[I
primi tre capitoli di questo
racconto sono stati scritti a quattro mani con Ronin]
Nota
dell’autrice:
Questo racconto è ispirato a fatti e personaggi storici. La
ricostruzione degli
eventi e della cronologia, così come la caratterizzazione
dei personaggi, è
basata sulle relative fonti storiche accreditate. Nel delineare la
figura di
Alessandro di Macedonia e dei suoi contemporanei, mi sono rifatta ad
Arriano,
Plutarco e Curzio Rufo. Nel delineare il personaggio di Efestione ho
tenuto
conto di alcune teorie che gli attribuirebbero probabili origini
ateniesi,
anziché macedoni. La ricostruzione della sua vita
precedentemente all’incontro
con Alessandro è tuttavia di mia invenzione, dato che
Efestione appare nelle
fonti solo successivamente.
Il
presente racconto
si situa piuttosto in avanti nella cronologia alessandrina. Sulla via
del
ritorno dall’India, Alessandro si trova ad attaccare la
cittadella di una tribù
ribelle: i malli. Lì, a seguito di un gesto incosciente,
riceverà la ferita più
grave di tutta la sua vita: una freccia gli trapassa il polmone.
Efestione non
è con lui, avendolo preceduto con parte
dell’esercito, ed essendosi accampato
più a sud rispetto al luogo dell’incidente. Questo
racconto esplora le lunghe
ore in cui Alessandro lottò per la sua vita, e la silenziosa
attesa di
Efestione, quando tutto pareva perduto.
Per
l’occasione sono
stati ripristinati i nomi greci:
Alessandro:
Aleksandros
Efestione:
Hephaistion
Tolomeo:
Ptolemaios
Cratero:
Krateros
Liside:
Lysios
Nearco:
Nearkhos
Peucesta:
Peukestes
Perdicca:
Perdikkas
Leonnato:
Leonnatos
Filippo:
Philippos
Clito:
Kleitos
Il
viaggio
Arkhè.
Dolore
– aria che
gli scivola via dai polmoni.
Quando distingue
una figura sbiadita avvicinarglisi, la rabbia gli ferma il respiro in
gola
ancora per qualche momento, gli solleva il braccio e glielo fa
riabbassare con
forza – la luce scintilla per l’ultima volta sulla
lama che cala, mentre quella
figura di uomo si rapprende in se stessa e scompare.
D’improvviso
sente
la terra polverosa e calda sotto le ginocchia – poi
l’impressione di cadere
indietro, e non potrebbe dire per quanto tempo. Gli sembra di vedere
spacchi di
cielo attraverso le fronde dell’albero – poi
rovescia la testa di lato – e lì,
ombre grigie sono immobili attorno a lui, cominciano a muoversi
impazzite
mentre sfumano e scompaiono. Solo le loro voci restano.
Grida e clangore
nel buio – ondate di urla che fluttuano e si infrangono
contro la sua testa e
di nuovo si allontanano – di tanto in tanto resta solo il
ribollire di un
ansito faticoso, tagliato a metà dalle lame di un pauroso
silenzio.
Al di sopra delle
onde del mare buio una voce urla il suo nome – e per un
istante lui confonde
suoni e voci e si volta a cercare un volto che non trova. In un alone
improvviso di luce vede solo Peukestes chino su di lui, sente delle
mani
sollevarlo, finché attraverso i rami una freccia improvvisa
di sole lo trapassa
di nuovo e lo affonda in una penombra confusa di ombre rosse e calde
che gli si
confondono davanti.
Sente la propria
voce, ma non sa cosa sta dicendo.
Poi le ombre
scompaiono ancora, spazzate via da una nuova luce bruciante –
in un lampo
rivede lo scintillio feroce del sole sulle distese di gelo bianco e
bruciante
del Paropamiso, rivede le onde di oro rovente delle sabbie intorno al
punto
verde di Siwa – e per un istante i templi
dell’oracolo non gli sembrano altro
che granelli fra granelli, che rotolano nel vento e si disperdono
nell’aria e affondano
nella terra mentre qualche dio ride. Prova a sollevare un braccio per
coprirsi
il viso, ma non riesce a muoversi; stringe forte gli occhi, alza la
testa e li
riapre, per un attimo vede la mano di Peukestes stretta intorno al suo
polso, e
le sue dita striate di rosso. Così non può
prendere fiato.
La testa gli
ricade
di nuovo indietro. Sente ancora il suono incerto del suo respiro,
mescolato ai
mormorii confusi di Peukestes che urla su di lui e a quei fili rossi di
sangue
che si intrecciano sullo sfondo delle palpebre chiuse e si allargano in
una
macchia liquida e calda – per un momento è
convinto si tratti di onde arrivate
dall’oceano estremo per annegarlo e soffocargli il fiato in
petto, finché da
quella superficie scura riaffiora il viso di suo padre – la
cicatrice pallida
attraverso la palpebra destra serrata sull’orbita vuota, e
l’altro occhio,
incredulo e triste, spalancato su di lui, e la pupilla muta che gli
rimanda la
sua immagine – si rivede chino sul corpo tiepido, rivede le
larghe macchie rosse
che intridono la terra bianca della strada verso il teatro, riascolta
il suo
urlo, riascolta il silenzio rombante di sua madre, e
d’improvviso gli occhi di
lei si spalancano brillando, e tutto il resto (le onde e il volto
pallido di
Philippos e la terra che ha bevuto il sangue) affonda come un sasso
nell’abisso
di pece delle sue pupille e scompare nel balenio improvviso di una
lacrima
sottile e sola che rotola via veloce. Lui può solo guardare
i suoi occhi, grandi
e muti mentre cercano di bisbigliare parole segrete che solo una parte
lontana
di lui riesce a capire, verdi e freddi come le scaglie luccicanti di
due
serpenti che strisciano senza rumore e si arrotolano e spalancano
bocche
sibilanti e divorano le proprie code.
Poi, un guizzo
invisibile – e urla quando sente un dente affilato
affondargli d’improvviso nel
petto e mordere ancora. Spalanca di nuovo gli occhi e vede il viso
allucinato
di Peukestes che cerca di sorridere – e un altro morso, e un
altro viso. Ora
Aristoteles gli spalma qualcosa sul braccio ferito, e un ragazzo posa
la mano
sulla sua spalla e lo guarda, e sente la sua voce dolce e fresca che
gli parla
– “alogistos eis,
sei un incosciente,
perché ti butti sempre senza pensare?” –
gli sta dicendo – “devo sempre starti
dietro” – e lui vorrebbe rispondergli –
“io penso, Hephaistion” – ma il tempo
è
già cambiato con il respiro che ribolle di nuovo nel sangue
e brucia come il
vino rosso nelle fiamme che hanno consumato Persepolis. Si ferma a
guardare –
si ferma a guardare il fuoco che sale e sfida il cielo freddo di una
notte
urlante, ed Hephaistion gli è di nuovo vicino, lo prende per
un braccio e lo
scuote appena – “apoleipe,
vieni via,
lascia perdere, Alekos, lascia stare, vieni via” –
ma lui non si muove, continua
a fissare il fuoco come se finalmente lo riconoscesse. E le fiamme sono
sempre
più alte, e ora sono diventate silenziose, perché
non hanno più bisogno di
parole né di crepitii; si aggrappa ad Hephaistion e stringe
e non sa decidersi
a fare un passo indietro. E qualcuno lo chiama, da oltre il muro
silenzioso
delle fiamme – è una voce tremante, che striscia
incerta fino a lui – Kyrie.
Kyrie.
Vede Philotas,
con
gli spuntoni scheggiati e anneriti di sangue delle frecce macedoni
piantati in
petto, che lo saluta con un cenno del capo prima di ricominciare a far
rotolare
nella mano i dadi e gettarli, lentamente, sul terriccio melmoso di una
cella,
dove Kallisthenes è seduto con un foglio di papiro spiegato
sulle ginocchia,
impegnato a guardarlo con gli occhi concentrati e introvabili,
affondati nelle
orbite nere di un viso scheletrico.
Kyrie.
Parmenion lo
chiama
sorridendo sdentato e gli tende le braccia, e scopre il taglio profondo
nel
petto. E mentre lui resta fermo, raggelato, a guardare i lembi
slabbrati di
pelle, arriva alle sue spalle la voce stentata di Kleitos che biascica
qualcosa
su Philippos. Si preme le mani sulle orecchie per non ascoltare e si
volta
attorno per cercare Hephaistion, ma quando sente il suo braccio
chiuderglisi
sulle spalle, lo chiamano ancora.
Kyrie.
Qualcuno gli
solleva
la testa, e quando socchiude gli occhi vede su di sé le
maschere contorte e
violacee di persone che non crede di riconoscere. Qualcuno si china
appena e
ricomincia a parlare: “Kyrie, akoue
kyrie, tamein dei kai, Signore, ascolta Signore, bisogna
tagliare.” Sente
la sua stessa voce graffiargli la gola mentre sputa fuori le parole
– “fa’
quello che devi, sbrigati” – e in bocca il sapore
del sangue che scivola via
dalle sue labbra con un respiro e gli percorre la guancia.
Poi, il morso
più
profondo e velenoso di tutti.
Sente il proprio
urlo in un lampo di luce scura – rovescia la testa indietro a
torna a vedere il
buio di un cielo notturno, mentre le fiamme gli covano in petto e
stridono e lo
attraversano per allungarsi a divorare le stelle, finché non
rimane altro che
un infinito velo nero e gelido.
Ovunque guardi,
si
estende pianura deserta e spaccata dal sole nell’aria
polverosa.
Sotto i suoi
piedi
la terra scricchiola e granelli di polvere rossa si sollevano e
ondeggiano
pigri, urlano ammutoliti mentre fluttuano senza un senso e danzano
folli
(follli, folli, dove vorrebbero andare?) e ricadono lenti e sconfitti
–
sconfitta lenta, senza sangue – sconfitta silenziosa, senza
bagliori
d’armatura.
Pochi di quei
granelli non ricadono. Si arrampicano nell’aria, verso
l’alto e, quando
scompaiono, dei punti luminosi brillano nel cielo lontano oltre il velo
d’aria
bollente.
E la terra
scricchiola ancora mentre le mura di una città crollano alle
sue spalle. Ma lui
non si volta, e guarda i bagliori appuntiti oltre la polvere
– lui li vuole,
vuole bagliori d’armatura mentre la terra ondeggia e gli
chiede – “da dove
vieni?” Appoggia lo scudo ai suoi piedi, si toglie
l’elmo e ascolta le parole
antiche che arrivano correndo sul vento da ogni parte –
“chi sei?”
E lui si volta
attorno e urla – “quello che ti ha calpestato oltre
il confine.”
Pianta la spada a
terra – e la terra ruggisce e ondeggia, si spacca (taglio,
ferita, ferita
profonda, ferita veloce) – fragore di roccia che si infrange,
schiocchi di
lastre che si staccano – vento che sibila e ripete le sue
parole in ogni dove,
voragine che si spalanca.
Quando
l’eco del
grido si spegne, sente il sangue risalirgli la gola e uscirgli di bocca
– gli
manca il respiro d’improvviso mentre la terra ride appena.
Cade in ginocchio,
cerca di nuovo l’aria mentre la polvere gli si attacca al
palato, le mani si
tagliano sulle rocce lucide del bordo aspro della voragine e gli occhi
si
fissano su quel fondo lontano, oscurato da un’ombra
scintillante di bagliori
del colore del fuoco. E mentre guarda fisso, quasi dimentica di
respirare.
Sente una goccia di sangue scivolargli dalle labbra, la vede cadere
sempre più
veloce finché non riesce più a distinguerla; e
dopo qualche tempo, sul letto
d’ombra si alza un groviglio di fiamme che crepitano e
cominciano ad alzarsi.
Tende un braccio
sul vuoto – sente il calore del fuoco arrivare fino al palmo
pallido della sua
mano, sente che potrebbe cadere – ma qualcuno gli afferra una
spalla, e lo tira
indietro. “Vieni via, vieni con me. Sono qui.” La
voce di Hephaistion è ancora
fresca attraverso la polvere dell’aria, disperde il crepitio
rabbioso del fuoco
e lo scricchiolio della terra.
Si sente
d’improvviso stanco – sente la testa pesante sul
collo, non riesce a sollevare
il petto per prendere fiato, combatte per non chiudere gli occhi. Si
volta a
fatica per guardare Hephaistion – ma non lo trova.
Stringe gli occhi
e
li riapre – ma non c’è nessuno. Affonda
le mani nella polvere e si tira in
piedi.
Dietro di lui, la
pianura è oscurata d’improvviso da un ordinato
esercito di ombre schierate.
Guarda con gli
occhi che bruciano i loro contorni confusi e i loro visi informi, e
domanda a
bassa voce: “Dove sei?” Le ombre ondeggiano appena
e sibilano qualcosa di
incomprensibile. “Dove sei?” – si passa
una mano sul viso e la allontana
macchiata di sangue – “dove sei?”
– polvere bollente, macerie di una città
crollata – “dove sei?” – ombre
gelide, il suono irritante di un cavallo che si
avvicina da qualche parte – “dove sei?”
– il vuoto dietro di lui, ombra e
fuoco. “Dove sei?” – grida di nuovo, e
grida, e grida, finché non lo sente
rispondere.
“Qui.
Sono qui.”
Allora crolla a
terra senza sapere come.
Poi,
più niente.
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