Capitolo
4.
Cassandro
non riusciva a dormire.
Si
girava e rigirava nudo nel suo letto, incapace di chiudere occhio,
così
accaldato da avere la sensazione di soffocare.
La
stanza era immersa nell’oscurità e non un filo
d’aria sembrava attraversarla.
Gettò di lato le coperte e si alzò con un
grugnito, raggiungendo la finestra da
cui poteva scorgere uno stralcio del bosco scuro e silenzioso al di
là del
prato. Si passò una mano tra i capelli sudati.
Quanto
odiava quel caldo.
E
quanto detestava quel posto, così isolato che gli pareva di
trovarsi in mezzo
al nulla.
Si
voltò e osservò il letto vuoto e disordinato
accanto al suo. Filota, il suo
compagno di stanza, aveva pensato bene di uscire quella notte,
probabilmente
per andare a fottersi qualche puttana di Beroia in compagnia dei suoi
amichetti.
Chissà
cosa ne avrebbe pensato suo padre, il grande generale Parmenione, se
avesse
saputo che suo figlio se la faceva con quella feccia.
Le
labbra gli si allungarono in un sorriso crudele; magari ne sarebbe
stato
persino contento.
A
ogni modo, Filota poteva rimanersene in giro fino
all’indomani per quanto lo
riguardava. Forse era la volta buona che sarebbe riuscito a dormire, se
il
caldo non l’ammazzava prima; quell’idiota russava
come un toro in calore.
La
stanza era piccola e puzzava di cavallo. Ancora una volta si maledisse
per aver
dato retta a suo padre ed essersi fatto convincere a venire in quel
posto
disgustoso.
E
pensare che lui stesso aveva insistito. Doveva essere impazzito.
A
quest’ora avrebbe potuto essere nella sua casa di Pella a
farsi preparare un bagno
da qualche servo, o nella fresca residenza di famiglia, sulle colline
attorno
al fiume Asso, a festeggiare e bere vino dopo una giornata di caccia.
Antipatro,
suo padre, era l’uomo più importante di Macedonia
dopo lo stesso Re. Generale e
diplomatico, godeva della massima fiducia da parte di Filippo, che gli
aveva
persino lasciato la reggenza dello Stato le volte in cui la guerra
l’aveva
costretto ad assentarsi.
Quando
si era reso necessario far accompagnare Alessandro a Mieza, suo padre
– com’era
ovvio – aveva proposto il suo nome al Re. Che lui andasse a
Mieza era scontato:
tutti i figli dei nobili e dei generali più altolocati di
Macedonia avrebbero
scortato il principe alla scuola di Aristotele, e lui non sarebbe stato
da
meno. Aveva persino insistito, e a voler ben vedere c’era
dell’ironia tragica
in tutto questo.
Non
si era mai pentito tanto amaramente di qualcosa in vita sua.
Imprecò
a bassa voce. Il caldo era insopportabile; se fosse rimasto ancora un
momento
in quella stanzetta angusta, il suo letto avrebbe finito per diventare
la sua
tomba.
Si
infilò un chitone di lino leggero e uscì
all’aperto. La brezza notturna gli
diede immediato sollievo e lo fece sospirare di piacere.
Si
avviò a passo veloce verso il retro della lunga e bassa
costruzione del
dormitorio, raggiungendo una grossa cisterna di pietra per
l’acqua piovana. Sedette
sul bordo della vasca e tuffò la testa nell’acqua,
poi la scrollò e si allungò
all’indietro, lasciando che le gocce gli scendessero
giù dai riccioli castani
lungo il collo e le spalle.
La
notte era umida e pesante attorno a lui, il frinire dei grilli e il
fruscio
delle piante non gli erano mai sembrati tanto desolanti.
Non
riusciva ad ammettere di sentirsi così male, di sentirsi
così solo.
All’inizio
non ci aveva fatto caso, non aveva notato come gli altri compagni
formassero
ogni giorno di più un gruppo compatto e affiatato, mentre
lui veniva lasciato
fuori come un animale fastidioso. Non ci aveva fatto caso
perché la cosa non
gli era mai importata, ma alla fine non aveva potuto ignorarlo.
No,
non aveva più potuto ignorarlo.
Sbatté
le palpebre con forza. Credeva di sapere di chi fosse la colpa.
Alessandro.
Sembravano
tutti sbavargli addosso e pendere dalle labbra di quel ragazzino
arrogante e
indisponente. Che cosa ci trovavano in lui?
Possibile
che nessuno si accorgesse che era solo un moccioso vanesio che cercava
di atteggiarsi
da adulto?
Qualcuno
avrebbe dovuto insegnargli a stare al suo posto. Era sicuro che se non
fosse
stato il figlio del Re, non avrebbe ricevuto la metà delle
attenzioni che
sembravano circondarlo.
Fece
una smorfia e sputò nell’erba.
L’antipatia
che provava per Alessandro era stata reciproca e immediata, non
riusciva
nemmeno a ricordare com’era iniziata, se c’era
stato un inizio.
Antipatro
l’aveva portato a palazzo molte volte e, nonostante lui fosse
di qualche anno
più grande del principe, quest’ultimo
l’aveva sempre guardato dall’alto in
basso, con un’aria di superiorità che Cassandro
gli avrebbe volentieri
cancellato dalla faccia a suon di pugni.
Non
erano mai andati d’accordo, anche quando lui e quel grosso
cinghiale di Tolomeo
erano stati gli unici ragazzi a frequentare regolarmente il palazzo
reale.
La
rivalità era stata immediata, Cassandro credeva da ambo le
parti – riuscendogli
difficile riconoscere che Alessandro non l’aveva preso in
considerazione
neanche per un momento.
Non
c’erano state liti aperte e questo rendeva il tutto ancora
più insopportabile.
Gli
costava ammettere che era venuto a Mieza armato delle più
buone intenzioni.
Forse, in cuor suo, aveva desiderato fare amicizia con lui, anche solo
per
compiacere suo padre che sembrava avere molto a cuore il suo futuro
alla corte
del principe.
Forse,
semplicemente, non voleva più sentirsi solo.
Al
contrario, le cose erano addirittura peggiorate. La sua antipatia si
era
trasformata in odio – e in aperto disprezzo, da parte di
Alessandro. Lo sciame
di leccapiedi che gli ronzava attorno non aveva tardato ad assumere lo
stesso atteggiamento,
non c’era da stupirsi di questo. Solo Filota sembrava
condividere la sua
opinione ma era troppo occupato a cercare di farsi amico questo o
quello, perché
potesse esserne sicuro.
A
ogni modo, Filota era l’unico a essergli in qualche modo
sopportabile.
C’era,
invero, qualcun altro che odiava tanto quanto Alessandro, sebbene
all’inizio
gli fosse sembrato impossibile: quell’intrigante bastardo
ateniese, che
Alessandro si portava appresso come un cane fedele e che sembrava
adorare con
tutto il cuore. Un ateniese che cercava di fare il macedone, con quella
sua
parlata indisponente e quel modo di fare che sembrava intendere quanto
si
ritenesse superiore a tutti loro.
Avrebbe
scambiato volentieri due paroline lui con Efestione, se solo non avesse
avuto
la fortuna di essere l’amichetto del cuore di Alessandro.
Si
ricordava bene le risatine, le parole dietro le spalle, i dispetti.
Oh,
Alessandro no – e nemmeno Efestione. I due signorini
erano troppo superiori a queste cose, ma c’era stata una
mattina in cui si era
svegliato in un letto pieno di rane viscide e rivoltanti, ed era sicuro
che lui non ne fosse stato
all’oscuro; non
poteva non sapere che i suoi detestabili amici si divertivano a
tormentarlo in
quel modo.
Efestione
non gli aveva mai rivolto la parola sgarbatamente, né preso
in giro, ma era
sicuro che lo disprezzasse e la sua freddezza da greco borioso gli
riusciva
ancora più intollerabile.
Un
nodo rovente gli si formò nelle viscere, minacciando di
soffocarlo.
Li
odiava.
In
cuor suo, nei desideri che nemmeno si nominano, sapeva il
perché – sebbene
nelle lunghe, interminabili ore di veglia questo fosse solo un pensiero
informe
che si rifletteva appena sullo specchio scuro della sua coscienza. Li
odiava
perché insieme erano avvolti in un bozzolo dorato che
sembrava catturare i
raggi del sole; li odiava perché insieme sembrava che niente
potesse scalfirli.
Li
odiava perché insieme erano invulnerabili.
Chiuse
gli occhi, vedendo il mondo vacillare – e pensò
alla sua casa. Non a suo padre –
poco più che un estraneo severo e dalla cinghiata facile
– e neppure a sua
madre, una presenza di contorno, fragile e immateriale fin dai primi
anni di
vita.
Non
pensò neanche ai suoi numerosi fratelli e sorelle,
così chiassosi e invadenti
che erano stati più un fastidio che una gioia per lui.
Tutti,
eccetto uno.
Nicanore,
il più piccolo di casa, che lo amava teneramente.
Nicanore,
che a sette anni già voleva cavalcare come un uomo e gli
aveva chiesto di
insegnargli a farlo, insieme al modo di lanciare il giavellotto per
cacciare il
cinghiale.
Ecco.
Per Nicanore avrebbe dato la vita.
Era
stato a casa pochissimo dalla sua partenza per Mieza e, ogni volta che
tornava,
il fratello sembrava diverso, sempre più grande –
come avesse deciso di
crescere senza aspettarlo.
Quanto
odiava essere lì, in mezzo a quegli idioti repellenti,
mentre l’unico essere
che amava – e che lo amava ricambiandolo –
rischiava di diventare un estraneo
lontano da lui. Gli avrebbe insegnato lui ad andare a cavallo, e
sarebbe stato
lui ad accompagnarlo a cacciare il suo primo cinghiale, dandogli il
diritto di
sedere alla tavola degli uomini.
E
ancora, ci sarebbe stato lui con Nicanore, quando avesse ucciso il suo
primo
uomo, guadagnando così la cintura per portare la spada come
un vero guerriero.
Il
pensiero gli diede una fitta di dolore.
Alessandro
si era conquistato la sua cintura a quattordici anni, lui solo
l’anno scorso, a
diciotto. Perché il pensiero doveva sempre tornare a quel
maledetto ragazzino?
Ma
non poté evitarlo, nemmeno questa volta, e il ricordo lo
riassalì con forza,
portando con sé la consueta scia di sensazioni: rabbia,
vergogna, eccitazione,
dolore.
Era
accaduto un anno prima e il periodo era pressappoco lo stesso.
Ricordava la
calura insopportabile, la sensazione di soffocare.
Il
Re era impegnato in Tracia, in una campagna-lampo contro una bellicosa
tribù
ribelle. Aveva richiamato il figlio a nord, insieme a molti dei suoi
compagni
più grandi, perché assaggiassero la vita in un
campo militare e potessero
mettersi alla prova in una vera battaglia.
Oh,
certo, era poco più che una scaramuccia con un gruppo di
barbari vestiti di
pelli e tatuati di blu, e tutti loro erano stati educati alle armi e al
combattimento fin da quando erano bambini, ma Cassandro era stato
ugualmente
eccitato e spaventato quando i soldati della scorta erano venuti a
prenderli
per accompagnarli all’accampamento.
Le
loro corazze di bronzo e le lunghe sarisse appuntite brillavano nel
sole estivo
mentre attraversavano il corso dello Strimone, dirigendosi a est, verso
le montagne
che sovrastano la costa egea, nel territorio dei bistoni –
dove Filippo li
stava aspettando.
Ricordava
il sole a picco e il cielo di un blu abbacinante, il peana dei soldati
e il
frastuono degli zoccoli dei cavalli che accompagnavano la loro marcia,
risuonando tra le rocce nude e scandendo il passo. Ogni particolare era
impresso indelebile, marchiato a fuoco nella memoria.
C’erano
stati tutti: Tolomeo, Filota, Nearco, Cratero, Perdicca e ovviamente
Efestione
e… Alessandro.
Marciava
a capo della fila su quel suo demonio di cavallo, i capelli una colata
d’oro e
sembrava che fosse sempre stato lì, che ci fosse nato,
invece di essere uno
stupido quattordicenne che ancora puzzava di latte.
Filota
gli aveva detto che aveva passato l’infanzia con i soldati.
Chi si credeva di
essere?
Poi,
era arrivata la battaglia.
Solo
una cosa si ricordava, della battaglia – vivida,
incancellabile come le striate
di sangue sul corpo e tra i capelli, in bocca, ovunque –
quando tutto il resto
era ormai solo un frastuono indistinto di grida umane e nitriti di
cavallo,
clangore di spade e bagliori di lame.
Alessandro,
che irrompeva nella cittadella come una scia di fuoco, senza tirarsi
indietro,
incosciente tra i primi della linea, mentre lui arrancava a fatica
nelle
retrovie, ansimante, coperto di fango e sangue secco, la bocca piena di
un
rivoltante sapore metallico.
Efestione
era stato sempre accanto a lui, alto ed eretto sul suo cavallo, non gli
aveva
lasciato il fianco scoperto per un attimo.
Poi,
tutto era finito.
Li
rivedeva ancora, fianco a fianco come i Dioscuri davanti
all’altare, quando erano
stati offerti sacrifici a Eracle per la vittoria e il fumo
dell’olocausto saliva
in alto, denso e rovente verso il cielo azzurro.
Era
stata una sua impressione o c’era davvero quella sfumatura
rossa tra le nuvole?
Il
viso di Alessandro era incrostato di sangue. Sangue nei capelli, sangue
sulle
spalle, sul torso, sangue dappertutto, come un animale scannato, eppure
sembrava coperto d’oro – lucido, splendente. Gli
aveva visto tranciare la testa
di un uomo con un colpo di spada, l’espressione serena e
concentrata, mentre
lui, in battaglia, combatteva con una smorfia contratta sul viso.
Oh,
il re e Parmenione – persino suo padre Antipatro! –
l’avevano sgridato per la
sua incoscienza, ma si vedeva che erano orgogliosi. Parmenione
– che era quanto
di più simile a un dio per lui – l’aveva
guardato con ammirazione e affetto,
mettendogli una mano sulla testa, come un padre. Persino i
più anziani soldati
macedoni, uomini duri come la pietra, uomini che non si impressionavano
di
nulla ormai, erano rimasti colpiti e si complimentavano con lui,
chiamandolo Kyrie. Il giovane
Signore. Tra questi
anche i soldati di Antipatro, di suo
padre!
In
quel momento gli aveva augurato la morte. Aveva sperato che fosse
finito
squartato da una lancia nella battaglia appena finita.
Emerse
dalla sua visione con un brivido, mentre i contorni oleosi del fuoco e
le sagome
di quel giorno lontano sfumavano lentamente, come il fumo del
sacrificio,
lasciando il posto alla notte che adesso lo avvolgeva come una coltre
viscida.
Si
alzò adagio dal bordo della cisterna e si
sgranchì le gambe. Avrebbe fatto due
passi, forse si sarebbe sentito un po’ meglio.
Girò l’angolo e udì uno scoppio
di risate improvvise. Ormai gli occhi si erano abituati
all’oscurità e scorse
due figure in piedi, vicine, nello spazio chiuso del giardino.
Da
non credere: quell’idiota di Tolomeo che se la rideva beato
con l’ateniese, come
se fossero i più grandi amici. Sentì lo stomaco
torcerglisi per il disgusto.
Vide
Efestione salutare Tolomeo con un cenno della mano e avviarsi nella sua
direzione. Quando fu abbastanza vicino, Cassandro uscì
dall’ombra e si piantò davanti
a lui.
L’altro
alzò un sopracciglio e fece per passargli a fianco, ma
Cassandro lo fermò,
prendendolo per un braccio. “Stavamo cominciando a
preoccuparci, sai? Siete
tornati dalla passeggiatina al chiaro di luna?”
Efestione
socchiuse gli occhi e liberò il braccio con uno strattone.
“Buonasera
anche a te, Cassandro.”
Quest’ultimo
serrò le labbra, poi sorrise. “Non stai adempiendo
molto bene ai tuoi doveri di
cane da guardia, ragazzo di Atene. Se continui così il tuo
padroncino potrebbe
finire per essere sculacciato. Pensa un po’ che
tragedia!”
Efestione
si accomodò meglio nella sua posizione, portando le mani
alla cintura. “Sai, a
volte mi chiedo, Cassandro… quando parli ti rendi conto di
quello che dici o blateri
a vanvera perché ti piace sentire il raglio della tua
voce?”
Cassando
strinse i pugni. Si fronteggiarono per qualche istante occhi negli
occhi, senza
dire una parola. Lui era alto ma Efestione lo superava di una buona
spanna. Il
suo viso non tradiva alcuna emozione, si limitava a guardarlo
tranquillo
dall’alto della sua statura. Cassandro avrebbe voluto
cancellargli quell’odiosa
espressione dalla faccia, prenderlo a schiaffi fin quando non gli
avesse
mostrato un po’ di rispetto.
“Bene,
è stata una bella conversazione, Cassandro, e ti
ringrazio,” disse Efestione,
rompendo il silenzio, “adesso però, se non ti
dispiace, avrei altro da fare.”
Cassandro
lo prese per il collo della tunica, tirandolo verso di sé
finché il viso non fu
quasi a contatto con il suo. “Ascoltami bene, figlio di una
troia ateniese,”
ringhiò, “credi di poter venire qui e sbattermi in
faccia quella tua aria
arrogante senza pagare conseguenze per questo? Lo credi
veramente?”
Efestione
mise una mano sulla sua e strinse, finché le nocche non gli
diventarono
bianche. Cassandro socchiuse gli occhi. Efestione aveva una stretta
forte.
“Non
mi interessa discutere con te, Cassandro. Né di questo,
né di altro. Se sei a
caccia di un diversivo per passare una serata noiosa lo stai cercando
con la
persona sbagliata.” Poi lo spinse via con un gesto deciso e
Cassandro vacillò,
facendo un passo indietro per mantenere l’equilibrio.
“Oh
no. No. Invece dovrai ascoltarmi.
È ora
che qualcuno ti insegni qual è il tuo posto qui.
È giunto il momento di fare un
bel discorsetto da uomo a uomo, sempre che tu non decida di andare a
chiamare
il tuo padroncino perché ti venga a difendere!”
Efestione
fece un passo avanti allungando un braccio per afferrarlo, quando una
voce
irruppe improvvisa nell’aria ferma:
“Chi
è che dovrebbe andare a chiamare?”
Si
voltarono entrambi e Alessandro era lì in piedi, a gambe
divaricate, con uno
sguardo furioso tra le sopracciglia corrugate.
Cassandro
si liberò dalla stretta e si eresse in tutta la sua statura,
ma evitò di
guardarlo negli occhi. “Oh, nessuno in particolare. Io ed
Efestione stavamo
solo avendo un piccolo scambio di opinioni, niente di più.
“
Efestione
lo guardò con disgusto mentre Alessandro si faceva avanti,
mettendosi tra di
loro. Poi, fulmineo come un felino, afferrò Cassandro per i
capelli e lo sbatté
con forza contro il muro, abbassandogli la testa così che
potesse guardarlo
dritto nelle iridi grigie.
Quello
che Cassandro vide non gli piacque. Le forze sembrarono abbandonarlo in
un
istante.
“Bene,
Cassandro. Allora accetterai anche questo piccolo scambio
di opinioni con me, dico bene?” Lo
lasciò, rapido così come
l’aveva ghermito e per poco Cassandro non finì
lungo e disteso per terra.
“È
sempre interessante discutere con te. Adesso, però, se vuoi
scusarci…”
Si
allontanarono lasciandolo lì da solo, appoggiato contro il
muro gelido , un
tremito involontario che gli saliva dalle viscere.
Cercò
di scacciarlo ma non ci riuscì.
Li
osservò camminare, senza che nessuno dei due si voltasse
neanche per un attimo
a guardarlo, anche solo per maledirlo o inveire contro di lui, e una
volta in
più augurò loro la morte.
“Devi
essere sempre così impulsivo, Efestione? Ti ho visto. Se non
fossi arrivato avresti
finito per farci a pugni, e dopo come avresti spiegato ad Aristotele le
sue
ossa rotte?”
Efestione
lo guardò di sbieco, facendo una smorfia. “Detto
da te suona come un
complimento, visto il modo in cui gli hai sbattuto la testa contro il
muro. E
comunque non vedo cosa ci sarebbe stato di male. Cassandro sta cercando
di provocarmi
in tutti i modi, e da un bel pezzo. Gli avrei dato solo quello che
voleva.”
Camminavano
fianco a fianco lungo il muro del dormitorio, diretti verso
l’edificio principale.
“Questo
è fuori dubbio e forse, con qualche dente rotto, la
pianterebbe di andarsene in
giro come un gallo altezzoso. Ma non ne vale la pena, non voglio che tu
ti
metta a fare a botte con quell’idiota.”
Efestione
sospirò rassegnato ma Alessandro non parve farci caso.
“Credimi, philè,”
continuò, “il peggior nemico di
Cassando è lui stesso. Lascialo pure avvelenarsi nella sua
miseria, è
innocuo."
Efestione
scosse la testa, prendendolo per una spalla. “Non penso che
sia così innocuo
come credi e tu non sei mai stato bravo a giudicare le persone.
È questo che mi
preoccupa. Non mi piace. Non mi piace il modo in cui ti guarda: con
disprezzo,
con odio e allo stesso tempo con un’invidia insana. No, non
ho mai pensato
neanche per un attimo che fosse innocuo.”
Alessandro
sorrise. Si strinse nelle spalle in un gesto sbrigativo.
“Stai esagerando. Che
Cassandro sia invidioso è lampante, ma gli
passerà. E se non dovesse passargli
non vedo proprio perché dargli importanza. Sbrighiamoci
adesso, se vogliamo
trovare qualcosa da mangiare.” Si avviò veloce
verso l’ingresso dell’imponente
costruzione di pietra, poi si voltò verso Efestione, che era
rimasto immobile. “Ti
vuoi muovere, sì o no?”
Efestione
scosse la testa e lo seguì all’interno del
corridoio rischiarato fiocamente
dalle lampade di bronzo traforato appese alle pareti. I loro passi
risuonavano
come colpi nello spazio silenzioso, l’odore acre e familiare
dell’olio che
bruciava sembrava spandersi dappertutto.
Raggiunsero
la cucina e la trovarono deserta. Il vasto locale era stipato di vasi,
paioli
di rame, stufe e bracieri, e un profumo variegato di spezie ed erbe
aleggiava
nell’aria.
“Menmet
dev’essere già andato a letto, meglio
così. Prendiamo qualcosa da mangiare e
filiamo. Sto morendo di fame.”
Efestione
annuì. Si diressero verso uno scaffale ricolmo di piccoli
vasi coperti da teli
di lino; riempirono una brocca con
del vino e misero dell’uva passa, fichi e una focaccia di
farina d’orzo su un
vassoio, poi si avviarono veloci verso l’uscita, in direzione
del dormitorio. Arrivati
nella stanza che condividevano, Alessandro accese la piccola lampada a
olio che
teneva sul ripiano accanto alla finestra. Efestione sedette sul suo
letto,
appoggiando il vassoio e la brocca accanto a sé.
Il
locale era piccolo e afoso, esposto ai raggi del sole durante il
giorno. I
letti si trovavano proprio sotto la finestra, mentre in un angolo
c’erano le
due cassapanche con i loro vestiti e un tavolino di legno con i dittici
di cera
e gli stilo per la scrittura.
Di
lì a poco, un tenue chiarore illuminò le pareti
della stanzetta.
Alessandro
appoggiò la lampada vicino al letto, sedendosi accanto a
Efestione. Lui gli
sorrise e gli porse un pezzo di focaccia, assieme a una manciata
d’uva.
Mangiarono
in silenzio, condividendo lo stesso piatto come facevano sempre, poi
Efestione
prese uno dei kylix che si
trovavano
sulla mensola e versò un po’ di vino nella coppa,
portandosela alle labbra.
Alessandro
lo osservava concentrato e silenzioso. Assaporare il vino era un gesto
che
avevano condiviso molte volte, quasi un rituale segreto tra loro.
Il
vino era vita, il vino era l’anima del dio. Rappresentava la
chiarezza della
visione, la passione dei desideri che danno fuoco all’anima
di un uomo.
Il
vino significava essere uomini.
Quando
Efestione ebbe finito di bere gli porse la coppa; Alessandro gliela
prese dalle
mani e la fece ruotare, accostando le labbra al punto esatto in cui lui
aveva
bevuto.
Si
ritrovò a fissare la sua bocca appoggiata all’orlo
del recipiente, sentendosi
improvvisamente a corto di parole. Alessandro aveva una
sensualità selvatica,
spontanea e al contempo inconsapevole, e questo riusciva a confonderlo
del
tutto.
Incapace
di trattenersi, allungò una mano e fece scorrere tra le dita
una ciocca dorata
dei suoi capelli.
Alessandro
sbatté gli occhi una volta, poi appoggiò la coppa
accanto a sé e lo fissò in
silenzio. Teneva ancora dell’uva in una mano e Alessandro
gliela sollevò,
portandosela alla bocca e cominciando a mangiare i pochi chicchi che
erano
rimasti. Quando ebbe finito staccò le labbra per un istante,
guardandolo con
un’espressione indecifrabile. Poi si mise le sue dita in
bocca e cominciò a
succhiarle forte, una a una.
Efestione
sussultò e si sentì girare la testa, incapace di
staccare gli occhi da
Alessandro, intento a leccargli la mano con una lentezza dolorosa ed
esasperante. Senza neanche rendersi conto di quello che faceva lo
spinse sul
letto, adagiandosi sopra di lui con tutto il suo peso e facendo cadere
la
coppa, che finì a terra con uno schianto.
Nella
foga del gesto sentì il chitone di Alessandro strapparsi su
una spalla, e
rimasero a fissarsi senza staccare gli occhi l’uno
dall’altro.
Efestione
teneva le mani saldamente ancorate ai suoi polsi ma lui non si mosse.
Si
limitava a guardarlo con uno sguardo fiducioso.
Ecco
– rifletté Efestione – questo era
ciò che lo confondeva di più. Alessandro,
sempre così fulmineo, rapido ed elusivo come un gatto
selvatico, era con lui –
e lui solo – docile e arrendevole. Sapeva che non avrebbe mai
potuto tenerlo
così se non avesse voluto, e la cosa lo inorgogliva e lo
turbava al tempo
stesso. Niente avrebbe potuto essere più immenso di questa
fiducia, più
prezioso di questa resa, questo abbandono segreto che nessuno vedeva,
nessuno
poteva conoscere.
Le
parole gli uscirono a fatica, rauche, come richiamate dal profondo di
sé. Non
era certo di avere parlato fin quando non sentì la sua
stessa voce arrivargli
alle orecchie.
“Perché
mi permetti di farti questo?”
Alessandro
incurvò le labbra in un sorriso sottile.
“Perché mi piace vedere questo sguardo
nei tuoi occhi. Questo sguardo lo conosco solo io.” Poi lo
artigliò per le
braccia, rapido come la zampata di un leone, e con le labbra che quasi
toccavano le sue, bisbigliò: “Non voglio che
guardi nessun altro al mondo così.
Ti uccido se lo fai. Preferisco saperti morto, che pensare di venire
secondo
nella tua vita.”
Efestione
si liberò dalla stretta e gli sorrise, attirandolo a
sé. “Sai che è
impossibile. Non c’è nulla a questo mondo che mi
sia più caro di te. Nulla.”
Alessandro
gli si aggrappò con forza disperata, la pelle rovente, come
se stesse
bruciando. “Philè.
Mio philè…”
era la sola cosa capace di
ripetere, ancora e ancora, mentre Efestione lo baciava sulla bocca,
sulle
spalle, sui muscoli delle braccia e del petto, senza sosta.
Trovò
con le labbra una piccola cicatrice, non l’unica, sul braccio
di Alessandro e
la leccò, la mente annebbiata dal desiderio, mentre i loro
chitoni scivolavano
via, andandosi a unire ai frammenti della coppa sul pavimento.
Quando
lo prese, con un’unica spinta possente, sentì un
ansito sfuggire dalle sue
labbra, il suo respiro spezzato e veloce – Alessandro, che
non emetteva mai un
lamento, nemmeno quando veniva ferito – e rimase immobile
sopra di lui.
“Non…
fermarti.” Fu solo un bisbiglio contro il suo orecchio mentre
Alessandro gli
afferrava i capelli e gli scavava con le dita la pelle della schiena.
Ne
avrebbe portato i graffi addosso per giorni, ma in quel momento non
importava,
non gli sarebbe importato nemmeno se l’avesse fatto a pezzi
con le sue stesse
mani.
Alessandro
aveva tenuto per tutto il tempo gli occhi chiusi ma in
quell’istante li riaprì,
due pozzi grigi sovrastati da sopracciglia arcuate come ali, ed
Efestione
affogò ancora una volta in quelle profondità
ardenti, in quella fiducia totale
e nel fuoco che la avviluppava come una follia invocata dagli Dei.
Nella
miriade di pensieri sconnessi che gli affollavano la mente, uno
più di tutti
sembrò tornare in superficie, sfocato e imperioso come una
voce sentita in
sogno. Una volta lui e Alessandro avevano trovato un libro tra le carte
di
Aristotele, un’opera scritta dal suo vecchio maestro, un
filosofo ateniese
chiamato Platone.
L’avevano
letto di nascosto, incantati e anche un po’ colpevoli,
perché Platone parlava
dell’amore in quel libro, parlava degli amanti e del loro
desiderio, della loro
brama di fondersi l’uno con l’altro in una stessa
colata incandescente, per non
essere mai staccati, mai rimossi – notte e giorno. In
particolare ricordava un
unico, singolo passaggio – di come il Dio Efesto, trovatosi
dinanzi agli
amanti, avesse loro chiesto che cosa desiderassero di più,
se non forse quella
fusione, quella comunione senza ritorno. Ed entrambi avevano risposto:
“… ecco, proprio questa è la
mia febbre, da sempre. Confondermi, liquefarmi col mio amore, farmi uno
da quei
due che siamo."
Ed
era tutto racchiuso lì, pensò confusamente
Efestione mentre affondava nel suo
amato –
era tutto custodito lì, in quel
suo desiderio convulso di diventare un tutt’uno con lui,
conficcarglisi nella
carne come un marchio rovente, l’identico marchio che
Alessandro gli aveva
impresso addosso con il suo stesso fuoco.
Alla
fine giacquero a lungo, in silenzio, l’uno accanto
all’altro, mentre il sudore
si asciugava sulla pelle e i loro respiri tornavano lievi.
Quando
Efestione voltò la testa, vide che Alessandro era
addormentato, i lineamenti
distesi e rilassati come gli accadeva sempre dopo l’amore.
Era, questa, una
delle poche cose in grado di farlo cadere in un sonno profondo e senza
sogni.
Gli
scostò una ciocca di capelli che gli copriva il viso, nel
gesto familiare, e
rimase seduto immobile a fissare il lembo di cielo scuro che si
intravedeva
dalla finestra, simile a un drappo adornato di pietre lucenti.
La
notte era umida e profumata, e nella stanza l’odore acre del
sesso si mischiava
a quello degli oleandri che crescevano nei prati. Sulle labbra poteva
sentire
il sapore del sudore di Alessandro che era salato e leggero come acqua
di mare.
Si
rese conto con stupore che una strana vertigine si stava facendo strada
dentro
di lui. Osservò di nuovo il viso di Alessandro, immerso nel
riposo, e sentì
ancora quella morsa di inquietudine annodargli le viscere in un
groviglio
doloroso.
A
volte si chiedeva se non fosse troppo quello che l’amico gli
stava dando, se
tutta quella fiducia, tutto quell’amore, un giorno Alessandro
non li avrebbe
pagati a un prezzo troppo alto.
Chiuse
gli occhi per scacciare il pensiero.
Lui
non l’avrebbe mai tradito, non avrebbe mai permesso che quei
doni inestimabili
andassero perduti, né che Alessandro dovesse pagare per
questo. Mai. Non finché
avesse avuto vita.
E
allora perché doveva sentirsi così in ansia
quando tutto ciò che voleva, tutto
ciò che aveva mai voluto, giaceva sereno e al sicuro accanto
a lui?
Rimase
sveglio a lungo, incapace di placare i pensieri che correvano veloci,
come
prede inermi spaventate da un latrare lontano, per poi cadere in uno
stato di
nervoso dormiveglia. Non si rese conto di essersi addormentato fin
quando non
sentì i singhiozzi di Alessandro riportarlo bruscamente alla
realtà. Si voltò verso
di lui col cuore in gola. Alessandro era ancora addormentato ma
piangeva nel
sonno, si lamentava come se lo stessero straziando, mentre con le mani
annaspava
nell’aria, la ghermiva nel vano tentativo di afferrare
qualcosa.
Lo
scosse più volte, chiamandolo per nome, finché
non aprì gli occhi di scatto, fissandoli
nei suoi. Occhi vuoti: perduti, posseduti. Poi lo riconobbe, e tutta la
vita
sembrò rifluire in lui, assieme al rossore sulle guance
ceree e al calore nel
corpo. Gli sorrise titubante, ancora sperduto.
Efestione
lo prese tra le braccia, in silenzio, facendogli appoggiare la testa
sulla sua
spalla. Alessandro oppose resistenza, poi si abbandonò
all’abbraccio. Gli circondò
la vita, a cercare un calore che sembrava essere scomparso da lui.
“Ho
fatto un incubo, philè.”
“Lo
so, ma è finito. È passata. Lo sai,
vero?”
Alessandro
si scostò e alzò gli occhi, ancora offuscati da
un’eco di quel vuoto folle e
senza ritorno. “No, non lo so.” Scosse la testa
nello sforzo di ricordare, poi
strinse le mani a pugno in una presa dolorosa sulle sue braccia, come
cercasse
di mantenere il contatto con la realtà aggrappandosi a
qualcosa.
“Sogno
sempre la stessa cosa, ogni notte. Ogni volta che chiudo gli occhi.
Sogno di
essere in uno spazio vuoto e sconosciuto, ma non ho paura fin quando
non
comincio a sentire le fiamme che salgono attorno a me, come una parete
di lava,
e iniziano a consumarmi, a liquefarmi come fossi un cadavere
dimenticato su una
pira funebre. Grido, ma nessuno mi sente. Le fiamme sono attorno a me,
ma
nascono in me, nascono dentro di me e mi mangiano, mi scavano, mi
consumano finché non rimane più nulla.”
Prese
a scuotere la testa da una parte all’altra, le pupille
dilatate, facendosi
sbattere i capelli sulle guance. Efestione gli prese il volto tra le
mani,
costringendolo a fermarsi.
“Adesso
ascolta: era un sogno, Alessandro. Niente di questo è reale,
lo capisci? Solo
un sogno, portato da Hermes per ricordarci che siamo mortali.”
Alessandro
si morse il labbro, talmente forte da farselo sanguinare, poi
fissò di nuovo
Efestione, mentre un rivolo di sangue gli scorreva sul mento, una
piccola
striatura rossa, viva come un rubino.
Efestione
allungò una mano per asciugarla, ma Alessandro lo
bloccò con uno scatto. “Vuoi
sapere qual è la cosa peggiore, la più orribile
di quel sogno?” si interruppe
un istante, ma quando si accorse che Efestione stava per parlare
riprese con
foga: “Non sono le fiamme, e nemmeno il calore che mi scava
le ossa. Oh, no. È il
fatto che, mentre brucio, mentre mi consumo, io… sono solo.
Non c’è nessuno lì,
nessuno mi sente, anche se grido. Anche se urlo fino a farmi scoppiare
i
polmoni.” Alzò la voce tutto d’un
tratto, afferrandosi a lui con energia
incontrollata. “Io chiamo il tuo nome, Efestione, lo grido
con tutta la voce
che ho in corpo ma tu non ci sei, o forse non mi senti. Ti chiamo ma tu
non arrivi,
non ci sei. Non ci sei!” La sua voce era un grido, le mani
serrate a pugno; le
unghie scavavano mezzelune vermiglie nella carne tenera dei palmi.
Efestione
gliele prese fra le sue e lentamente, con dolcezza, gli fece rilasciare
la
stretta.
“Tu
non sei solo. E io sono qui. Se dovessi chiamarmi non avresti bisogno
di urlare,
perché io sarei a non più di due passi da te. Ti
basterebbe alzare gli occhi,
come stai facendo ora, per vedermi. Non puoi non saperlo.”
Alessandro
abbassò le spalle con un sospiro, come se tutta la tensione
l’avesse abbandonato
di colpo. Si appoggiò a lui e lasciò che
l’abbracciasse, lo cullasse in una
stretta calda, rassicurante. “Forse sì. Ci sei,
questo è vero, posso vederti.
Ma che farei se un giorno dovessi svegliarmi e tu non rispondessi
più al mio
richiamo? Che farei se dovessi svegliarmi e tu non fossi più
qui?”
“Ci
sarò.”
Alessandro
rimase in silenzio mentre Efestione lo accarezzava, sussurrava e lo
cullava
come un bambino, e la tensione sembrava scivolare via come un mantello
pesante
tolto alla fine della giornata.
“Parakaleo
se emoi pareinai eis aei, Hephaistion.
Non andartene mai.” Fu
solo un sussurro e dopo pochi
istanti era nuovamente addormentato, il respiro leggero e regolare.
Efestione
lo tenne contro di sé a lungo, mentre la luna completava la
sua salita e le
stelle si facevano ancora più brillanti nel cielo nero.
Non
ci sarebbero più stati sogni fino a domani, ma lui non
avrebbe potuto dormire,
ormai. Chiuse gli occhi, sentendo la notte respirare gravida attorno a
lui, come
una creatura viva.
Doveva
diventare forte.
Doveva
diventare molto più forte per proteggerlo dal suo stesso
fuoco. Non importava
quali segni questo avrebbe lasciato su di sé, fintanto che
ciò servisse a
preservarlo, a evitare che il fuoco lo toccasse.
Il
marchio era stato inciso indelebile nelle sue carni, era il suo destino
e la
sua stessa maledizione. Ma non aveva paura. L’aveva scelto
consapevolmente e
avrebbe tenuto fede a quel voto, avesse dovuto bruciare vivo per questo.
Pensò
a Orfeo, a come era sceso tra le ombre per ricondurre indietro la sua
Euridice;
pensò a come spesso Alessandro gli dicesse che la
realtà gli appariva sfocata,
immateriale, come dietro a un velo, o nascosta da un’ombra.
Se
era così, allora voleva avere il coraggio di Orfeo.
L’avrebbe trovato ovunque
fosse e l’avrebbe riportato indietro, verso il sole. Non si
sarebbe voltato,
non avrebbe indugiato neanche se tutte le teste ringhianti di Cerbero e
le
fiamme più atroci avessero lacerato il suo corpo mortale.
Nulla avrebbe potuto
impedirgli di guidarlo fino alla fine del sentiero e tenerlo per mano,
nella
luce del giorno.
Appoggiò
il palmo sulla guancia di Alessandro, che era tornata tiepida e
soffice, e lui
sospirò nel sonno.
Sì
– pensò Efestione in un attimo di improvvisa,
quasi divina chiarezza: doveva
diventare forte per poterlo condurre con sé, illeso,
attraverso il fuoco.
Fine
Note:
1)
Nel 324 a.c., nella città di Ecbatana in Asia, dopo una
lunghissima campagna che porterà Alessandro e il suo
esercito a conquistare la
gran parte del mondo conosciuto e a essere alla testa di un impero che
si
estendeva dai confini della Grecia fino all’India, Efestione si
ammalerà e morirà
improvvisamente in pochi giorni – poco più che
trentenne.
Tutte
le fonti storiche sono concordi nel dire che Alessandro fu
letteralmente devastato dal dolore.
Giacque
sul corpo dell’amico per quasi un giorno e una notte, fin
quando non ne fu tratto via a forza dai suoi compagni, poi rimase
rinchiuso
nella sua stanza per più di una settimana, senza bere
né mangiare, incapace di
fare nient’altro che piangere e dormire.
Quando
tornò in sé, fu per dare il via ad una bizzarra
– all’epoca
fu creduto pazzo – forma di compianto. Aveva già
dato ordine di impiccare il
medico che, invece di rimanere con Efestione, se n’era andato
a vedere i giochi;
si tagliò i capelli (come Achille aveva fatto per Patroclo)
e fece fare lo
stesso con le criniere di tutti i cavalli; fece spegnere tutti i fuochi
(un
privilegio riservato solo alla la morte del Re e che fu infatti
interpretato
come cattivo auspicio) e ricoprire le sette mura di Ecbatana con
vernice nera.
Il
tempio di Esculapio, patrono della salute, fu fatto radere al
suolo, ed egli stesso si imbarcò in una guerra lampo contro
i Cossiani, per
offrire i morti in sacrificio all’ombra
dell’ amico, nella sua discesa verso l’Ade.
Ordinò
che il reggimento di Efestione portasse il suo nome ad
perpetuum e che tutti gli accordi
commerciali fossero firmati in suo nome.
L’azione
più folle, e anche la più disperata, fu
l’invio di un’ambasciata
diretta all’oracolo dell’oasi di Siwa, nel deserto
libico, dove Alessandro
stesso, anni prima, era stato riconosciuto come figlio di Zeus-Ammon,
affinché
anche a Efestione fosse riconosciuto lo status divino
Questo
era molto più di un semplice
“riconoscimento” per il morto.
Secondo
i greci, solo le anime degli eroi o degli Dei erano
ammesse nell’Elysium, mentre ai comuni mortali era riservata
un’esistenza
“inferiore”, nell’Ade.
In
quale modo poteva l’anima deificata del figlio di Zeus-Ammon
essere riunita all’anima mortale di Efestione, figlio di
Amintore, se non
riconoscendo anche a lui uno status superiore?
A
ogni modo, a Efestione non fu concessa la divinità, ma fu
comunque permesso che venisse adorato come eroe divino, permettendogli
così,
l’accesso all’Elysium.
Il
funerale si svolse a Babilonia, e la pira funebre che
Alessandro fece costruire fu ricordata come il monumento funebre
più colossale
dell’antichità, nel quale spese una somma
esorbitante per l’epoca.
Il
suo comportamento, che egli ne fosse consapevole o meno,
divenne sempre più autodistruttivo; beveva
spropositatamente, e continuò a farlo
anche quando si ammalò, nove mesi dopo la morte di
Efestione, mentre si trovava
ancora a Babilonia.
Rifiutò
ostinatamente di essere visto da alcun medico e la
malattia lo consumò in dieci giorni, nonostante anni e anni
di campagne al
limite dell’immaginabile avessero dimostrato la tempra di cui
era fatto.
Quando
morì aveva trentatré anni.
2)
Alessandro si lasciò alle spalle un impero immenso e nessun
erede. Rossane, la sua prima moglie, era incinta, ma il bambino non era
ancora
nato quando il re morì.
Se
Efestione fosse sopravvissuto ad Alessandro è logico pensare
che sarebbe andata a lui la reggenza e la tutela del piccolo Alessandro
IV, fin
quando non fosse stato abbastanza grande per regnare.
Efestione
era Chiliarca – secondo in comando – di Alessandro,
e
pochi mesi prima della sua morte, a Susa, quando si erano tenuti i
matrimoni di
massa tra i generali macedoni e le donne persiane, Alessandro aveva
preso in
moglie Statira (la figlia del defunto re di Persia, Dario), e aveva
dato la
sorella Dripeti in sposa a Efestione.
In
questo modo, aveva detto, essi sarebbero potuti diventare
parenti (gesto ancora più significativo, se si pensa che
Efestione non aveva
più alcun consanguineo nell’esercito macedone) e i
loro figli avrebbero
condiviso lo stesso sangue e sarebbero stati ugualmente eredi
dell’impero,
rendendo quindi ufficiale l’eventuale successione di
Efestione alla reggenza, se
questo fosse stato necessario.
Purtroppo
non andò così, e alla morte di Alessandro si
scatenò una
lotta per la successione tra i generali che erano rimasti –
Tolomeo, Cratero, Perdicca,
Seleuco, Antigono, per menzionarne alcuni – lotta che si
protrasse per più di
vent’anni, frammentando l’immenso impero in regni
più piccoli e indebolendolo,
fino a renderlo facile preda della conquista romana che sarebbe
avvenuta nei
secoli successivi.
Statira
e Dripeti furono richiamate a Babilonia da Rossane prima
che potessero sapere che il Re era morto, e furono avvelenate dalla
stessa Regina
(ciò fa supporre che Statira potesse essere stata incinta,
al momento dell’assassinio).
In
seguito Rossane rimase sotto la protezione di Perdicca (che
prese la reggenza) e, alla morte di quest’ultimo, rimase in
Macedonia col piccolo
Alessandro IV, assieme a Olimpia, la madre di Alessandro, che era
riuscita a
prendere il potere con un atto di forza.
Sia
Olimpia che Rossane e, ovviamente, il figlio di Alessandro
ancora tredicenne, furono trucidati da Cassandro, che divenne
così, alla fine,
re di Macedonia.
3)
Una parola su Cassandro: l’odio reciproco tra lui e
Alessandro
è ben documentato; sebbene fosse stato tra i compagni che
avevano studiato a
Mieza con lui (nonché figlio di uno degli uomini
più fedeli a Filippo e, dopo,
ad Alessandro stesso), fu l’unico che Alessandro non
portò con sé in Asia.
Lo
rivide solo poco prima della sua morte, quando Cassandro si
recò a Babilonia per portare un’ambasciata di suo
padre Antipatro.
L’odio
riesplose feroce come non mai: Cassandro fu sorpreso da
Alessandro a ridere di un vecchio persiano che si prosternava, e il Re
gli
sbatté la testa contro il muro, alla presenza di tutti.
Anche
dopo molti anni dalla sua morte, e dopo che Cassandro aveva
massacrato tutta la sua famiglia estinguendo così il suo
sangue per sempre, si
dice che non riuscisse a non tremare davanti a una statua di Alessandro.
Il
personaggio di Nicanore non è inventato.
Cassandro
ebbe davvero un fratello che combatté per lui quando
(anni dopo la morte di Alessandro), Olimpia prese il potere in
Macedonia e si mise
quindi sulla sua strada.
Senza
dubbio Nicanore doveva averlo amato perché si fece trucidare
da Olimpia per la causa del fratello.
Cassandro
ordinò la lapidazione di Olimpia non appena le ebbe
messo le mani sopra, morte verso la quale la Regina andò
incontro con stoico
coraggio.
4)
Tolomeo fu indubbiamente uno dei “Diadochi”(i
successori) più
potenti; a lui andò la satrapia dell’Egitto, di
cui divenne faraone dopo la
morte del principe Alessandro IV, e sotto di lui (e la sua stirpe, i
“tolemaici”
appunto), la nazione prosperò, e Alessandria divenne il
centro più importante
di tutto il medio oriente antico, ospitando la famosa biblioteca per la
quale
ancora oggi la città è famosa.
La
linea di Tolomeo si estinse con l’ultima regina, Cleopatra,
quando l’Egitto divenne provincia romana, nel 30 a.c.
5)
Una piccola nota, infine, su altri due personaggi menzionati
nel racconto: Parmenione, generale in capo dell’esercito
macedone ai tempi di
Filippo e, per un certo periodo, anche in quello di Alessandro,
è riconosciuto
come uno dei geni militari del suo tempo.
La
sua fedeltà a Filippo è ben documentata,
così come i suoi
interventi chiave e decisivi nella sottomissione delle numerose
città greche
(nonché della Tracia e dell’Illyria), che fecero
della Macedonia la potenza del
tempo.
Filota,
suo figlio, fu uno dei compagni di Alessandro che lo
seguirono in Asia, nonché capo della cavalleria del suo
esercito, fin quando,
nel 330 a.c. fu trovato colpevole di una cospirazione contro la vita di
Alessandro, sebbene non sia mai stato provato se ne fosse stato
coinvolto in
prima persona o se, avendolo saputo da terzi, avesse omesso di dire
quello che
sapeva.
Filota
fu condannato a morte dall’assemblea macedone e
giustiziato, e sebbene la colpevolezza (o il coinvolgimento) del padre
Parmenione non sia mai stata provata, se ne rese necessaria
l’eliminazione.
Parmenione,
infatti, era rimasto indietro con una parte del suo
esercito e controllava le linee di rifornimento a ovest, dalle quali
dipendeva
l’esistenza stessa dell’esercito di Alessandro.
Colpevole
o no, Parmenione avrebbe voluto la sua faida, e aveva
dalla sua parte uomini che gli erano fedelissimi.
La
notte stessa in cui Filota fu giustiziato, tre dromedari
partirono diretti a ovest, con l’ordine di morte per il
vecchio generale.
Questo
episodio rimane senza dubbio uno dei più oscuri nella vita
di Alessandro (assieme all’uccisione di Clito), e lui stesso
ne portò il
rimorso per anni, senza farne mistero; non deve essere difficile
pensare che un
tempo Alessandro doveva avere molto amato Parmenione, forse la figura
più
simile a un padre che egli avesse mai avuto.
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