Acquamarina

di Diomache
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ACQUAMARINA

 

 

1.Damaged

 

Ci dividono due misere zuppe.

Non hai fame, lo capisco, eppure continui a portarti il cucchiaio alla tua stupida piccola bocca rosa, apri, ingoi, di nuovo, meccanica, ma deglutisci sì o no?

Senza accorgermene (vivo in semi-incoscienza) sbatto il mio cucchiaio, furioso, sul tavolo. Sobbalzi.

Mi guardi.

I tuoi occhi indefiniti sembrano non vedermi.

Siamo due fantasmi. Sopravvissuti a qualcosa che non abbiamo scelto, sconfitti da una guerra che non c’apparteneva. Umiliati dai vincitori, adesso chi siamo? Che posto occupiamo?

Le nostre famiglie ci hanno distrutto, assetato di potere sin da piccoli, avvelenato con i loro sporchi ideali ci hanno fatti paladini di una causa loro, ma proprio loro adesso possono permettersi il lusso di ritirarsi nella vecchiaia, lontano dal mondo di giusti che li ha sconfitti, e soltanto noi affrontiamo l’infamia a cui ci hanno condannati.

L’ultima beffa è l’idea di questa specie di matrimonio combinato per salvare i nostri due casati, Malfoy e Greengrass, dalla bancarotta.

Mi disgustano.

Sei una stupida pedina anche tu, eppure ti odio.

Dovrei sentirti dalla mia parte ma non ce la faccio.

“Ho capito che non mangi, non c’è bisogno che attiri l’attenzione come un bambino.”

“La tua presenza mi dà la nausea.”

Mi colpisci con uno schiaffo in pieno viso e non me l’aspettavo. Mi riprendo e al volo faccio per vendicarmi ma mesi di insonnia e inappetenza mi hanno reso debole: con un gesto veloce mi sfuggi, svolazzando appena i lunghi capelli castani.

Il matrimonio è tra due mesi.

Ci conosciamo appena da tre e nessuno dei nostri incontri è andato meglio di questo.

Ci osserviamo per un’altra manciata di secondi, i tuoi occhi sono iniettati di sangue e un fuoco caldo ti brucia le guance. Inaspettatamente, urli.

Mi ritiro involontariamente mentre assisto a te che batti i piccoli pugni sul tavolo e trascini la tovaglia a terra e tutto s’infrange in cocci, urla e lacrime.

Io che sono stravolto da quello che vedo, non sembro neppure esistere per te.

È uno sfogo intimo, personale. È chiaro che io faccio parte della tua frustrazione ma in questo momento non ti sono affatto rilevante.

Alla fine ti calmi. Ansimi ancora però, appoggiando la testa al palmo della mano.

È in quel momento che i miei occhi si riempiono di lacrime, qualcosa nel tuo dolore mi strugge. Le trattengo tutte ma la mia commozione non ti sfugge.

Ci guardiamo, forse per la prima volta davvero.

Sto per parlare ma tu non ci stai; scosti rumorosamente la sedia e croccando le scarpe sui vetri del pavimento fai per andartene ma ti afferro velocemente per un polso, alzandomi in piedi.

Sembri quasi stupita, come se ti fossi accorta di me solo in quell’istante. “Che vuoi.”

“Non lo so.”

Mi sento tremendamente idiota.

“Ma non andare.”

Forse i tuoi occhi non sono grigi. Forse sono di uno strano verde.

“Va bene.” Inaspettatamente.  “Ma ti picchierò ancora, ti avverto.”

Non so se è il tuo tono, o il modo di arricciare il naso o la stanchezza di tanta serietà ma ho voglia di sorriderti. “Questa volta non riuscirai a sfuggirmi.”

Di nuovo il tuo sguardo sembra stringere le mie viscere in un pugno.

“è tutto perduto per me.”

Non credo di sbagliarmi nell’udirti dire, sottovoce. “Anche per me.”

Sì, anche per te, Astoria.

 

 

 





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