Cronache del Sunflower

di Harriet
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Capitolo XXX

L'universo tra le mani

 

Just because everything's changing

Doesn't mean it's never been this way before

All you can do is try to know who your friends are

As you head off to the war

Pick a star on the dark horizon and follow her light

You'll come back when it's over

No need to say goodbye

(Regina Spektor, The Call)

 

I

 

Londra, primavera 2010

 

L'incidente al Sunflower fu archiviato in fretta da una polizia sconcertata e incerta sul modo migliore di agire. Era stato un episodio di follia collettiva, quello che aveva lasciato il teatro semidistrutto e il suo bigliettaio morto?

Della compagnia teatrale che era andata in scena quella sera, Astaroth, diretta da un certo Clyde Wendell, non se n'era saputo più niente. I nomi erano falsi. Persino Clyde Wendell era un'identità rubata: apparteneva a un attore scomparso nel nulla molti anni prima – troppi, perché il vero Wendell potesse essere l'appena trentenne Clyde che gli spettatori avevano intravisto nel teatro.

I presenti all'invasione del teatro avevano insistito nel parlare di mostri, ma già al terzo interrogatorio pareva che avessero cominciato ad ammettere che poteva trattarsi di altro. Maschere. Allucinazioni. Restava il fatto che un uomo era morto. Il detective capo dell'indagine si chiamava Timothy Mirrlees e aveva preso di punta la faccenda. Dopo due settimane però, anche spinto dai suoi capi che volevano togliersi di mezzo la cosa alla svelta, il detective aveva parlato con Joel e Angela, piuttosto turbato e dispiaciuto, facendo loro capire che sarebbe rimasta in sospeso un'accusa contro ignoti, e che più di ricercare i membri della compagnia teatrale non si poteva fare. Che era quello che loro volevano, anche se non potevano dirlo allo zelante poliziotto. Lo avevano ringraziato per l'impegno. Lo avevano rassicurato che comprendevano. Poi, quando se n'era andato, avevano tirato un sospiro di sollievo all'unisono.

Il teatro aveva bisogno di tempo e di silenzio per rimettersi in salute, e così anche loro.

Il Sunflower era assicurato e i lavori di riparazione cominciarono subito. Joel e Amir fecero una riunione con Emily e Hilda, il giorno prima dell'inizio: chiesero la loro collaborazione e molta pazienza per almeno un mese. In effetti le due si comportarono in modo ineccepibile.

La città sembrava aver capito che il suo giovane esorcista e il suo piccolo esercito avevano bisogno di un po' di respiro. C'erano stati lunghi giorni vuoti di eventi e di parole, in cui Joel, Amir e a volte anche gli altri si erano limitati a passare del tempo insieme, con l'unico scopo di avvertire il sollievo dei secondi che scorrevano e delle loro vite ancora tutte lì, mentre cercavano di venire a patti con il fatto che altre vite, invece, non facevano più parte di quel mondo.
C'era un'assenza in particolare che pesava su di loro. Se Angela gestiva la mancanza di Vivien con un mezzo sorriso e una giornata di mutismo ogni volta che il discorso verteva su di lei, Joel avrebbe voluto davvero trovare un modo sereno per congedare Vivien e tenersi un ricordo tutto sommato dolce con cui convivere. Ma la sensazione (la certezza, anzi) che la sua scomparsa avesse come sollevato un velo dalle loro vite, quella distruggeva i suoi deboli tentativi di risolvere la questione.
Angela aveva preso Vivien come una missione, ma Joel si rendeva conto che adesso, libera da quel rapporto, la sua amica sembrava respirare di nuovo. Vivien era quella parte della loro storia che conteneva una vena di follia, e per quanto la mancanza fosse forte, a volte Joel si domandava se non c'era da considerare un aspetto positivo, nell'assenza di quella persona complicata nelle loro esistenze.
Riuscì a parlarne ad Amir (che taceva e nascondeva quali fossero i suoi pensieri al riguardo) solo dopo più di un mese dalla battaglia del Sunflower, una sera di aprile leggera e delicata, una di quelle in cui la casa era particolarmente benevola (secondo Amir.)
- Non credo che ammettere che Vivien a volte facesse del male alle persone sia sbagliato.- Aveva risposto il ragazzo.
- Non è orribile, pensare che in fondo adesso siamo liberi?
- Non lo so. Credo sia umano. Ma non penso che per te Vivien sia solo un peso che non c'è più.
- No. Questo no. Però non credo di riuscire a riconciliarmi con la parte che lei ha giocato nelle nostre vite.
- Immagino che verrà col tempo. Ho conosciuto gente che ci ha messo secoli, a riconciliarsi con se stessa o con qualcun altro.- Poi aveva sorriso. - Però a noi ci vorrà molto meno, non ti preoccupare. E poi, alla fine, Vivien ci ha aiutati. Sarebbe potuta fuggire da qualche parte, lasciandoci da soli a combattere.
- Non l'avrebbe mai fatto!
Amir allora aveva sorriso di nuovo.
- Vedi? Ti stai già riconciliando.
Ed era vero.

 

La vita stava ricominciando ad avere dei contorni rassicuranti e sereni, quando la sera del 24 aprile squillò il telefono di Amir, durante la cena. Lui rispose, tranquillo, per zittirsi immediatamente, e nella sua espressione Joel lesse subito una disgrazia imminente.

- La mia mamma sta male.- Annunciò, smarrito. - Le hanno trovato un tumore al pancreas. Gliel'hanno diagnosticato qualche ora fa. Dicono che è una cosa gravissima e che vivrà ancora per un paio di mesi al massimo.

- Oh, Dio, Amir. Mi dispiace tanto.

Questa volta Joel ingoiò il suo imbarazzo verso l'affetto fisico e tenne stretto per diversi minuti il ragazzo che piangeva.

- Devo partire subito.

- Certo. Cerchiamo subito un volo. Posso offrirtelo io? Ti prego. Anzi, vuoi che venga con te?

- Joel, lo so che tu verresti, e io sarei sollevato se tu venissi con me. Ma non ti chiederei mai di lasciare casa tua per chissà quanto tempo. Per alcuni mesi, magari. Sarò più felice se saprò che sei qui, a fare quel che devi fare.

C'era un volo il giorno dopo a mezzogiorno. Amir ringraziò Joel dell'acquisto, promise mille volte che gli avrebbe reso i soldi, poi telefonò a sua sorella per annunciarle il suo arrivo prossimo e non disse più una parola per il resto della serata.

 

*

 

24 maggio 2010

 

Il telefono di Joel squillò tre o quattro volte, prima che lui se ne accorgesse. Si svegliò di soprassalto, cercò di accendere la luce e alla fine rispose al buio, chiedendosi che ora della notte fosse.

- Sono io.

- Amir?

- Sono in ospedale. La mia mamma è morta poco fa.

Il resto della telefonata fu praticamente un lungo silenzio, con il ragazzo che piangeva piano e Joel incapace di raccogliere una mezza parola decente di conforto. Prima di riattaccare, però, il ragazzo lo ringraziò comunque.

 

*

 

25 maggio 2010

 

- Se vuoi, posso prendere un volo e raggiungerti.

- No, Joel, davvero. Va bene così.

- Mi sento inutile. Io, e tutti gli altri. Vorremmo essere con te.

- Anch'io vorrei che foste con me, ma non è che si può avere sempre quello che si vuole, no? Io lo so, che siete preoccupati e che mi pensate. Mi basta. Tu stai bene? Dormi?

- Dormo benissimo. Ma guarda se devi essere tu, che stai in pensiero per me...

- Certo che sto in pensiero per te.

- Tu e la tua incapacità congenita di stare due minuti senza preoccuparti per qualcuno!

Il ragazzo fece una risata timida.

- Ci sentiamo presto, Joel. Prenditi cura del teatro e di tutti loro, mi raccomando.

- Non sono bravo come te, ma ti giuro che mi sto impegnando.

 

*

 

25 giugno 2010

 

- Quando pensi che tornerà?

- Non lo so. Non ne abbiamo parlato, Angela. A volte mi sembra persino che non abbia proprio voglia di parlare proprio, quando ci sentiamo. So che ha smesso quasi del tutto di farsi sentire anche con Aidan e Virginia.

- Sei preoccupato?

- Sto esagerando?

Angela gli versò altro whiskey e scosse la testa.

- No. Penso che abbia solo voglia di stare con la sua famiglia e vivere il lutto insieme a loro. Non credo che ce l'abbia con noi per qualche motivo.

- No, certo che no. Solo che...

- Ti eri abituato ad averlo qui?

- Mi ero abituato ad avere nella mia vita una presenza che smuoveva le cose. Qualcuno che mi stimolasse ad agire. Ho paura di ritornare a essere l'apatico di sempre, senza di lui.

- Io non credo che ritornerai a essere l'apatico di sempre. Sei cambiato tanto.

- Davvero?

Lei si prese qualche momento per bere, prima di lanciargli la bomba.

- E soprattutto, sembri felice.

- E tu? Sei felice con quel detective?

Tentò un azzardato cambio di argomento per sottrarsi all'introspezione, e la manovra riuscì. Fu così repentina che Angela non seppe difendersi, e lui sorrise, trionfante.

- Ah, Angela Night che arrossisce come un'adolescente. Questa ancora mi mancava. Io so tutto, mia cara.

- Chi te l'ha detto?- Si infiammò lei, imbarazzata come non l'aveva mai vista.

- Uno spettro che infesta la metro a Stratford. Vi ha visti. Mi ha riferito che il detective Timothy Mirrlees è alto, biondo, carino e sfoggia un signor vocabolario.

- Razza di spettro ficcanaso!

- Eh, poveretto, era una brava persona. Ora se n'è andato in pace. Mi ci sono volute otto sessioni di chiacchiere. Otto. Amir se lo sarebbe sbrigato in otto minuti, ma io non sono lui.

- Sciocco. Stai facendo un ottimo lavoro.

- E tu stai cambiando discorso. Com'è, questo detective?

- In gamba.

- Hai intenzione di dirgli che sei una maga?

- Per ora no.

- Dovrai farlo, prima o poi. Ha indagato sul Sunflower con tanta passione che se lo merita, no?

 

*

 

25 luglio 2010

 

- Gennaio 2012?- Joel sollevò gli occhi dal piatto e guardò sua nipote e il suo ragazzo, entrambi colti da un attacco di deliziose risatine adolescenziali.

- Potrebbe essere un'idea.- Disse Aidan. - Ci dai la tua benedizione?

- Vi posso dare anche una casa. Ho un appartamento in centro, lo usavo quando studiavo all'università. Non credo che mi servirà più. Mi sono stabilito definitivamente in questa casa.

- Cavolo...- Commentò Aidan, cacciandosi in bocca una forchettata di cous-cous. - Abbiamo l'idea e abbiamo la casa. Stai a vedere che mi tocca sposarti sul serio.

- Idiota.

- No, dai, è fico. Una casa. Da qui a marzo 2012 troverò un lavoro migliore che il bigliettaio del Sunflower.

- Cos'ha che non va, il lavoro di bigliettaio del mio teatro, scusa?

- No, niente, eh. È che... Insomma, lavoro da te. In casa di amici. Voglio trovare una cosa che mi piace. Se prima mi sbrigo a finire l'università, sì. Ma mi manca poco. Tipo, a settembre mi laureo. E poi non posso rimanere indietro, se voglio sposare una programmatrice seria. No, no, ti prego, Bennett, stai tranquilla: non sto per dire una di quelle cose maschiliste che tu odi riguardo l'uomo che non può avere un lavoro inferiore a quello di sua moglie!

- Idiota.- Ribadì Virginia. - Comunque per ora sono in prova. Vedremo.

- Hai spedito il tuo copione per quel concorso per giovani sceneggiatori indetto dalla BBC?- Domandò Joel, sentendosi molto soddisfatto con se stesso per aver ricordato che sua nipote intendeva partecipare a quell'evento. L'entusiasmo con cui Virginia annuì lo fece sentire ancora più soddisfatto. - Non si sa mai, no? Magari troverai uno sbocco anche lì.

- Ha scritto un copione sui mostri.- Borbottò Aidan. - Come se ne vedessimo pochi...

- Ho scritto su un argomento di cui sono esperta. Quanti altri possono dirlo?

 

*

 

9 agosto 2010

 

Allen Waymore si mise a piangere, quando riconobbe Joel Bennett. Poi si riprese, e lo tenne lì un'ora, a rimembrare l'epoca in cui Joel era un bambino piccolo con la testa grossa, tanto pigro da aver imparato a camminare a un anno e tre mesi.

- Di che cos'hai bisogno?- Gli domandò finalmente il medico.

- Di niente. Volevo salutarti. Sapevo che eri qui.

- Dov'è il ragazzo?

- È tornato in Pakistan.

- Cosa? Definitivamente?

- Non lo so. Ad aprile hanno diagnosticato un tumore a sua madre ed è partito. Lei è morta a maggio e lui ha deciso di rimanere per un periodo piuttosto lungo.

- Ma non ha ancora finito gli studi, giusto?

- No. Ha anche smesso di farsi sentire. L'ultima volta mi ha detto qualcosa che mi ha fatto pensare. Che gli sembra di essersi occupato poco di casa sua. Ho paura che si senta in colpa per essere venuto a studiare a Londra, inseguendo i suoi desideri, lasciandosi alle spalle un paese complesso.

- Beh, non è che il destino di tutti sia diventare politici o qualcosa del genere, e salvare il proprio paese. Un posto lo si salva in tanti modi.

- Lo credo anch'io. Lo credo perché me l'ha insegnato Amir. Ma lui è così: senza qualche pensiero con il quale scandagliarsi o farsi del male, non è contento.

Allen Waymore fece una piccola risata e annuì.

- Tu lo conosci meglio di me, ma anche a me ha dato quell'impressione.

- E io credo che non si faccia sentire perché le nostre voci gli ricordano la vita che aveva qui.

- Se decidesse di rimanere là, lo biasimeresti, Joel?

- Assolutamente no. E nemmeno se tornasse. Uno come lui... Il modo giusto di salvare il mondo lo trova di sicuro.

- Intanto mi sembra che abbia salvato te.

Joel tacque, inizialmente un po' seccato dall'onestà del vecchio. Poi però pensò che stava parlando con un medico fantasma che lo conosceva da quando era nato, e che era una situazione troppo bella e assurda per rovinarla con la stizza.

- Immagino di sì.

- Stai lavorando sulla tua testa, sì?

- Sì. Sono in terapia da qualche mese. Le cose stanno migliorando. Intanto dormo. E di giorno sono spesso felice, anche senza estraniarmi dalla realtà. Sai, mi sono persino trovato un lavoro. Diciassette anni di studio, e ora, alla veneranda età di trentotto anni comincio a lavorare.

- Non è mai troppo tardi. Poi ti appassioni alla professione e finisce che continui a farla anche da morto. Che lavoro è?

- Me l'ha trovato la sorella del fidanzato di Angela Night. Farò ripetizioni di scienze e matematica in una scuola serale per ragazzini problematici. Comincerò a settembre. No, non ridere. Lo so: pensare a me in un posto del genere è assurdo, ma...

- No, rido perché è un po' un adorabile cliché.

- Che cosa?

- Il solitario che si ritrova a lavorare con i ragazzini.

- Oh, Dio. È terribile e sdolcinato. Voglio morire adesso.

- No, ragazzo. Tu hai ancora molto tempo da vivere. Vivere bene. Sai, invece, chi può anche permettersi di morire adesso? Io.

Joel tese la mano istintivamente, come per acchiappare lo spettro del dottore prima che decidesse di sparire davvero. Waymore rise nel suo modo gentile e scosse la testa.

- Perché vuoi andare?- Chiese Joel, onestamente sconcertato.

- Perché stavo aspettando il giorno in cui ti avrei visto stare bene. Il giorno è arrivato. Mi sono guadagnato il mio riposo, no?

- Direi di sì. Scusa se ti ho fatto aspettare così tanto.

Gli rispose una risata che echeggiò a lungo sulle tombe e sull'erba.

 

 

II

 

Karachi, 21 novembre 2010

 

Sedevano sugli scalini dietro la tenda, quelli che portavano al piano di sopra, come da bambini. Lui e Shirin, sullo stesso gradino, pigiati l'uno contro l'altra, pronti a darsi noia e ad abbracciarsi un secondo dopo. Dalla finestra aperta della cucina proveniva un alito d'aria che smuoveva la tenda, le scale erano illuminate dal bell'azzurro del vetro di un lume a forma di fiore che pendeva proprio sulle loro teste, e non c'erano intorno a loro cose che facevano troppo male, dopo un bel po' di tempo.

- Ma tu quando hai intenzione di tornare a Londra?- Chiese Shirin all'improvviso, appoggiando la testa contro la spalla di suo fratello.

- Vuoi mandarmi via?

- Sciocco. Lo so che ti manca.

- Mi mancava anche Karachi, quando ero lì.

- Com'è giusto che sia. Ma tu sei fatto per quel progetto, sai. Fare il letterato a Londra. Chi altri, se non tu?

- Non ti sembra che io sia ingiusto verso tutti, se me ne scappo dietro un sogno a Londra?

- Tutti chi, esattamente? La nazione, la città, la famiglia?

Lui accennò vagamente di sì e lei scosse la testa.

- E l'ordine mondiale, il sistema solare, l'universo? Non è ingiusto verso di loro?

- Per favore, Shirin. Sono serio.

- Lo so. Tu sei sempre serio. Ascoltami bene: sono io, quella che vuole entrare in politica. Non tu. Dammi il tempo di finire di allattare il mostriciattolo e mi laureo. Poi vedrai. Il lavoro con il giornale sta andando benissimo.

- Hai una vita difficile.

- E bella. Non ti scordare bella. Ed è la mia. Non la devi vivere tu, perché hai paura di non fare abbastanza per il mondo.

- Ma se tu e Janaan e Nahla aveste bisogno di me...

- Siamo adulte, indipendenti, sposate e abbiamo un sacco di amici. A che ci servi tu, scusa?

- Avete dei bambini piccoli.

- Che cresceranno e andranno a trovare il loro zio a Londra.

- Non pensi che io sia scappato dalle mie responsabilità, vero?

- Magari le tue responsabilità erano a Londra.

 

Più tardi uscì di casa e cercò di perdersi in mezzo alla città, come aveva fatto tante volte. Finiva sempre per ritrovarsi, ma immaginare di essersi perso era comunque abbastanza gratificante.
Stava meditando di tornare a casa, quando si ritrovò nei presi della fermata per il tram che portava all'aeroporto. E lì, proprio dove l'aveva visto l'otto giugno 2007, ecco lo straniero che tre anni prima gli aveva indicato la strada, il giorno in cui era fuggito di casa dopo aver annunciato la sua partenza, ed era andato a comprare il biglietto dell'aereo.
Era lì, giovane e vecchio insieme, accompagnato da un respiro di vento caldo, un tintinnare di frammenti colorati di cose antiche e misteriose, l'eco di un canto tragico che sfocia in un inno per un futuro magnifico e desiderato.
Solo che ora non era più uno straniero, perché Amir ne aveva conosciuti altri, come lui. Gli sorrise, improvvisamente commosso.
- Io lo so, chi sei.- Disse, e l'altro rise, pieno di divertimento e lacrime e segreti.
- Anch'io. Sei uno che ha bisogno di un'indicazione per arrivare all'aeroporto.
- Già. Forse. Non lo so. Questa volta ho bisogno di un consiglio. Devo comprarlo, un biglietto aereo, oppure no?
- Ah, queste grandi domande. Dovresti conoscerci abbastanza da sapere che noi non diamo risposte. Semmai ve le facciamo trovare.
- Perché mi hai indicato la strada, tre anni fa? Eri così ansioso di mandarmi lontano da qui? Lontano da te, dalla mia città?
- Io ti ho solo indicato la strada. Tu saresti potuto arrivare all'aeroporto, cambiare idea e andartene.
Amir lo guardò negli occhi e si sentì a casa, e allo stesso tempo fu colto da una nostalgia lancinante di una piccola signora vestita di nebbia, dolce e inquietante.
- Aiutami a trovare questa risposta, allora.
- Tu sei uno di quelli che non avrà mai una casa soltanto. Questo non significa che tu non possa sentirti comunque a casa dappertutto, o che non possa aiutare altri a trovarne una.
- Se partissi, allora, ci rivedremmo?
- Per quelli come me te c'è del buon vino alla locanda alla fine del mondo. Quindi, se non altro, ci rivedremo lì di sicuro.
Amir rise di stupore.
- Conosci Chesterton?
- Conosco te, che stai preparando una tesi sulle locande. Sbaglio? Com'è, di preciso? Il tema della locanda...
- Nella letteratura britannica dalle origini a oggi.
- Era solo una citazione per vederti spalancare gli occhi dalla sorpresa, e dimostrarti che i miei figli li conosco tutti, ovunque abitino. So che ti rivedrò anche prima della fine del mondo, o della tua fine. Quando avrò bisogno di te. E ora posso regalarti un'altra citazione, se vuoi. I vostri figli non sono i vostri figli, diceva un poeta libanese. Non tutti i figli si tengono tra le braccia per sempre. Qualcuno parte, ed è un bene, perché semina pezzi della nostra storia in altre terre. Ti ho affidato un compito importante.

E su quella voce vitale se ne innestava un'altra, delicata e distante, come proveniente da un'altra stanza, una voce di donna che ripeteva un invito.

- Che fai, ancora qui?- Lo straniero, che non lo era più, indicò una direzione precisa. - La tua altra casa ti sta aspettando.
 

*

 

7 dicembre 2010

 

Non si aspettava che il telefono squillasse, né il nome sul display, ma in fondo avrebbe dovuto saperlo, e fu felice quando rispose.
- Pronto? Joel?
- Ciao, Amir. Sono a pranzo con Angela e i ragazzi. Perdonaci, ti stiamo chiamando a un orario improbabile? Abbiamo perso il conto del fuso orario. Volevamo farti gli auguri di buon compleanno.

Lo raggiunse il suono di una schermaglia scherzosa dall'altra parte. Amir rise, passando le dita sul biglietto aereo posato sul tavolo della cucina.

- Grazie. Sai, in realtà avrei dovuto chiamarvi io. Dì a tutti che torno. Il ventuno dicembre alle nove e mezzo arriverò a Heathrow.

- E me lo dici così?

- Scusa. Non sapevo bene come fare. Sono sparito. Non è che volessi sparire. Infatti sto tornando.

- Vengo a prenderti.

- Non importa, posso arrangiar...

- Non dire idiozie. Sappi che qui tutti hanno cominciato a brindare al tuo ritorno. Saranno ubriachi nel giro di mezz'ora e sarà tutta colpa tua.

Risate, voci stonate, schiamazzi, parole incomprensibili. Amir bevve tutto con l'avidità con cui si prende ciò di cui si ha bisogno.

 

Quella notte sognò due occhi verdi e vividi nell'oscurità, che lo stavano aspettando.

 

*

 

Londra, 14 dicembre 2010

 

La Cacciatrice di Storie arrotolò un'altra pagina di vita, scivolando tra le vie di Londra, nelle sue vesti nere vittoriane, riparata da un ombrello di trine. Salutò un refolo di vento, balzò su una carrozza inesistente e si fece portare fino al Sunflower, che sonnecchiava, rilassato. La lanterna verde era lì, al suo posto.

Più avanti si fermò a scambiare due parole con tre carcerati ridanciani, e assicurò loro che c'erano buone notizie nell'aria. Dinanzi alle porte benedette di Springmere si concesse solo uno sguardo affettuoso. Proseguì fino al negozio di giocattoli, che riposava protetto da una lanterna che dondolava sulla soglia.

Arrivò fino a Haven Crescent, per controllare l'ultima lanterna: era lì, dove sarebbe sempre dovuta essere. Perfetto. Era raro che l'universo fosse allineato così bene. Lei era giovane, ma aveva tutte le memorie dei suoi predecessori, quindi lo sapeva.

L'indomani magari sarebbe cambiato tutto: un vento straniero avrebbe scombinato le carte, portando un annuncio di incertezze e sofferenza, e forse l'inizio di una nuova guerra.

Stanotte no, e lei scrisse la fine del giorno nei suoi annali.

 

Fiamma, fiamma nella notte
brucia e non ti addormentare
Mostra a quelli senza rotte
un rifugio dove andare
Mostra a chi quaggiù s'è perso
una via per il riposo
Mostra ai vivi l'universo
vivo, grande e misterioso

 

*

 

Heathrow, 21 dicembre 2010

 

Joel lo stava aspettando al recupero bagagli. Fu colto da una felicità così totale di rivederlo che dimenticò il proprio borsone e andò subito ad abbracciarlo.

- Possiamo anche andare, ma forse hai qualcosa da prendere.

- Oh. Sì. Devo essere un po' stanco dal viaggio.

- Perdonabile. Guarda, vedo il tuo orribile borsone grigio marcio che passa proprio adesso sul nastro trasportatore. Vado a prendertelo.

- Non è orribile.- Protestò lui, debolmente, mentre Joel si faceva largo tra la gente e riemergeva un attimo dopo con il bagaglio di Amir.

- Andiamo?

- Fa molto freddo?

- Nevica. Ti ho portato la tua giacca. Immaginavo che non avresti avuto niente di pesante. Sei partito in aprile.

Joel gli porse l'indumento e Amir pensò di dirgli che era diventato straordinariamente responsabile, in quei mesi, ma poi evitò di farlo, perché avrebbe avuto modo di prenderlo in giro su quell'argomento con calma, una volta arrivati a casa. Si immerse nella giacca e non protestò quando Joel gli volle portare la borsa.

- Abbiamo una valanga di novità da raccontarti. E anche tu avrai un bel po' di cose da dire, immagino.

- Forse ho più voglia di ascoltare voi.

- Eh, che novità...

- Ma vi racconterò anche di me, va bene. Come va il tuo lavoro, Joel?

- Preferisco i più pazzi dei tuoi spettri ai più tranquilli dei miei ragazzini. A parte questo, va molto bene.

Risero, mentre uscivano nella notte ghiacciata, per ritrovarsi in mezzo a un turbinio di fiocchi di neve.

- Lo so che ho compiuto ventisei anni due settimane fa, ma... È sciocco che io mi senta esaltato per la neve?

- È perfettamente normale, per te. E adorabile.

- Se dici così, mi fai sentire sciocco.

- Non c'è bisogno di sentirsi sciocco. Ciò non toglie che sia adorabile lo stesso.

- Sei davvero di buon umore, stasera, Joel.

- Dai, andiamo. Puoi ammirare la neve anche dal finestrino della macchina. A proposito: al più presto ricominceremo le lezioni di guida.

- Anche se durante il nostro unico disastroso tentativo ho rotto un faro?

- Ti farò diventare il miglior autista di Londra.

Salirono in macchina e Joel cominciò a guidare piano, mentre i fiocchi bianchi non volevano smettere di scendere. Amir era stanco, ma la stanchezza non era abbastanza da non fargli sentire quanto fosse felice.

Poi notò sul cruscotto la busta con il suo nome.

- Quella cos'è?

- Una sorpresa.

- Ovvero?

- Un regalo di compleanno. Sai, una volta mi hai spiegato una complessa faccenda riguardo la polarità del Sunflower. Diventa buono o cattivo a seconda di uno specifico fattore. Per cui ho deciso che potevamo giocare d'anticipo sul teatro e assicurarci la sua amicizia per la prossima generazione.

- Cosa...

- Naturalmente quella è solo una prima bozza del documento. Dovremo andare dal notaio, tu, io e un paio di testimoni. Ma sarà molto semplice. E no, non esiste modo di farmi cambiare idea. Non mi guardare così. So che hai già capito cosa c'è lì dentro e so che sei intelligente, e quindi accetterai.
- Joel. Non so cosa dirti.
- Non è a me che devi rispondere, lo sai.
Amir aprì la busta e trovò i suoi sospetti confermati fin dal titolo.
- Joel. Sei sicuro che...
- Niente storie. Cosa rispondi?
- Sì.


Atto di donazione

In data __________, di fronte al sottoscritto notaio __________ e ai testimoni ___________ e __________, il signor Joel Matthew Bennett, nato a Londra il 7/09/1970, cede l'immobile al numero 13 in Riven Road, il teatro Sunflower, ad Amir Daryani, nato a Karachi il 7/12/1984, che accetta la donazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

***

 

Grazie, grazie, grazie di essere qui.

La storia è finita, finita come ho saputo che sarebbe finita fin dalla prima parola.

Ci sarebbe di sicuro tanto da raccontare – cosa cambierà al Sunflower adesso, come evolverà il legame atipico tra Amir e il signor Bennett, quali altri incontri significativi caratterizzeranno la storia di questo posto e di queste persone... Però questa storia finisce qui, com'è giusto che sia. Chissà, se il tempo e la vita me lo permettono, forse ci saranno altri frammenti di questa vicenda da raccontare.

Ringraziamenti e spiegazioni riguardo questa storia, se volete, li trovate qui.

Qui c'è una specie di capitolo speciale, secondo le regole della sfida di una storia costruita su 50 frasi, ciascuna con un prompt.


Ho scritto anche tre ulteriori epiloghi, anni dopo: per il momento li lascio fuori dalla storia ma ve li linko. Magari un giorno farò un restyling totale del racconto e li inserirò. Uno di essi svela l'evoluzione (che comunque penso fosse abbastanza allusiva) del legame tra Amir e Joel. Sono qui:
Notturno
La verità è nel sottopalco del Sunflower
Un messaggio dalle ombre

Esistono due canzoni, scritte apposta per questa storia: una potete ascoltarla qui, l'altra potete ascoltarla e scaricarla gratuitamente qui.

Ancora un grazie a ciascuno di voi.

Il teatro è sempre aperto e le storie non si fermano mai.

 

Harriet





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