Nota dell’autrice: Questo
racconto è ispirato a fatti e personaggi storici. La
ricostruzione degli eventi e della cronologia, così come la
caratterizzazione dei personaggi, è basata sulle relative
fonti storiche accreditate. Nel delineare la figura di Alessandro il
Grande di Macedonia e dei suoi contemporanei, mi sono rifatta ad
Arriano, Plutarco e Curzio Rufo. Nel delineare il personaggio di
Efestione, ho tenuto conto di alcune teorie che gli attribuirebbero
probabili origini ateniesi, anziché macedoni. La
ricostruzione della sua vita precedentemente all’incontro con
Alessandro è tuttavia di mia invenzione, dato che Efestione
appare nelle fonti solo successivamente.
Il
tocco
del fuoco
Capitolo
1.
L’estate
era finalmente arrivata a Mieza, in un glorioso tripudio di colori e
odori.
L’aria,
ancora fresca per il tardo inizio di stagione, era andata saturandosi
di una
vibrante energia segreta, trasformando il cielo in una colata
d’argento liquido
sopra la scura macchia dei boschi. Nascosti tra i fili
d’erba, i narcisi
selvatici aprivano i pallidi petali bianchi e spandevano un profumo
leggero,
mentre nei prati il grano cresceva alto, le spighe un’onda
dorata increspata
dal vento.
Aristotele
camminava lungo il corridoio in penombra, respirando le fragranze
speziate del
mirto e degli olivi nei primi aliti d’estate. Sembrava
assorto in una sua
nascosta voluttà, concentrato sul sapore di quegli aromi
così familiari eppure
capaci d’inebriarlo come li sentisse per la prima volta.
Raggiunse
una finestra inondata dal caldo sole pomeridiano e lasciò
che il piacevole
tepore gli riscaldasse il corpo intorpidito dalle fredde mura della
biblioteca.
Poi, si stiracchiò pigramente.
Non
avrebbe mancato di rispetto a se stesso definendosi vecchio, ma aveva
notato
come, negli ultimi tempi, le sue ossa ci mettessero
un’eternità a rinvigorirsi
dopo un periodo di riposo. Le stanze della vecchia palazzina di caccia
che
ospitava gli studenti della sua scuola erano perennemente gelide.
Guardò
in basso, verso il giardino invaso dai cespugli, e non si
stupì di trovarlo
deserto.
Aveva
concesso ai suoi studenti un pomeriggio di libertà; li aveva
incaricati di
cercare le piante e gli arbusti illustrati loro quella stessa mattina a
lezione, ma sapeva bene dove avrebbe potuto trovare gran parte di quei
ragazzi,
se solo li avesse cercati.
Un
sorriso obliquo gli incurvò le labbra. Dovevano essere in
giro per i boschi a
dare la caccia a qualche volpe, o più probabilmente al
laghetto delle ninfee a
fare il bagno e a rinfrescarsi dell’improvvisa calura estiva.
Tutti,
eccetto un paio.
Scrutò
il prato sottostante, ed ecco infatti poco più in
là, sotto l’ombra di un
vecchio faggio, le due figure sedute e intente a leggere un libro che
uno dei
ragazzi teneva aperto sulle ginocchia.
Alessandro,
principe ereditario di Macedonia, teneva la testa dorata leggermente
reclinata
sul lato e gesticolava infervorato in una qualche discussione, mentre
il
ragazzo seduto accanto a lui lo ascoltava assorto, annuendo appena.
Aristotele
conosceva il libro, avendolo egli stesso donato al principe il giorno
in cui si
erano incontrati a Pella. Non avrebbe tuttavia mai pensato che potesse
esercitare un fascino così potente su un ragazzo tanto
giovane sebbene, in
verità, non fosse la prima volta che Alessandro aveva saputo
coglierlo di
sorpresa.
Aveva
portato da Atene una pregevole edizione dello scritto di Senofonte, la
storia
di Ciro, Grande Re di Persia che più di duecento anni prima
aveva sottomesso le
popolazioni di medi e persiani quand’erano ancora poco
più che barbare tribù in
lotta tra loro. Era avanzato inarrestabile attraverso quelle terre e
aveva dato i natali
all’immenso impero che si
estendeva a est dell’Ellesponto, fino ai confini del mondo.
I
greci conoscevano bene quell’impero.
Gli
Dei sapevano quante e quali offese erano state arrecate ai figli
dell’Ellade da
quei barbari empii e potenti, il nome di Serse maledetto dai figli dei
figli, e
solo gli Dei
potevano
sapere quando sarebbe venuto il giorno della giusta vendetta.
Ma
adesso, rifletté Aristotele, la Grecia aveva altro a cui
pensare.
Scrutò
la figuretta del principe, così intento nella sua
discussione che sembrava
crepitare di una vitalità nascosta, e si stupì
ancora una volta di notare
quanto assomigliasse a suo padre.
Non
nell’aspetto fisico – o comunque non
così tanto da balzare all’occhio – ma
nei
piccoli particolari a prima vista insignificanti, come la forza
improvvisa con
cui serrava la mascella, la scintilla che gli si accendeva negli occhi
grigi
quando si accalorava in un’argomentazione e, più
di tutto, l’energia
incontenibile che sembrava emanare ogni fibra del suo corpo.
Aveva
incontrato Filippo solo alcuni mesi prima, ma non c’era
nessuno in Grecia che
non sapesse chi era.
Aristotele
strinse gli occhi mentre un reticolo di rughe appariva ai lati del suo
viso.
I
vecchi, molli demagoghi ateniesi avevano definito Filippo un barbaro,
il Re di
una sperduta provincia che, al momento della sua ascesa al trono dopo
l’ennesima, sanguinosa lotta di successione, sembrava ancora
immersa nell’età arcaica.
L’avevano schernito nel suo desiderio e nei suoi tentativi di
darsi una
parvenza di quella grecità
di cui
tanto andavano fieri e che lui, invece, non aveva potuto avere per
diritto di
nascita.
L’avevano
chiamato barbaro, buffone, vergogna dell’Ellade.
Ma
adesso quel barbaro, quel buffone, li teneva tutti nel suo pugno di
ferro.
I
suoi rozzi soldati e i suoi generali – il suo esercito di
uomini che parlavano
l’orribile dialetto dorico che non poteva neanche essere
definito greco – erano
avanzati inarrestabili e avevano stritolato la Grecia
nell’inerte flaccidità in
cui era ormai versata in una via senza ritorno.
A
nulla erano serviti tutti i discorsi e gli intrighi di quegli inetti
politicanti che affollavano Atene e il pollaio che era ormai diventata
l’agorà.
A niente erano servite le farneticanti invettive di quel pavone di
Demostene –
che un rozzo macedone non aveva il diritto,
non poteva ergersi a supremo
comandante e guida della sacra Ellade. Filippo li aveva lasciati
parlare.
E
poi aveva agito, fulmineo come un rapace.
Aristotele
sorrise, mentre un’espressione crudele gli si dipingeva in
viso.
La
sua storia d’amore con Atene era finita da un pezzo; da
quando, dopo la morte
di Platone, gli era stata preferita quella vecchia gallina grassa di
Speusippo
alla guida dell’Accademia, alla quale tanti anni della sua
vita aveva dedicato.
Era
stato un affronto intollerabile ma aveva imparato a conviverci. Non si
era
stupito quando il Re era venuto a cercarlo.
Aristotele
ricordava bene Filippo.
Era
ben conosciuto per l’incontinenza dei suoi costumi, il suo
amore esagerato per
il vino (ma quale macedone non eccedeva nei piaceri di Dioniso?), la
facilità
dei suoi accessi d’ira e il libertinaggio a cui spesso e
volentieri si lasciava
andare; tuttavia, rifletté Aristotele, l’uomo non
era privo di una sua
attrattiva.
Aveva
tentato di ripulirsi del puzzo di barbarismo, aveva convocato a Pella
artisti,
letterati, tutte le figure più in vista di Grecia e aveva
fatto istruire i
figli dei suoi nobili e dei suoi generali dai più stimati
maestri ateniesi. Il
palazzo reale di Archelao, a Pella, non aveva nulla da invidiare alle
più belle
architetture di cui la Grecia stessa era così orgogliosa.
Aveva
persino tentato di imparare a parlare il greco con il dolce accento
ionico
dell’Attica e invero – Aristotele doveva
riconoscerglielo – i risultati erano
stati notevoli.
Era
come se Filippo volesse dimostrare a tutti i costi di essere un degno
sposo per
l’amante che aveva voluto prendere con la violenza.
L’amante
l’aveva ripudiato, rifiutato, si era fatta beffe di lui.
Filippo
l’amava ancora ma non aveva più nulla da
dimostrare e lo sapeva. La sposa era
ormai sua, per diritto di forza.
Il
Re era stato richiamato a nord, da una violenta rivolta di alcune
tribù della
Tracia, e aveva dovuto accantonare i suoi feroci dissidi con Atene, ma
presto
sarebbe ritornato.
Aristotele
era conscio che la battaglia decisiva per la supremazia era ormai
prossima e
sapeva bene su quale lato si sarebbe fatto trovare, quando fosse venuto
il
momento.
Osservò
di nuovo il principe: la sua testa e quella del ragazzo accanto a lui
erano
reclinate l’una verso l’altra e si toccavano,
mentre procedevano nella lettura.
La luce pomeridiana faceva risplendere i loro capelli di riflessi
bronzei.
Erano immobili come due statue auree abbandonate nell’erba.
Aristotele
era figlio del medico che aveva avuto in cura Aminta, padre di Filippo,
e Filippo
stesso fin dalla tenera età. Conosceva bene la Macedonia,
tuttavia sapeva che
non era stato quello il solo motivo per cui il Re era venuto a cercarlo
fino a
Mitilene, dove si era ritirato per dedicarsi ai suoi studi e alle sue
ricerche
naturalistiche.
Filippo
voleva che suo figlio venisse educato come un elleno. Voleva che fosse
un
discendente perfetto per quella Grecia che non poteva, non voleva
accettarlo, e
che probabilmente non l’avrebbe mai fatto – per
quanti sforzi o doni egli le
avesse portato, o per quanto sangue avesse versato.
Alessandro
sarebbe stato diverso, avrebbe avuto tutto quello che lui non aveva
potuto
avere.
Di
nuovo il sorriso crudele gli accese gli occhi.
Non
si era venduto per poco, era ben consapevole del suo valore.
Stagira,
la sua città natale, piccola perla della Calcide, era stata
distrutta dallo
stesso Filippo proprio alcuni anni prima, molti dei suoi abitanti
venduti come
schiavi.
Stagira
era stata il suo prezzo. Filippo l’avrebbe ricostruita, non
avrebbe accettato
nulla di meno e il Re non aveva battuto ciglio.
Naturalmente
non si era trattato solo di Stagira.
Gli
occhi gli balenarono; la tentazione di avere una parte così
grande in tutto
questo, e in ciò che sarebbe venuto, era stata allettante
come un tempo
solevano esserlo le sfide logiche nelle quali si imbarcava con i suoi
colleghi
dell’Accademia.
Gli
era stato chiesto di educare un ragazzo.
Avrebbe
formato un re.
Un
sovrano che un giorno avrebbe governato tutta la Grecia riunita
– un re elleno,
per una nuova Ellade.
A
poco sarebbero valsi gli sforzi dei pusillanimi politicanti ateniesi;
la Grecia
era ormai caduta nella morsa di Filippo, non occorreva sforzarsi troppo
per
vederlo, e un giorno Alessandro l’avrebbe reclamata, anche se
adesso era poco
più di un bambino.
Aristotele
si definiva un uomo pragmatico.
Atene
l’aveva umiliato, gli aveva preferito un altro, e lui vi
sarebbe tornato,
avrebbe mostrato loro che era stato capace di condurre con
sé qualcuno in grado
di guidare la loro amata ormai allo sbando. Sapeva bene di essere
all’altezza
del compito.
Sarebbe
stata una dolce vendetta. Oh,sì.
Filippo
non aveva badato a spese. Aveva convenuto, sotto suo consiglio, che
sarebbe
stato meglio educare Alessandro lontano dal clima teso di Pella, dagli
intrighi
e i maneggi di una corte che, sebbene fosse reticente ad ammetterlo,
rimaneva
ancora rozza e incolta come le terre montuose a nord della capitale.
Filippo
aveva fatto rimettere a nuovo una grande palazzina campestre in una
valle
incantevole a circa mezza giornata di cavallo da Pella.
L’aveva fatta dipingere
dai più dotati affrescatori, vi aveva fatto arrivare servi,
mobilia e
suppellettili e ne aveva rifornito la biblioteca.
E
così Aristotele si era trasferito a Mieza con il giovane
principe e i figli dei
nobili più in vista di Macedonia, ragazzi che un giorno
sarebbero stati i
compagni d’arme e il seguito di Alessandro.
Il
luogo, considerato sacro alle ninfe, si era rivelato una fonte
inestimabile per
i suoi studi, Aristotele ne era estasiato. I boschi e la campagna
circostante
pullulavano di vita, ed egli stava cercando di catalogare e raccogliere
campioni del più alto numero possibile di specie animali e
vegetali. Il suo
soggiorno a Mieza avrebbe portato benefici inquantificabili ai suoi
studi
botanici e zoologici.
Proprio
il giorno prima, passeggiando nei giardini di Mida, (e quale nome
più
appropriato per il paradiso nel quale si trovava?) aveva scorto una
specie di
roditore che ancora non conosceva.
Avrebbe
mandato qualcuno dei suoi ragazzi a catturarne uno per lui, stava
diventando
troppo vecchio per rischiare di rompersi qualche osso strisciando tra i
cespugli come soleva fare un tempo.
Il
pensiero lo fece sorridere ma sentì una stretta al petto.
Il
tempo era passato, eppure la vita continuava a essere bella e piena di
allettanti misteri per lui. Una sola esistenza non gli sarebbe mai
bastata, ma
gli Dei hanno strani modi per prendersi gioco degli uomini.
Abbassò
di nuovo gli occhi. Alessandro sembrava ancora perso nel suo Senofonte.
A
poco sarebbe valso dirgli che molto probabilmente il grande Ciro aveva
avuto
poco o nulla a che fare con l’illuminato monarca descritto
nel libro; Senofonte
aveva tracciato il ritratto del re ideale e gli aveva dato il nome di
Ciro.
Alessandro
non gli avrebbe creduto ma a che scopo dirglielo? Il ragazzo sapeva
essere
testardo nelle sue argomentazioni.
Aveva
scelto il libro per il suo fine didattico, questo sarebbe dovuto
bastare;
tuttavia si era stupito della passione che Alessandro aveva messo nel
leggerlo
e delle domande, invero sagaci e affatto scontate, che gli aveva posto
e che
continuava a porgli.
Sembrava
non essere mai pago di discutere del singolare modo in cui Ciro aveva
scelto di
governare l’immenso impero che aveva creato, e spesso le
discussioni avevano
degenerato, suo malgrado.
Aristotele
sapeva della passione di Alessandro per Omero e, del resto, la sua
epica eroica
e imbevuta di hubris era popolare
tra
i ragazzi di quell’età.
Più
degno di nota era stato il suo innamoramento di Ciro.
Era
indubbiamente positivo che un futuro monarca si interessasse del modo
di gestire
un regno, ma c’erano volte in cui Aristotele si trovava a
corto di parole.
Alessandro
sembrava più interessato a conoscere l’esatto
numero dei soldati che Ciro aveva
avuto nella sua armata, o la rete stradale che collegava le varie
capitali
dell’impero – e che, a detta sua, doveva essere immensa – che non
l’intima meccanica dell’arte di governare.
A
volte il ragazzo sapeva essere impossibile.
Era
stato, in verità, bene educato. Il suo primo tutore era
stato un certo Leonida,
un parente della madre, ferreo sostenitore dei durissimi metodi
educativi di
derivazione spartana.
Fin
dalla più tenera età era stato addestrato alla
privazione e al controllo delle
sue più elementari necessità. Aristotele aveva
sentito alcune storie a riguardo
che avrebbe giudicato ridicole, se non avesse potuto vedere il ragazzo
con i
suoi occhi.
Leonida
l’aveva educato a fare a meno di tutto, l’aveva
affamato, si diceva, sfiancato
con l’esercizio fisico e addirittura privato delle coperte di
lana e del
mantello nei duri inverni di Pella.
Il
risultato era che il ragazzo sapeva sopportare qualunque privazione
come e forse
meglio di un soldato adulto, ma era più cocciuto di un mulo.
Sapeva
parlare il greco e anche piuttosto bene, ma lo faceva solo quando
voleva lui,
nei suoi tempi e nei suoi modi e non una volta sola gli aveva rivolto
alcuni
insulti nel macedone volgare dei soldati (senza dubbio
l’aveva udito nelle
baracche degli uomini, quando ancora viveva nella tana di Pella,
lasciato a se
stesso come un cucciolo selvatico), guardandolo con aria di sfida.
Questo,
forse più di tutto, gli urtava i nervi. Sembrava che il
principe lo mettesse
costantemente alla prova, se non fosse stato ridicolo pensarlo di un
ragazzino
di appena quindici anni.
Ma
era così.
Non
poteva negare che fosse intelligente. Teneva il passo delle sue lezioni
con una
speditezza che gli altri ragazzi potevano solo sognare, commentava
Omero con
una proprietà di linguaggio impensabile, mentre gli altri
arrancavano ancora
sulle facili edizioni didascaliche. Era certo di essere riuscito a
solleticare
la sua ardente curiosità, sebbene il ragazzo fosse reticente
ad ammetterlo.
Doveva
avere odiato il vecchio Leonida.
Un
giorno gli aveva posto un quesito tramite un sillogismo astratto.
L’avrebbe
potuto risolvere solo attraverso la logica, ma il ragazzo
l’aveva guardato
disgustato e gli aveva offerto invece un’inaspettata e,
bisognava ammetterlo,
alquanto sagace soluzione pratica.
Scosse
la testa; Alessandro aveva sangue di razza ma era difficile da gestire.
Tuttavia, i loro rapporti stavano migliorando.
Lasciò
scivolare lo sguardo sul viso accanto a quello del principe, e si
ritrovò a
fissare i lineamenti seri e composti dell’altro giovane.
Ricordava
il giorno in cui aveva condotto una lezione sull’amicizia:
come l’amicizia
fosse, per un uomo, il bene più grande, la ricchezza
inestimabile del trovare
fuori di sé un altro sé, una stessa anima
condivisa in due corpi.
Si
era trovato spesso in disaccordo con Platone in passato, ma su questo
non aveva
mai nutrito alcuna obiezione.
Aveva
parlato ai ragazzi di come l’amicizia sia virtù in
se stessa, cui fine ultimo è
proteggere e amare la virtù nell’altro –
di come per ogni uomo esista un unico
e solo amico perfetto, e quanto grande sia il dono degli Dei se
decidono di
rendere possibile il riconoscimento.
I
perfetti amici condividono tutto: la gioia e la felicità, ma
anche le
privazioni. Condividono le proprie visioni e i propri obiettivi. I
sogni
dell’uno sono i sogni dell’altro.
Achille
e Patroclo, fino alla morte.
Gli
altri ragazzi avevano ridacchiato alla menzione; in fin dei conti erano
ben
noti i pettegolezzi da taverna sul presunto rapporto che aveva unito i
due
eroi. Erano tutti molto giovani e Aristotele sapeva che le schermaglie
amorose
e i moti di un corpo che stava cambiando, erano inevitabili a
quell’età.
Chiudeva un occhio perché ciò non offendeva la
sua morale, né era in contrasto
con quella macedone, tuttavia aveva volutamente lasciato fuori la
fugace sfera
di Eros, che abbaglia e rende ciechi, qualcosa che, a suo parere,
toglieva
invece di aggiungere.
L’amicizia
di cui parlava lui era una comunione di anime.
Alessandro
non aveva riso, i suoi occhi avevano scintillato mentre lo ascoltava
parlare.
Forse,
una delle sue lezioni era riuscita a fare breccia nel cuore del giovane.
I
due ragazzi erano stati inseparabili ben prima del loro arrivo a Mieza.
Dovevano essersi conosciuti precedentemente ma, fin dai primi giorni
alla
scuola, era stato palese quanto fossero legati.
Efestione,
così si chiamava l’altro, era figlio di uno dei
generali più vicini a Filippo,
uno dei suoi eteri, i compagni del più alto rango di
cavalleria. Aveva persino
intravisto l’uomo, un giorno in cui era venuto a far visita
ai due figli che si
trovavano a Mieza – una figura imponente, in un certo qual
modo diversa dal
comune, rude soldato macedone, e che incuteva innegabilmente un certo
rispetto.
Amintore
– Aristotele ricordava ancora il nome – sembrava
avere modi stranamente
gentili, persino raffinati se comparato ai rozzi e chiassosi uomini
della sua
terra, e non si stupiva che Filippo lo tenesse in così alta
considerazione. Persino
il suo greco era notevole, come di chi avesse frequentato Atene con
assiduità.
Quello
del ragazzo, invece, era perfetto. Efestione era sicuramente cresciuto
ad
Atene, forse il figlio di una qualche concubina locale.
Aristotele
non aveva approfondito questo aspetto e il ragazzo sembrava molto
reticente a
parlare dei suoi trascorsi, ma non c’era alcun dubbio:
l’accento pulito, il
dolce suono della pronuncia attica, una delizia per le sue orecchie,
erano
inconfondibili e troppo perfetti perché potessero essere
stati meramente
appresi.
Aristotele
si era stupito di trovare in lui un allievo così attento e
brillante. La
maggior parte dei ragazzi che si trovavano lì vi erano stati
spinti dai padri,
che certo speravano di ricavare un vantaggio futuro dal fatto che i
figli fossero
stati i compagni di scuola del principe e suoi amici fin dalla tenera
età.
L’avere un posto a Mieza doveva essere stato qualcosa di
molto ambito da più
d’uno di quegli ambiziosi genitori.
Purtroppo,
ciò non era stato un vantaggio per Aristotele, che si
trovava spesso a parlare
a una classe disinteressata e distratta, e questo si era rivelato
frustrante
oltre ogni dire.
Efestione,
al contrario, era una fonte di continua soddisfazione per lui.
Il
ragazzo era l’unico che riusciva a tenere il passo di
Alessandro nello studio,
aveva una mente vivace e curiosa, e spesso le sue fulminee intuizioni
erano disarmanti
persino per lui.
Dimostrava
una logica ferrea, unita a una sensibilità profonda,
rarissima in un ragazzo
così giovane.
Aveva
diciassette anni ma spesso, guardando il suo viso serio e concentrato,
Aristotele pensava che fosse difficile dargli
un’età.
Non
aveva la sfrontatezza irrequieta e il gusto per la sfida che
caratterizzavano
il giovane principe; era invece tranquillo, spesso riservato, sebbene
si
potesse intuire un flusso continuo di emozioni scorrergli
profondamente, sottopelle.
Un
movimento in basso riscosse Aristotele dalle sue riflessioni. I due
ragazzi si
erano alzati; Efestione teneva il libro sotto braccio e camminava
accanto ad
Alessandro, che procedeva spedito – entrambi diretti verso il
bosco subito al
di là del giardino.
Alla
fine dovevano aver deciso di unirsi agli altri, pensò
Aristotele non senza un
moto di divertimento. La giornata si era fatta afosa e il richiamo
allettante
del lago doveva essere stato irresistibile anche per loro.
Li
seguì con gli occhi finché non scomparvero nella
boscaglia, tra le ombre e i
cespugli di rosa canina, poi alzò il volto verso il cielo
terso, il sole di una
luminosità abbacinante.
Sorrise
mentre si schermava gli occhi con una mano. Gli Dei erano stati
generosi,
sarebbe stata un’estate perfetta e ogni cosa a Mieza ne stava
già mostrando i
segni.
Aristotele
voltò le spalle e scomparve nella fresca penombra del
corridoio.
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