IL MAGO
Nella piccola bottega accorrevano bambini da
tutto il mondo per vedere il mago, che creava ombre e creava ore.
Creava ombre perché si guardasse tutti insieme (o uno per
uno) fin dove l’ombra finiva e poi, si sa, non
c’è ombra senza luce. Creava ore per quegli occhi
affamati di pace che lo fissavano senza tregua.
Lui aveva una lunga barba bianca, segno di saggezza e di veneranda
età: da quei peli mossi e splendenti come fili di seta
arricciata uscivano fuori – come per magia – posti
lontani ed inarrivabili. Ogni tanto qualche bambino rivedeva in quei
paesaggi la propria terra, e gli altri lo stavano ad ascoltare con la
bocca aperta mentre si calava nella dimensione del ricordo.
C’era più spazio per la meraviglia, lo stupore
muto, anziché per le parole. E questa era la grande potenza
del mago: riusciva a comunicare con le pure emozioni, senza alcun
bisogno di renderle immortali o con una poesia, o con un quadro, o con
una melodia. Poi, la notte, quando i bambini ripartivano per tornare a
casa dai loro genitori, lui continuava lo stesso a colorare le sue
stanze di sogni e visioni, come se il suo pubblico fosse ancora tutto
lì presente, innanzi a lui, con gli occhi sgranati.
La sua non era una realtà regalata, tanto meno imposta: la
sua era una via, da percorrere e ripercorrere avanti e indietro, o
stando fermi a guardarsi intorno. E infatti erano in tanti a restare
immobili per quel sentiero, con le bocche cucite ed i pensieri in
tasca, ad intricarsi fra di loro.
C’era chi fissava i ciottoli che rendevano pericolosa la
strada, e c’era chi guardava il cielo incurante dei propri
passi, guidati ciecamente dalla mano ferma del mago.
Il mago era un equilibrista, uno di quelli bravi, che passeggiano sul
filo come per una via del centro città. Mai
un’incertezza, mai uno sbandamento: e c’era chi lo
seguiva. Alcuni bambini lo seguivano avendo come punto di riferimento
la sua chioma canuta; altri lo inseguivano, ed erano i primi a cadere.
Altri ancora, invece, non lo hanno seguito mai.
L’importante era esserci, e saperlo lì di fronte,
con i suoi trucchi e le sue magie. Era solito anche impaurire i
bambini, quasi fino a farli morire; ma poi, con un semplice sorriso di
madreperla, li risollevava, e loro erano ancora più felici,
dato che la gioia non è una virtù ma una scoperta.
Spesso gli piaceva fingersi uno di loro, mescolandosi alla calca che
impazientemente lo attendeva senza vederlo mai arrivare.
Un giorno, quasi per dispetto, un bambino che non lo vedeva arrivare,
ma lo sapeva vicino, disse agli altri bambini che era morto. E non vi
dico le lacrime, i labbri morsi e sanguinanti, i ricordi più
vicini che si fecero più lontani. Ma era tutto un gioco: un
rapido volo senza ali, che tende ad una discesa veloce dopo
un’ascesa lenta ma lontana.
E così trascorsero i giorni, i mesi, gli anni e i sogni.
Nuovi bambini si sostituirono ai vecchi, nuove magie alle consolidate
apparizioni. E il mago? Lui sorrideva, anche se non lo dava sempre a
vedere, e si divertiva più dei bambini stessi, conscio del
fatto che la più grande magia di tutte è quella
che deve ancora avverarsi.
Quel mago era un Dio, ma non uno qualunque. Era quello che si pronuncia
in tanti modi differenti, e si scrive e si fa scritto. Era quello che
c’è anche se non si vede, sperando prima o poi di
poterlo vedere. Era l’ultimo sogno nel cassetto, quello che
non tiri fuori mai finché non sarà lui stesso ad
invitarti ad entrare. Era così: ombre ed ore. Le ombre che
ti sembra di non superare mai, e le ore che passano veloci e felici,
nascoste fra le ombre. E poi chissà…
|