato sensei fosse stato presente
forse avrebbe vomitato per la pena, comunque.
Non
riusciva a respirare. Era l’ansia, forse paura. Cercò di parlare
ma le labbra lo tradirono di nuovo. Strizzò gli occhi, radunando le
energie.
“Rin?”
Una
mano si poggiò sulla sua spalla.
“Sei
stato fichissimo, Kakashi.” Questo era Gai, mezzo tramortito e con tono
un po’ gracchiante e troppo serio. “Veramente giovane. Ma il suo era
un colpo troppo forte. Mi…mi dispiace.”
Chiuse
di nuovo gli occhi, pensando che non li avrebbe riaperti per nessuna ragione. Voleva
soltanto piangere, soltanto questo. Aveva fallito di nuovo, aveva di nuovo
lasciato cadere qualcuno che amava. Se Obito lo avesse visto, se fosse stato
lì, sarebbe stato così deluso da lui che per la disperazione un
singhiozzo gli sfuggì comunque, insopprimibile.
“Le
ho tenuto la mano,” continuò Tenzou, di
cui continuava a non distinguere i lineamenti. “Mi ha detto…mi ha
detto che crede in te e che voleva sapessi che non sono gli occhi a fare un
eroe, e che tu l’hai dimostrato.”
Singhiozzò
ancora. Stupida Rin, lui non era un eroe. Era un
perdente.
“Quello
ci avrebbe uccisi tutti se non ci fossi stato tu,” continuò Tenzou, nemmeno gli avesse letto nel pensiero. “Junichi se la caverà, e anche noi due. E tu,
ovviamente. Adesso ti riportiamo a casa.”
“Sicuro!”
fece Gai incoraggiante. “Non vi preoccupate, siete nelle mani del grande Maito Gai! Chiunque si avvicina, lo faccio a fettine!”
“Lei…lei…”
“La
portiamo con noi,” lo rassicurò Tenzou
gentilmente. “Gai-kun l’ha presa in
spalle. Adesso i tuoi cani prenderanno te. A Junichi
ci penso io.”
Kakashi
gli fu in qualche modo riconoscente per la sua presenza rassicurante. In qualche
modo, perché per il resto il dolore per la nuova perdita lo stava
soffocando e quello fisico lo ottundeva completamente.
“Pakkun?” mormorò inebetito.
“Yo,” fece il cane, accanto al suo orecchio. La sua
linguetta ruvida gli solleticò la guancia, con un inusuale slancio per
nulla tipico del suo amico cane poco canino. Kakashi allungò la mano e Pakkun era morbido, aveva il pelo caldo. Piegò la
testa nascondendo gli occhi contro il fianco ansante e tiepido dell’animale
e scoppiò in lacrime. Ogni singhiozzo sembrava una nuova lama che si
conficcava nella ferita alla schiena, ma non aveva importanza.
“Moccioso
frignone,” borbottò Pakkun burbero. Gli tremava
la voce.
Poi
si lasciò portare via. Nel giro di pochi minuti era così stremato
da sfiorare la mancanza di conoscenza, quindi si addormentò completamente.
“Buongiorno,
Kakashi.”
Minato.
“Sensei…”
mormorò, socchiudendo le palpebre con incertezza.
E
per poco non perse i sensi di nuovo.
Cosa
ci faceva Minato sensei con quel pastrano bianco da…Hokage?
Il
maestro sembrò percepire il suo sbigottimento, perché sorrise
sornione.
“Hai
dormito per tre giorni. Nel frattempo c’è stata una piccola
novità,” annunciò grattandosi la testa, impacciato.
“Yon…daime?”
mormorò Kakashi incerto.
Minato
annuì spiccio.
“Già.”
Per
qualche secondo sembrò non poter parlare nessuno dei due. Kakashi si
sentì investire dalla meraviglia, l’incredulità e l’esaltazione,
poi il sorriso di Rin gli bucò la mente e
richiuse gli occhi, abbandonando la testa sul cucino con uno spasmo disperato.
“Lei…”
“Lo
so,” lo interruppe Minato, grave e amaro. “Tenzou-kun
mi ha raccontato tutto. Sembra inoltre che qualcuno abbia ucciso l’uomo
delle dune con un jutsu molto particolare…”
continuò vago.
“Faceva
pietà,” mormorò Kakashi assente.
“Non
direi. Ha funzionato, dopotutto,” lo contraddisse il maestro
incoraggiante.
“Non
abbastanza.”
“Non
è colpa tua,” sospirò l’adulto, incupendosi. “Avrei
dovuto venire con voi. È la seconda volta che commetto questo errore, ma
purtroppo non potevo lasciare Konoha, anche se ci ho provato.”
“L’ho
lasciata morire,” sussurrò Kakashi con voce rotta.
“Hai
salvato altre tre persone. Sei un umano, non pretendere da te stesso l’impossibile,”
osservò Minato, grave. “Ti stanno aspettando tutti per festeggiare.”
“Festeggiare
che cosa?” rispose seccamente lui, riaprendo gli occhi.
“Festeggiare
il numero uno di Konoha. Beh, il numero due, se contiamo me,” rispose
Minato, tra lo scherzoso e il desolato. “Tenzou
ha raccontato a tutti del tuo Turbine di Sabbia. Sai, adesso quando dicono ninja copia abbassano la voce, con
rispetto. Era quello che voleva anche Rin…”
Kakashi
poté soltanto annuire.
“Se
ce la fai a sederti, ti porto fuori. C’è qualcuno che ti vorrebbe
dire qualcosa,” continuò il sensei, misterioso. Il ragazzo fece un
tentativo, scoprendosi meno debole di quanto avrebbe creduto. La schiena resse
il peso e lui fece cenno di aiutarlo. Minato gli tese una mano e, con
attenzione, lo issò sulla sedia sistemata accanto al suo letto. Kakashi trattenne
un gemito di dolore mentre le spalle poggiavano contro lo schienale, poi si
lasciò spingere verso il balcone.
Era
una stanza al primo piano, si accorse quando poté spingere lo sguardo al
di là del parapetto. E di sotto c’era un sacco di gente. Quasi tutti
gli ANBU, altri shinobi, cittadini comuni. C’era la madre di Rin, con un sorriso bagnato di lacrime e una mano alzata
appena in saluto. Kakashi si guardò intorno spaesato, e trattenne il
fiato quando il suono dell’applauso raggiunse le sue orecchie, prima
attutito e poi scrosciante.
“Non
puoi essere infallibile, Kakashi. Ma puoi essere un pilastro per questo
villaggio. Io credo in te,” mormorò Minato quasi solenne, chinando
la testa vicino alla sua.
Lui
annuì di nuovo, nell’applauso e le esclamazioni d’ammirazione.
Minato sama credeva in lui, come Rin. Forse non
serviva a nulla, ma sarebbe bastato.
Sarò un eroe davvero, Rin, te lo prometto. Gli occhi non c’entrano niente.