NOTE
INTRODUTTIVE
GENERE
Introspettivo,
Romantico, Avventura, Drammatico, Guerra.
RATING
Generalmente Giallo e
Verde, a volte Arancione per le scene
più
drammatiche.
PERSONAGGI
I Black, i
Malfoy e i Lestrange; gli
Sherton e la Confraternita del Nord (i miei personaggi originali); Lord
Voldemort e i suoi
Mangiamorte; Dumbledore e gli studenti di Hogwarts; il
Ministero della Magia e il Primo Ordine della Fenice.
DESCRIZIONE
Ambientata nei primi
anni 70, SLYTHERIN'S BLOOD parla della prima
ascesa
di Lord Voldemort. Gli eventi sono narrati in prima persona da vari
personaggi, tra i quali Sirius, Regulus e Orion Black,
Rodolphus e Rabastan Lestrange, Severus Snape, James Potter e
Remus Lupin,
Albus Dumbledore e i componenti della famiglia Sherton.
NOTE
1. Nel 2013
ho cambiato il mio nickname EFP da Meissa_s
a Terre_del_Nord.
2.
Ringrazio tutti
coloro che leggeranno, commenteranno e/o metteranno
tra i preferiti questa fic e naturalmente coloro che l'hanno
già fatto...
3.
Potete trovare
info relative a That Love sulla mia pagina autore in
EFP e su FB dove esistono una
pagina e un
gruppo
dedicati alle mie storie.
DISCLAIMER
1. Quasi tutti i
personaggi di questa storia appartengono a J.K.
Rowling. La
Confraternita, le leggende delle Terre del Nord, la famiglia Sherton e
le loro vicende sono frutto della mia
fantasia.
2. Storia scritta per
divertimento, non a fini di lucro.
That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Habarcat - I.001
- La Visita
Sirius
Black
12, Grimmauld Place, Londra - ven. 18 settembre
1970
“Non osare mai
più parlare senza permesso! Non provare nemmeno a pensare
senza permesso! O giuro che ti strapperò via il cuore
insieme alla lingua! Non mi sono mai vergognata così tanto
in vita mia! Non riesco a credere che tu sia mio figlio, il mio
Sangue!”
Stavo riflettendo su quelle parole, simili a tante altre che negli
ultimi mesi mi avevano già riversato addosso mio padre e mia
madre, a turno, con lievi sfumature che, secondo i giorni, variavano
dal desolato, all’arrabbiato, al minaccioso, quando il
cerchio pallido del sole comparve da dietro il palazzo di fronte, pochi
istanti prima di perdersi nelle brume ormai autunnali. Chiusi gli occhi
e tirai un sospiro fondo: era finito un altro insulso giorno della mia
vita e, finalmente, la nebbia si sarebbe ripresa Londra per la notte.
Avrei voluto che si prendesse anche me.
“Non torni a
giocare?”
La voce di mio fratello mi strappò dal momento di
autocommiserazione: la preoccupazione rendeva cupi i suoi occhi grigi
mentre mi scrutavano, identici ai miei. Quello appena trascorso era
stato un tremendo pomeriggio di settembre: Regulus ed io eravamo in
camera nostra, all’ultimo piano della nostra abitazione, a
giocare a "Scacchi Magici" sdraiati sul tappeto persiano in fondo ai
nostri letti, in attesa di avere il permesso di scendere di sotto
almeno per la cena. Come al solito, io avevo perso tutte le partite,
anche quelle che Reg, per scuotermi, aveva cercato invano di farmi
vincere: quel gioco mi entusiasmava poco, ma era l’unica cosa
che potessimo fare quando eravamo entrambi relegati nella nostra
stanza, in punizione. In realtà, quel pomeriggio, avevo solo
sconvolto, senza volerlo, zia Druella, quando avevo chiesto notizie di
Meda, che non avevo visto per tutta l’estate e di cui, ormai
da mesi, non sentivo quasi più parlare. Mia madre ci aveva
spedito subito in camera nostra e, una volta partita la zia, era salita
per il castigo: una settimana confinato nella "camera di punizione" nel
sottotetto. Reg, innocente, mi avrebbe fatto compagnia per il resto di
quel pomeriggio, perché fosse chiaro, senza
possibilità di equivoci, quello che ci si aspettava da noi,
i figli di Walburga e Orion Black, ultimi rampolli ed eredi di una
delle più nobili e antiche casate, il cui stemma, impresso
ovunque in casa nostra, recitava “TOUJOURS PUR”:
cieca obbedienza ai precetti della famiglia, anche quelli impliciti,
anche quelli appena sussurrati. Secondo me, serviva anche ad
infervorare il clima di rivalità tra noi fratelli:
“Dividi et impera”.
Preda della noia, in quei tanti pomeriggi, perché ormai ce
n’erano stati parecchi di pomeriggi simili nella mia vita,
avevo memorizzato tutti i disegni ricamati sul tessuto del tappeto, e
tutti quelli che ornavano le coperte, avevo fatto a Reg tutti i
dispetti che conoscevo, per lo meno quelli che non lasciassero segni
compromettenti troppo evidenti, ma quel giorno non mi andava nemmeno di
minacciarlo, gli avevo solo intimato di starsene zitto e, in breve, non
mi era rimasto altro da fare che andare alla finestra per vedere se la
nebbia fosse già tornata a fagocitare il mondo. Ormai
osservavo il buio avanzare su volumi e superfici come una macchia
d’inchiostro svogliata, ammantando di uno strano colore
grigio topo, che subito virava all’antracite, tutto quello
che conoscevo. E, immediatamente dopo, quel colore carico si disperdeva
nell’indefinito dei vapori che dal fiume salivano a ghermire
la città, soffocandola nel suo abbraccio ovattato.
Il nostro palazzo si ergeva su una piazzetta lastricata, con un
cespuglioso e incolto rettangolo di verde al centro, chiuso da una
cancellata, circondata da case su tre lati, il quarto aperto sulla via
principale da cui era separata agli angoli estremi da quattro lampioni
accoppiati e, in mezzo, da quattro panchine e una fila di cinque alberi
spennacchiati. Una piazza brutta e anonima, almeno per me:
l’odiavo con tutto me stesso, soprattutto nei giorni umidi e
freddi, quando nelle ore centrali, il sole lattiginoso a stento
filtrava a lambirci l’anima, attraverso la nebbia spessa,
dando a Grimmauld Place un’aura di malsana Magia. La nostra
era una casa indistinguibile e non individuabile
dall’esterno, dotata da mio padre dei migliori Incanti Oscuri
destinati a proteggerla, così che risultasse impercettibile
e imperscrutabile a chiunque ci vivesse vicino, ma assolutamente
magnifica agli occhi di chi, Mago o Strega, sapesse come fare per
vederla. Per me, però, non era una casa; per quanto fosse
ricca, comoda e sontuosa, ai miei occhi era soltanto una prigione
soffocante.
Stavo per tornare ai miei Scacchi, depresso ed anche più
svogliato di prima, oltre che notevolmente affamato, quando la mia
attenzione fu attratta dal rapido spegnersi dei lampioni che avevo
visto accendersi negli ultimi minuti. Aguzzai lo sguardo e notai un
contorno fluido: apparve dal nulla, dalla nebbia che ormai aveva vinto
sulla luce e serrava di nuovo strade e palazzi come una morsa mortale,
riprendendo corporeità gradualmente, mentre attraversava la
fila d’alberi e la piazza, ed ora si muoveva con le fattezze
di un uomo, diretto verso casa nostra: era intabarrato in un mantello
scuro, con un cappuccio che gli nascondeva il volto; sembrava un sogno
o il parto della mia fantasia sollecitata, già a quei tempi,
da troppe letture gotiche. Quando sentii colpire il battente del
portone secondo il codice stabilito e Kreacher spegnere i lumi a gas e
correre con le sue gambette ossute all’ingresso, corsi a mia
volta verso la porta della nostra stanza, rianimato da improvvisa
curiosità, l’aprii piano, cercando di limitare
qualsiasi rumore e imponendo il silenzio a Reg, che aveva ricominciato
ad assediarmi con le sue lamentose domande.
“Cosa fai Sir? Ci puniranno
ancora di più se usciamo. Salteremo anche la cena!”
“Zitto e seguimi!”
Apparve il broncio sul suo bel faccino e, come immaginavo,
cercò di ribellarsi, ma quando vide che non mi lasciavo
convincere a essere ragionevole, la curiosità vinse sulla
paura, mi seguì nel buio della scalinata, ci affacciammo sul
pianerottolo e scivolammo come spettri fino al secondo piano;
lì ci appiattimmo a terra, con gli occhi a scrutare di
là della ringhiera in ferro battuto, in tempo per vedere
Kreacher chiudere la porta, riaccendere i lumi a gas e far strada
all’uomo. Lo sconosciuto si sfilò il cappuccio
mostrando una testa corvina, con i capelli lunghi un pò
oltre le spalle, legati in una coda fermata da un nastro di seta nera,
aveva il viso dall’incarnato leggermente abbronzato, dai
tratti decisi ma regolari, con il naso diritto e nobile, gli occhi
azzurri dal taglio felino, su cui balenavano inquieti riflessi color
dell’acciaio, una barba corta e ricamata e dei corposi baffi
curati: era Alshain Sherton, il miglior amico di nostro padre. Reg ed
io ci guardammo, sui nostri visi c’erano dei sorrisi radiosi:
delle tante persone che ci facevano visita, quella era
l’unica che garantisse a noi ragazzi una serata
all’insegna di racconti epici, fatti di leggende e avventura,
niente sermoni formali, niente lezioni di etichetta, niente
barbosissime ciance. Quando si tolse il mantello,
mostrò il corpo asciutto e atletico che ben ricordavo: aveva
una toga da mago verde scuro, attillata, lunga fino a metà
gambe, a coprirgli solo in parte i pantaloni di alta sartoria, col
colletto dal taglio orientale ricamato con inserti argentati, da cui
occhieggiava una camicia di seta color perla, portava stivali e guanti
di finissima pelle di Drago, neri; era, come suo solito, di
un’eleganza sobria e austera, senza eccessi, a testimoniare
la sua nobiltà di stirpe. Dall’angolo stretto
della mia visuale non si poteva capirne la statura, ma sapevo
già che era molto alto: quando si tolse i guanti, fui
attratto dall’anello d’argento a forma di due serpi
intrecciate, con uno smeraldo tra le bocche avvinte,
all’anulare della mano destra, e dal bastone da passeggio la
cui sommità d’argento era anch’essa a
forma di testa di serpente, con due smeraldi come occhi.
All’improvviso alzò il viso verso
l’alto, forse per guardarsi attorno o, più
probabilmente, perché si sentiva osservato; i nostri sguardi
s’incrociarono per un attimo ed io provai l’istinto
di ritirarmi timidamente, temendo più che altro
un’altra raffica di punizioni da parte di nostra madre, se si
fosse accorta della nostra presenza, ma lo sguardo dell’uomo
mi bloccò, sul suo viso era apparso il sorriso noto e,
fulmineo, strizzò l’occhio sinistro al nostro
indirizzo.
“Alshain!”
Prima la voce poi le fattezze di nostra madre irruppero nel mio campo
visivo, interrompendo il silenzioso colloquio di sguardi e
l’ospite, dopo un galante inchino con baciamano, scomparve
dietro alla padrona di casa, in una stanza del piano terra, facendo
attenzione a non tradirci. Reg ed io risalimmo senza far rumore e ci
chiudemmo in camera, entrambi eccitati per quell’apparizione:
era diverso tempo, troppo per i miei gusti, che Sherton non veniva a
trovarci, ed entrambi, annoiati dalla monotonia della nostra vita,
avevamo già iniziato a nutrire molte aspettative da quella
visita.
La prima volta che lo vidi, cinque anni prima, avevo fantasticato che
fosse un ricco mercante straniero cui nostro padre aveva commissionato
chissà quali esotiche rarità, pagandolo -sapevo
che ne sarebbe stato capace- cedendogli uno di noi due come schiavo, se
non fossimo stati all’altezza del nostro nome: in cuor mio,
già allora, avevo sperato di essere io il prescelto, pur di
fuggire da casa nostra. Allora pensavo che non potesse essere altro che
un uomo d’affari: di certo non era un parente stretto,
perché li conoscevamo tutti, tantomeno poteva essere un
amico, perché i miei genitori non ne avevano nessuno.
Rendermi conto della realtà mi aveva letteralmente
spiazzato. Stavamo immaginando quali novità si celassero
intorno alla ricomparsa di quell’uomo avventuroso, che spesso
si era fermato dopo cena solo per noi, per raccontarci fantastiche
storie di Draghi, Eroi, Battaglie e Cavalieri, seduti in cerchio
davanti al caminetto, quando Kreacher, il nostro Elfo domestico,
viscido e odioso come sempre, entrò ammonendoci di renderci
presentabili e di sbrigarci a scendere nel salotto, poiché
avevamo appena ricevuto una visita importante. Fu una delle rare volte
che eseguimmo un ordine di nostra madre di buon grado, quasi facendo a
gara, tra noi, per arrivare di sotto per primo, ma alla fine, per
evitare di rovinare tutto con una rissa e con un’altra
giornata di punizione, ci accordammo per scendere insieme. Pur sapendo
già che Sherton non badava troppo alle formalità,
per ordine di nostra madre ci vestimmo come due damerini, pettinammo i
capelli per bene all’indietro, camminammo tenendo un passo
cerimoniale, mentre scendevamo la cupa scalinata di casa nostra
“abbellita” da decine di quadri e ritratti di
famiglia, da “trofei” di dubbio gusto, da arazzi
arabescati e dal solito senso di claustrofobico soffocamento. Reg
avanti di un gradino ed io subito dietro.
Il salotto in cui ci introdusse Kreacher era quello usato per
accogliere e meravigliare gli estranei con la varietà e la
ricchezza degli arredi, e la nobiltà delle nostre origini,
avendo le pareti tutte ricoperte da arazzi in cui era stato tessuto il
nostro albero genealogico: di solito era usato anche nelle visite
ufficiali del "parentame" e, soprattutto, era lì che eravamo
convocati, mio fratello ed io, quando i nostri genitori dovevano
riprenderci e punirci, chiamando a testimonianza della nostra
inadeguatezza tutto il peso del nostro Sangue, della nostra Casata,
della nostra Stirpe. Quando entrammo, restai di stucco, mi
sembrò di immergermi nel quadro babbano, eredità
del trisavolo Phineas Black, che mia madre teneva nascosto in soffitta,
maledicendo l’avo diseredato per gli Incanti che impedivano
alla nostra famiglia di disfarsi di quell’orrore: ci
accolsero la stessa fissità statuaria dei personaggi e la
stessa innaturale atmosfera di cupo silenzio, come se in quei brevi
istanti, prima del nostro ingresso, fosse accaduto qualcosa di
spiacevole. Di solito la visita di Sherton era uno dei rari momenti in
cui casa nostra si animava di un po’ di sincera allegria, ma
quel giorno la Magia non gli era riuscita, perciò avanzai
nella stanza, preoccupato. C’era il caminetto acceso, a causa
dell’umidità della sera e della vetustà
della casa, e quattro bracieri ardevano ai lati della porta
d’ingresso, sulla tavola era stata sistemata una tovaglia
ricamata riccamente, ed era stato servito tè con dei
dolcetti e frutta secca e fresca in attesa della cena.
Mio padre, rientrato da poco da Nocturn Alley, indossava
un’elegante toga nera sopra alla camicia antracite dai ricami
argentati e ai pantaloni di alta sartoria, i suoi preziosi stivali di
pelle di Drago e i capelli leggermente brizzolati riavviati
all’indietro, a lasciar libero il viso dai nobili tratti, ed
ora stava seduto nell’angolo più lontano della
stanza, rispetto a chi entrava, sorseggiando il suo tè, con
il “Daily Prophet”, i cui titoli richiamavano
l’ultima prodezza di un Mago Oscuro e dei suoi seguaci,
abbandonata sul tavolino più vicino, a dimostrazione di come
la visita dell’amico avesse colto di sorpresa anche lui. Mia
madre, bellissima e maligna, indossava un vestito borgogna, pieno di
pizzi e ricami, lungo ed attillato, a fasciarne il corpo ancora
perfetto a quarantaquattro anni, una miriade dei suoi amati gioielli,
alcuni risalenti a sette secoli prima, e teneva i capelli raccolti in
un rigido chignon. La trovai appollaiata su una poltrona vicino al
caminetto, come un predatore che incombe sulla preda: sembrava che la
visita di Sherton li avesse sorpresi mentre si preparavano a
processarmi per l’odierna malefatta. Il nostro
ospite, infine, era vicino a lei, in piedi davanti alla finestra, con
una tazza in mano, e, assorto, guardava Londra dissolversi nella
nebbia; si voltò verso di noi, ci sorrise avvicinandosi e ci
abbracciò, scompigliandoci i capelli, sotto gli occhi
imbronciati di nostra madre.
“Come siete cresciuti!
È così bello rivedervi!”
Era straordinariamente alto, la bocca dalle labbra piene e ben
disegnate esaltate da un leggero pizzetto, portava un elaborato
tatuaggio sul collo, sotto l’orecchio sinistro, a forma di
serpe intrecciata ad una Runa, lo scorgevo tra la seta della camicia, e
disegni simili erano tatuati alla base di tutte le dita, come ricordai
quando ci strinse la mano, con la consueta presa energica e calorosa.
Alshain Sherton era il miglior amico, anzi l’unico vero amico
di nostro padre: benchè lontanamente imparentati, si erano
conosciuti solo a scuola e, tra loro, papà era quello
più grande d’età. Fino a pochi anni
prima aveva vissuto a Londra in un palazzo nobile, ma babbano, poco
lontano da casa nostra, a Essex Street, poi nel 1962, alla morte di suo
padre, insieme alla sua famiglia aveva lasciato l’Inghilterra
per trasferirsi a Herrengton Hill, la tenuta degli Sherton, nelle
Highlands scozzesi. Ogni tanto lui e sua moglie erano tornati a Londra,
per feste, inviti e ricorrenze, e per alcuni anni avevano tenuto
ricevimenti nella loro dimora di Amesbury, nello Wiltshire. Non avevo
mai visto la signora Sherton, di cui si diceva che fosse la
più bella strega d’Irlanda. Una sera, dopo che
Alshain ci aveva raccontato la storia di una bellissima dama, gli
chiesi se assomigliasse a sua moglie, e lui, con sguardo sognante, mi
rispose che la bellezza di Deidra Sherton andava al di là di
quanto la mente umana potesse immaginare. Ci aveva parlato anche dei
suoi figli, due ragazzi più grandi e una bambina della
nostra età, che non avevamo ancora mai avuto
l’occasione di conoscere. Negli ultimi due anni, poi, non
l’avevamo più visto, fino a quella sera: Sherton
aveva continuato ad invitare nostro padre a seguirlo nei suoi viaggi,
ed erano partiti spesso insieme, ma gli unici contatti con il resto
della nostra famiglia erano state lettere e regali, che non mancavano
mai per feste e compleanni, o quando entrava in possesso di qualcosa
che a suo avviso dovevamo avere.
"Il signor Sherton è venuto
per invitarvi a passare alcune settimane in Scozia la prossima estate,"
la voce di nostra madre ci investì acuta con una pesante
nota sarcastica "e visto che vostro padre ed io stiamo crescendo due
rammolliti indegni del nome della nostra Famiglia, abbiamo deciso di
accettare l’invito, sperando che vi faccia bene. Mi auguro
per voi che sappiate approfittare dell’opportunità
che gentilmente vi è stata offerta, o potete star certi che
ve la faremo pagare, in un modo che non dimenticherete mai
più!”
Guardai Reg attonito: se da un lato si apriva dinanzi a noi la
prospettiva di un’avventura straordinaria, con un uomo che
avrei cambiato con mio padre in qualsiasi momento, dall’altro
c’era la possibilità che tutto si trasformasse
nella peggiore tortura ideata dai nostri genitori. Nostra madre
evidentemente non era affatto contenta dell’invito, e se ci
fossimo dimostrati entusiasti avrebbe trovato il modo di farci sparire
il sorriso dalla faccia per mesi, prima e dopo la vacanza in Scozia.
“Si divertiranno, due ragazzi
della loro età sono sprecati in città,
è normale che qui si annoino. A Herrengton, invece, vivranno
con i miei figli, si troveranno bene e l’estate
passerà anche troppo in fretta."
Sherton tornò a guardarci: aveva una strana luce negli
occhi, come se fosse in grado di leggerci dentro, sentire le nostre
paure e trovare subito il modo di tranquillizzarci. Sapeva incantare
con le parole e con gli sguardi, aveva una voce calda, sensuale,
parlava con calma, tenendo un tono molto più basso di quello
dei miei, solo anni dopo ne avrei capito il motivo.
“L’importante
è che tornino Uomini,” la voce di nostro padre
alla fine uscì, squittendo, dalla penombra “Uomini
degni del mio Nome: a settembre Sirius andrà ad Hogwarts,
l’anno dopo toccherà a Regulus. Non posso certo
farmi rovinare la reputazione da queste due femminucce!”
Nostro padre aveva compiuto da poco quarantun anni, era arcigno e
maligno come mia madre, sembrava quasi che si alimentassero i lati
peggiori del carattere a vicenda. Era stato un bell’uomo,
così alto, con i capelli mossi e bruni, e quei profondi
occhi grigi che io e mio fratello avevamo ereditato, insieme al
portamento elegante e la bellezza dei lineamenti, ma la sua avvenenza
era presto sfiorita sotto l’attacco dei piaceri della tavola
e dei suoi unici interessi: il potere e il denaro. Aveva una vera
propensione alla meschinità, non sorrideva mai, non traeva
mai piacere da nulla ed era spesso manovrato da nostra madre e aizzato
da lei contro tutto e tutti. Assumeva una qualche scintilla di
umanità e di vita solo in presenza di Sherton. Quando si
alzò per raggiungere l’amico alla finestra, i suoi
difetti si centuplicarono, per l’impietosità del
confronto: nostro padre sembrava molto più vecchio di
Alshain, benché avesse appena due anni in più.
Presto l’attenzione nei nostri confronti scemò:
nostra madre ci lasciò per dare disposizioni per la cena,
più per non averci davanti agli occhi e poter sfogare sui
domestici la frustrazione di essere stata scavalcata dai due uomini
nelle decisioni relative all’estate, che non per il reale
desiderio di avere il nostro ospite ancora a lungo. Sherton, tra
l’altro, aveva già detto che non si sarebbe
trattenuto, quindi era inutile che recitasse la parte
dell’operosa padrona di casa. Liberi dalla presenza di nostra
madre, i due amici iniziarono a parlare con tono sereno e disteso della
vita a Londra e di affari: quel giorno Alshain aveva partecipato ad una
seduta del Wizengamot, al termine della quale avevano assolto, per
assenza di prove, un Mago di Manchester, accusato di aver partecipato
ad una "Caccia al Babbano". Nostro padre mostrò di non voler
parlare di certi argomenti con noi tra i piedi, così la
discussione scivolò rapidamente sul personale. Sherton aveva
intrapreso i lavori di sistemazione della sua vecchia casa di Essex
Street, riteneva che, visti i tempi, fosse ormai necessaria una sua
presenza più attiva a Londra, nel frattempo sarebbe
ritornato nello Wiltshire con i suoi familiari, almeno per
l’inverno, visto che presto sarebbe nato loro un altro
bambino.
“Essex Street è
troppo visibile e babbana! E’ questo che stai pensando, dico
bene Orion?”
Sherton rise, prendendo in giro nostro padre, scimmiottandone le
considerazioni tradizionaliste riguardo alle sue scelte spesso
anticonvenzionali: si trovavano a volte in disaccordo su alcuni
argomenti, ma tra loro l’amicizia e il rispetto erano
autentici e incondizionati.
“Sfotti, sfotti pure, se non
ti avessi visto prendere le Rune con i miei occhi, non riuscirei a
credere che sei davvero uno Sherton, razza d’un arrogante
bastardo scozzese! Spero che tu prenda almeno delle contromisure! Non
che mi preoccupi per te, sia chiaro, se anche ti capitasse qualcosa non
sarebbe una gran perdita, è evidente, però sono
in pensiero per i ragazzi e per Dei!”
Mio padre sorrise sprezzante all’occhiata benevola, eppure
ironica, del suo amico, che ora era diventato un ghigno, sottolineato
da un buffo sopracciglio alzato.
“E smettila con quelle
smorfie, sai quanto ti detesto quando imiti tuo
“cugino”!”
Alshain proruppe in un’alta risata, cristallina e spontanea,
papà, burbero come non mai, gli versò vero whisky
babbano, che teneva nascosto in casa solo per le visite
dell’amico, e Sherton parve apprezzare sorridendo, complice,
finendola con l’imitazione di Abraxas Malfoy e levando il
bicchiere a un muto brindisi. Mio padre lo guardò
intensamente, poi la sua espressione truce si distese e gli occhi
presero un calore che assumevano molto raramente.
“Allora questo
bambino… Ormai ci siamo quasi…”
“Già, mancano poche
settimane e... non era programmato, se è questo che ti stai
chiedendo.”
“Sì, sono passati
dieci anni, se volevate verificare le Profezie, ci avreste provato
prima, credo.”
“Non tengo conto delle
Profezie, lo sai, non ho mai voluto pensare a certe
cose…”
“Ora però, volente
o nolente, ci starai pensando, ammettilo: se fosse femmina, lo sai
meglio di me…”
Papà si interruppe e sorrise, levando il bicchiere
brindò ad alta voce a Deidra Sherton e al bambino, Alshain
lo seguì, ma il suo sguardo celava una certa tensione.
“Per qualsiasi cosa, fai conto
su di me, Alshain, tienilo sempre a mente.”
“Ti ringrazio, Orion, ne
approfitterò senza dubbio."
Mio padre cercò nuovamente di trattenere il suo amico, lo
invitò a mangiare con noi e a passare da noi la notte, ormai
era anche abbastanza tardi, scherzando sul fatto che casa nostra era
più ospitale di Malfoy Manor, ma Sherton, con un sospiro di
rassegnazione che sembrava dire "come darti torto", fece capire che non
poteva cedere; si abbracciarono e si baciarono le guance, poi si
rivolse a noi, accarezzandoci con lo sguardo.
"Ora devo proprio lasciarvi, mi spiace, Abraxas ha chiesto di me, oggi,
durante la riunione…”
“Tienimi aggiornato sul bambino, mi raccomando. E vedi di non
sparire di nuovo, per favore!”
Nostro padre gli fece l’occhietto e Alshain sorrise,
cancellando l’espressione tirata che gli era ricomparsa in
viso parlando di Malfoy. Osservandoli pensai che il tempo passato
insieme a Hogwarts doveva essere stato meraviglioso per quei due,
papà sembrava un altro quando era col suo amico, era
così diverso dal solito che avrei anche potuto amarlo; era
evidente che l’influenza nefasta di nostra madre non si
estendeva fino al profondo del suo animo, ma nascosta in qualche piega
del suo essere, c’era ancora quella parte di lui che aveva
meritato l’amicizia di un uomo ai miei occhi tanto
straordinario. Infine nostro padre diede un paio di colpi col bastone a
terra e Kreacher accorse, pronto a servire. Alshain si riavvolse nel
mantello, ci diede la mano con un sorriso che era una tacita promessa
di libertà, fece un asciutto inchino a nostra madre, che,
riemersa nella sala dell'Arazzo, sembrava ancora piuttosto astiosa e
impaziente che se ne andasse, e si ricoprì il capo col
cappuccio.
“A presto.”
“Sei sicuro di non voler usare
la Metropolvere?”
Fece appena un cenno di diniego con la testa.
“La detesto lo sai, poi
stasera c’è il clima adatto per una bella
passeggiata nei boschi!”
“Come se non ci stessi
mai!”
Rise osservando l’espressione attonita e orripilata di nostro
padre: era evidente che, se non ci fosse stata nostra madre e avesse
potuto parlare liberamente, papà gli avrebbe dato
apertamente del pazzo. Lo accompagnammo alla porta e spegnemmo le luci,
lui si fece avvolgere dalla nebbia che ormai spadroneggiava nella
piazza, riuscimmo a seguirlo con lo sguardo solo fino
all’ultimo gradino, quando ormai, complice la notte, aveva
dissolto completamente la sua figura in quel profilo liquido e
trasparente che era una delle abilità che più mi
affascinavano in lui. I lampioni erano ancora tutti spenti, poi di
colpo si riaccesero in rapida sequenza, ma la sua figura si era ormai
persa, forse confusa nel buio lattiginoso della notte o inghiottita nel
tronco di qualche albero. Una volta richiusa la porta, mentre mia madre
si avviava con Regulus di sotto, in sala da pranzo, mio padre mi prese
da parte: non mi urlò contro, né provò
a picchiarmi, non commentò nemmeno in modo sarcastico le mie
malefatte, si limitò a dire semplicemente che mi avrebbe
frustato le chiappe a sangue, se avessi di nuovo molestato i nostri
ospiti con le mie insolenze.
“Io non ho molestato nessuno!
Ho fatto quello che mi hai insegnato tu, ho soltanto cercato di essere
gentile chiedendo alla zia delle mie cugine! Non ho fatto niente di
male!”
Lo schiaffo arrivò rapido e potente, tanto che nemmeno finii
la frase. Lo guardai stupefatto.
“Te lo giuro, Sirius, te lo
ficcherò in quella testa vuota dovessi scuoiarti vivo! Tu
imparerai a comportarti da Black, fosse l’ultima cosa che
faccio! Sei mio figlio, per Salazar, hai il mio stesso Sangue, sei
l'Erede dei Black!”
Sconvolto, sfregandomi la guancia dolorante e in fiamme, mi avviai
mestamente alla "camera di punizione", senza uscirne per oltre una
settimana: quella sera finii a letto affamato e sconfitto, senza aver
capito nulla di quanto era successo. Sapevo solo che mio padre aveva
subito ristabilito l’ordine naturale delle cose, al 12 di
Grimmauld Place, era come se Sherton non fosse mai entrato in quella
casa. Eppure mi accorsi, e Regulus me ne diede conferma, che i nostri
genitori dopo quella visita non si rivolsero la parola per giorni:
l’argomento Sherton era davvero, a quanto pareva,
l’unico su cui mio padre non ammetteva le intromissioni di
mia madre.
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc,
hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui
migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP (maggio 2010).
Valeria
Scheda
Immagine: Non
sono al momento in grado di risalire alla fonte di questa immagine.
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