Benvenuti se nel rispetto
della legge russa.
Non devono imporre
le proprie abitudini
agli altri.
Diciamo solamente che
è
affare vostro,
è la vostra vita
privata,
ma qui nel Caucaso
dove viviamo
la cosa non è
accettata.
Non ci sono gay nella
nostra città.
(Anatoly Pakhomov,
sindaco di Sochi.
Sochi 2014, Olimpiadi)
Vincitrice del
premio Miglior San
Pietroburgo Drammatica al contest
"Le notti bianche di San
Pietroburgo" indetto da Primavere Rouge; banner di Yuko
Chan.
»~***~«
Quando Irina le
parlava di voler diventare giornalista, da grande, Marlena rideva. Era
un mestiere diverso dai soliti sogni adolescenziali, che vedevano
protagoniste cantanti, attrici, stiliste o modelle. Lei rideva ma non
la prendeva in giro; Marlena la trovava diversa dalle altre ragazze,
quella diversità piacevole che l’aveva da subito attratta a lei. Le
raccontava ciò che sarebbe diventata con quello stesso sguardo sicuro
di sé che l’aveva colpita la prima volta, alla mensa della scuola,
quando avevano dodici anni. Era una ragazzina nuova e doveva sentirsi
spaesata, insicura, forse impaurita, invece Irina camminava a testa
alta fra gli studenti e si faceva spazio per arrivare ai tavoli,
incurante che non conoscesse nessuno, che era sola. Marlena l’aveva
intravista e si era incantata; quello sguardo l’aveva rapita e ancora
prima di dare un nome a quella sensazione, già sapeva che quella
ragazzina dai boccoli biondi sarebbe stata la sua lei per sempre.
«Perché proprio
giornalista?», le domandò in un sorriso, nascondendo poco dopo
l’apparecchio ai denti.
«Non ridere», la
punzecchiò ad un braccio. «Perché vorrei dare voce alle storie di
tutti».
Marlena si allungò
verso le labbra di Irina e le portò via un bacio, per poi riprendere a
ridere, e lei la spintonò per l’imbarazzo, prima di afferrarla e
attirarla a sé, in un abbraccio. Amava la sua innocenza e
spensieratezza; non le dava fastidio quel suo modo di ridere di lei
poiché era rassicurante, era ciò che le infondeva speranza, quando si
accorgeva di aver lasciato i piedi ancorati a terra troppo a lungo.
Il venticinque gennaio
duemilatredici, San Pietroburgo approvò in prima lettura la legge
contro la propaganda gay:
non si potrà più parlare di omosessualità per
tutelare i minori che non devono venire a conoscenza della sua
esistenza. Furono messi al bando eventi e manifestazioni, vietati i
pride e
multe salatissime aspettavano chiunque si permetteva di
esprimere un’opinione al riguardo. Pochi la chiamarono una nuova caccia
alle streghe, gli attivisti sconfitti e trascinati via dalla polizia
con calci e pugni da un raduno, mentre la maggioranza dei cittadini
applaudiva soddisfatta della nuova legge che, secondo loro, avrebbe
permesso alla Russia di crescere e rafforzarsi, seppellendo i cittadini
lgbt nella paura.
Marlena fissò il
telegiornale con terrore; gli occhi le tremavano e riusciva a stento a
respirare, con il cuore in gola che le proibiva di ingoiare il pranzo.
Sua madre rise fiera, incurante di ciò che provava la sua figlia
sedicenne, a poco da lei. Si lasciò scappare qualche commento di
approvazione e la ragazza trattenne il fiato, sperando di non essere
notata, di non essere interpellata, di poter diventare invisibile.
Scappò appena riuscì.
Irina la tenne fra le
sue braccia minuti interminabili, talmente tanti da sembrare giorni. Si
nascosero dentro uno dei locali di un museo chiuso da mesi e si
accostarono a una finestra, sedendo davanti ad essa, sul davanzale.
Marlena tremava ma non per il freddo. L’altra sapeva di dover fare
qualcosa.
«Ehi, che ti prende?
Ti stai ammalando?», le domandò, tentando un sorriso. Marlena non
rispose e Irina pensò bene di strattonarla un po’, sperando di farla
rinsavire. «Devo riportati a casa?».
«No, ti prego! A casa
no», mugugnò, alzando poco dopo il viso rosso e umidiccio. «Hai visto
la tv? Il tg? Cosa facciamo?».
«Andiamo a correre»,
la fissò dritta negli occhi vitrei.
Marlena s’imbronciò e
ritornò a tuffarsi contro al suo petto, irritata. «Dicevo sul serio,
Ira».
«Anch’io», rispose,
passandole le mani sulla schiena, tentando di scaldarla e rassicurarla.
«La legge è passata, e allora? Vuoi rannicchiarti in un angolo ad
aspettare che tutto finisca? Oppure vuoi passare tanto bel tempo in
compagnia della tua ragazza?».
«Ma…», trattenne la
bocca a mezz’aria, allontanandosi un poco dall’altra. «Se lo
scoprono…».
«Non lo scoprono.
Nessuno», le sorrise, scuotendo lentamente la testa. «Questa è la
nostra città, Marla; non è solo degli omofobi. E mia e tua quanto loro.
E io voglio viverla. Non ci succederà niente, te lo prometto».
La sua sicurezza
catturò ancora una volta Marlena. Non poteva non crederle quando la
fissava in quel modo. Irina aveva il potere di calmarla e farla sentire
al sicuro.
»~***~«
Nevicava da giorni ormai e San
Pietroburgo era diventata una grossa e unica palla di neve. Piazza del
Palazzo si era trasformata in una lunga distesa bianca e molti erano i
bambini che si lanciavano in dure e sonore battaglie. L’aria che si
respirava era fredda non solo per via della neve e Marlena si manteneva
le mani con nervosismo, assicurandosi di tenerle a sicura distanza da
Irina, al suo fianco. Restarono lì immobili a fissare quell’assenza di
colore assoluta, fra il candore che cadeva dal cielo e lo stesso cielo,
bianco e chiuso. Sembrava di essere in un mondo a parte, catapultate
laggiù per errore, quasi da far sentire ad Irina odore di libertà.
Avevano già visto tantissime volte quel paesaggio, ma questa era la
prima volta che sembravano viverlo e respirarlo davvero.
Irina scrutò con la
coda dell’occhio l’altra ragazza e il suo sguardo cupo quanto il cielo
che le mozzò il fiato, infastidendola.
«Attenta!». Rapida,
lanciò una mano sotto il folto strato di neve e raccolse quanto bastava
per scagliarglielo contro, cogliendola del tutto di sorpresa.
Marlena cadde a terra
con stupore, lamentandosi del freddo. Tuttavia, non ci volle molto per
farla ripartire all’attacco: raccattò una grossa palla di neve in
fretta e Irina cominciò a correre, prima di vedersela gettata addosso,
imbrattandole il giubbotto.
«Cosa
facciamo se ci scoprono?».
«Non
ci scoprono».
«Ma
se succede… Cosa-».
«Fa’
finta che siamo grandi amiche».
«Io
non bacio le mie amiche».
«Non mi baciare».
Quella palla di neve
la centrò in testa e Irina cadde a terra fingendosi morta, inseguita da
una Marlena pregna di risate. Si fermò a poco da lei, in piedi. Gli
occhi chiusi, i capelli fuori posto che si stavano ribellando alla
cuffia, le labbra carnose e rosse, immobili, che aspettavano solo lei.
Il cuore di Marlena accelerò i battiti e si accostò alla ragazza,
inginocchiandosi. Le guance di Irina avevano l’aspetto delle mele rosse
appena colte e Marlena allungò una mano per toccarne una, passando il
dito indice, flebile. Vide la ragazza sussultare ma restare
perfettamente immobile. Cosa si aspettava, da lei? Un bacio? Sotto il
cielo chiaro? Sarebbe stato perfetto.
Marlena si accostò a
lei lentamente ma uno schiamazzo la fece sussultare e si guardò attorno
come una ladra, vergognandosi. Recuperò poca neve con una mano sola e
rialzandosi la gettò addosso ad Irina, sul giubbotto già bianco,
destandola. Le sorrise, facendo finta di niente e iniziando a correre.
«Adesso prendimi».
Le aveva detto di non
baciarla.
A dodici anni, era
stata sopraffatta da qualcosa di nuovo e soprattutto inaspettato:
l’amore. A dire il vero, molte ragazzine della sua età si vantavano di
aver già avuto parecchi ragazzi e chissà quali esperienze, ma Marlena
era troppo bambina per pensarci e per prendersi sul serio. Non aveva
ancora ben chiara la definizione di amore: i suoi genitori si erano
separati prima che lei nascesse e non aveva mai visto un loro abbraccio
o un loro bacio. Suo padre se ne andò e sua madre preferì restare
single. Alcuni degli uomini che portava a casa abitualmente erano già
sposati, ad ogni modo.
Riconobbe l’amore dai
genitori dei suoi compagni di scuola e si chiese com’era, di tanto in
tanto, sfiorare e toccare qualcuno in quel modo così intimo. Irina
cambiò ogni sua visione delle cose. Era una ragazza. S’innamorò di lei
senza sapere cosa fosse l’amore e la baciò senza sapere cosa fare,
scoprendo a quel punto, come se fosse una grande novità arrivata in
leggero ritardo, che non si trattava di un ragazzo. Non c’erano dubbi:
aveva i capelli alle spalle, si metteva il mascara, aveva un viso dolce
e angelico. Nessuno poteva scambiarla per un ragazzo ma finché non
toccò quelle labbra e si accorse che non c’era nulla di sbagliato, non
pensò di essersi cotta di una ragazzina. Scoprì che era diverso ma
straordinariamente uguale.
Faceva un po’ strano,
forse, pensarci. Tutte le sue amiche avevano un ragazzino che faceva
loro regali e ciarlavano di grande amore, mentre lei aspettava l’uscita
di scuola per vedere Irina e parlarle. Facevano il ritorno a casa
insieme e si salutavano con un bacio sulle labbra, fresco, a stampo,
quando nessuno le vedeva.
Si sentivano padrone
del mondo e ridevano, poiché erano felici nella loro innocenza, sicure
che mai nulla avrebbe cambiato ciò che provavano l’una per l’altra e la
loro vita. San Pietroburgo poteva apparire fredda ma era speciale e
ricca di colori, che le faceva sentire protette, a casa, parte di
tutto. Loro si sentivano vive e parte di qualcosa.
»~***~«
«Vuoi avere dei figli?».
Quella domanda spiazzò
Irina, che spalancò i suoi occhi. Marlena appariva incredibilmente
seria e non distolse lo sguardo da quello dell’altra che, al contrario,
si costrinse a guardare in basso, sporgendosi un poco sul ponte,
tentando di vedere il suo riflesso nello specchio d’acqua.
«Non-Non lo so»,
brontolò, colta alla sprovvista, «Non ci ho mai pensato».
Come poteva pensarci?
Irina aveva sempre saputo che le piacevano le ragazze e non i ragazzi.
Aveva accettato da così tanto tempo l’idea di non poterne avere, da non
essersi mai seriamente posta quella domanda. Sarebbe stata una buona
madre? Cosa avrebbe potuto insegnare ai suoi figli? Loro le avrebbero
voluto bene?
«Dovresti», rimbeccò
Marlena.
«Vuoi lasciarmi?», si
rivoltò a lei, sentendo la breve brezza del primo pomeriggio sulla
pelle.
«No», rise lei,
battendole una pacca su una spalla. «Sei seria? Su internet ho visto
che all’estero è possibile per le coppie di donne avere dei bambini. In
tanti paesi ne fanno a centinaia, anzi migliaia», raccontava con una
luce negli occhi, «Crescono con due mamme, vanno a scuola, hanno degli
amici, stanno bene! Sarebbe bello, no?».
Nonostante il vento
freddo sulla pelle, Irina sentì improvvisamente caldo. La sua faccia
andava in fiamme.
Si chiedeva come
avesse fatto ad estrapolare da internet quelle informazioni, ora che il
governo stava pensando di censurare tutte le notizie positive
riguardanti l’omosessualità, ma non riuscì a fargliene parola, deviando
l’argomento. «Non lo so. Tu vorresti dei bambini?». Sapeva già la
risposta a quella domanda e sorrise ancora prima di risentirla parlare:
il fervore con cui trattava l’argomento era sufficiente. Marlena voleva
dei bambini.
«Ti sei mai innamorata di un
maschio? Sì… di un ragazzo, insomma», le chiese Irina quel giorno,
mentre camminavano rapidamente verso casa. Il cielo di San Pietroburgo
si era fatto scuro all’improvviso e nessuna delle due famiglie voleva
che le loro figlie restassero fuori da sole, d’inverno. Anche se erano
appena le diciassette e un quarto, avevano solo tredici anni.
«No», Marlena scoppiò
in una fragorosa risata, sistemandosi i guanti alle dita per non far
trapelare l’imbarazzo, arrossendo appena.
«Quindi non sai com’è
baciarli», concluse l’altra, non trattenendo un’aria di superiorità.
«Tu l’hai fatto?».
«Sì, ero curiosa».
«E allora?».
«Troppa bava».
Scoppiarono a ridere
all’unisono e si presero per mano, prima di separarsi e prendere due
vie l’una l’opposta dell’altra. C’era gente, il saluto doveva essere
breve. Si scambiarono un’intensa occhiata e i guanti di Marlena
sfilarono via sotto quelli di Irina.
«Se…», Irina alzò un po’
troppo la voce e la ridimensionò a breve, portando un piede sopra un
ghirigoro della ringhiera del ponte, inspirando l’aria che trasportava
l’acqua del canale. «Se tu dovessi stare con un ragazzo…», prese una
breve pausa e Marlena si voltò a lei lentamente, «sarebbe più facile.
Se nessuno dei due è sterile, i figli arrivano. E non ci sarebbe
bisogno di andare all’estero».
L’altra corrugò lo
sguardo. Irina odiava farla arrabbiare ma voleva che pensasse a quella
possibilità. Marlena non era come lei: non si era mai dichiarata
lesbica allo specchio, non aveva baciato dei ragazzini solo per il
gusto di scoprire cosa sentissero le altre ragazzine della sua età, non
aveva litigato con suo fratello maggiore che voleva imporre la
lapidazione per i gay che, secondo lui, portavano malattie. Marlena si
era innamorata di lei per la prima volta ma erano poco più che bambine
ed era certa che poteva ancora scoprire di provare qualcosa per dei
ragazzi. E ora più che mai, dopo quella legge e come le cose stavano
progressivamente cambiando, doveva pensare di poter essere come tutte
le altre e sperare di vivere almeno un po’ serenamente.
«Non ci pensare
neanche». Marlena strinse i denti e si guardò avanti e indietro,
accostandosi un poco all’altra, per parlarle sottovoce. «Io amo te, va
bene?».
«Va bene ma…», prese
respiro ma le scappò mezza risata, infastidendo la sua ragazza. «Dico
in futuro, non ora», rise. «In futuro potresti anche amare un uomo con
la lunga barba, che ne so… Ma al momento, non ti condivido con nessuno,
tranquilla».
«Sei una scema», le
scagliò un piccolo pugno contro a un braccio e Irina rise ancora più
forte.
»~***~«
Nei mesi seguenti, un gruppo
che si proclamava contro la pedofilia, cominciò a postare su vk video
di giovani ragazzi gay torturati e umiliati, adescati con falsi
incontri su internet. Picchiati, rasati, li obbligavano a fare coming
out con la famiglia mentre li cospargevano di piscio il capo e li
spogliavano, fino a farli piangere e farli vergognare di essere stati
messi al mondo. Molti di quei ragazzi furono sbattuti fuori casa dalla
famiglia e altri si uccisero poiché non reggevano più le umiliazioni.
La polizia non fece nulla e i video cominciarono ad aumentare, ad
incrementare sempre più e a ricevere consensi, spopolando nel web
russo. Il capo del gruppo, Maxim Martsinkevich, era invitato nei talk
show a parlare delle sue azioni per ripulire la Russia dai gay. Il
tutto mentre, dall’altro lato del globo russo televisivo, l’attore Ivan
Okhlobystin, affermava di voler portare tutte le persone gay nei forni
crematori.
Marlena aveva smesso
di guardare e ascoltare la televisione. Aveva cominciato ad avvertire
paura ogni volta che sua madre l’accendeva e sentiva da lontano, nella
sua camera, le sigle dei tg. Irina le aveva detto che tutto sarebbe
andato bene ma non riusciva a dormire più, né a stare al fianco di sua
madre. Avrebbe voluto scappare dall’inferno ma non sapeva come: non
aveva un lavoro, stava ancora andando a scuola, non conosceva nessuno
fuori dalla Russia. San Pietroburgo era la sua casa ma aveva sempre più
paura di lei e di quello che la gente del luogo stava facendo, di
quello che pensavano. Usciva e si guardava attorno come se da un
momento all’altro qualcuno potesse rapirla e portarla via,
ucciderla. Se fuggire dalla sua vecchia casa non fosse stato l’unico
modo per
vedere Irina, si sarebbe data per malata per non dover più uscire dalla
sua stanzetta. Quelle quattro mura erano sporche e fredde, ma le
sembravano l’unico posto sicuro al mondo, oltre le braccia di Irina.
Aveva tolto parecchi
poster di cantanti donne per paura che sua madre potesse accorgersene,
e aveva fatto sparire anche le riviste, sotto al suo letto. Non
accedeva più nemmeno quella piccola televisione in bianco e nero nella
sua cameretta per il terrore di sentire un altro politico esternare la
sua repulsione per le persone omosessuali. Ovunque si voltasse riusciva
a percepire l’odio che il suo piccolo mondo provava per quelli come
lei.
»~***~«
«Hai saputo di Sergey
Petrov?».
Irina spostò la sua
schiena più indietro, tenendo meglio Marlena fra le sue braccia, dando
appena uno sguardo lontano oltre la finestra, al cielo ancora pallido
delle notti d’estate. «Sì», sospirò.
«Si è ucciso», prese
una pausa, tentando di deglutire con la forza, nella gola troppo secca.
«Aveva solo quattordici anni».
«Già».
L’avevano intravisto
parecchie volte a scuola, con quello sguardo ancora troppo
fanciullesco, corporatura esile, pallido. Tutti sapevano che era gay,
non ne aveva mai fatto un mistero. Aveva pochi amici ma buoni. La sua
famiglia non sapeva della sua omosessualità e quando quel video
cominciò a circolare in rete, nessuno di quegli amici lo accolse.
Fecero finta di non conoscerlo. Era diventato un disadattato. I
genitori volevano portarlo in cura e lui scappò di casa. Non lo
rividero più per giorni e, poi, il suo corpo senza vita, accanto alla
casa dei nonni.
«La chiamano legge a
tutela dei minori ma…», Marlena riprese a parlare trattenendo a stento
le lacrime, con il cuore in gola che come un macigno sperava di
ingoiare e buttarlo giù, «Lui aveva quattordici anni, era un minore.
Non era un assassino o un delinquente, era spaventato… E noi? Non
avevamo dodici anni quando ci siamo messe insieme? Non eravamo bambine?
Non siamo minori anche adesso? Dov’è la tutela dei minori?», chiuse gli
occhi e le lacrime scesero involontarie, ricordando il viso di Sergey
dall’altro lato del cortile della scuola, che sorrideva, giocando a
palle di neve con quelli che avrebbero dovuto aiutarlo, i suoi amici.
Irina doveva averla
sentita piangere perché aumentò la stretta e le baciò i capelli,
respirandole sopra. «È uno specchio per allodole, Marla», sussurrò. «Se
a loro interessava qualcosa dei minori si adoperavano per proteggerli e
trovare casa ai milioni di bambini negli orfanotrofi», prese respiro.
«Lo sapevi che stanno chiudendo le adozioni internazionali ai paesi che
approvano le nozze gay? Da anni le hanno chiuse agli Stati Uniti, anche
se per un motivo diverso… Cosa resta se tutti i paesi civili vengono
esclusi, la Nigeria?», si lasciò scappare mezza risata, malinconica.
«Da poco è successo alla Francia». Marlena si voltò a lei, incuriosita,
e Irina sorrise. «Sono stata adottata», spiegò poco dopo, «Non ricordo
molto dei miei primi anni lì, per fortuna… Ma ho letto su internet
testimonianze terribili e sono felice di essere stata presa».
«Non me lo avevi mai
detto…».
«Non lo ritenevo
importante. Io sono stata fortunata perché i miei genitori non potevano
più avere figli e mia madre voleva una bambina, o… chissà… Sempre meno
famiglie adottano, anzi», tirò su con il naso, allontanando nuovamente
il suo sguardo oltre ai vetri della finestra, appannati dai loro
respiri, verso gli schiamazzi dei ragazzi che facevano baldoria sotto
al vecchio museo.
Marlena non se lo
sarebbe mai aspettato. Tutti nella famiglia di Irina erano biondissimi
e giurava di intravedere una somiglianza fra lei e sua madre.
«I miei non vogliono
che si sappia», aggiunse poco dopo. «Me lo hanno fatto giurare. E,
comunque, quei pazzi del gruppo contro la pedofilia colpiscono solo
maschi. O almeno al momento».
Marlena si accovacciò
ancora fra le sua braccia. «Solitamente è così… I maschi vengono
picchiati», lasciò la frase in sospeso, lasciandole il tempo di
deglutire, «Le femmine stuprate».
Irina spalancò i suoi
occhi, mordendosi un labbro. Non era ancora successo a San Pietroburgo,
da che sapessero. Sapeva che in molti paesi, come in Africa, si usava
rapire le donne lesbiche e stuprarle, per guarirle dalla loro
condizione, si giustificavano. Spesso erano gruppi di uomini a fare
loro del male e se reagivano venivano picchiate ancora più forte, o
anche uccise. Il fatto che anche Marlena sapesse di queste pratiche le
raggelava il sangue.
«Andiamo a fare un
giro? Voglio vedere la fiera».
Irina la trascinò giù
dal davanzale della finestra e Marlena non azzardò più il discorso.
Era notte ma il cielo
era ancora bianco e tutto era in moto: la gente andava e veniva, le
biciclette venivano lasciate passare dai turisti e i banchetti erano
colorati e caldi, festosi. Solo nelle fiere la città pareva risplendere
orgogliosa delle sue luci e della sua atmosfera calda nel gelo come non
mai. Irina avrebbe voluto prenderla per mano e passeggiare, guardando
con curiosità la merce e parlare con i gentili venditori del tempo e
delle offerte, ma sapeva bene che non era loro concesso. Non osò
neppure provarci per non trasmettere quel pensiero a Marlena, perché le
avrebbe fatto male sapere di non poter essere come tutte le altre
coppiette che le circondavano.
Iniziarono a correre
per la strada alla ricerca di tutto ciò che destava il loro interesse,
provandosi cappelli e guanti dalla forma strana, parrucche, esaminando
giocattoli e odorando fiori finti profumati. Ridevano e si
rincorrevano, felici di essersi distratte, di essere se stesse almeno
un po’, di essere ancora ragazzine e di poter ridere senza essere
giudicate. Corsero lungo la strada finché non raggiunsero la chiesa del
salvatore sul Sangue Versato e si guardarono attorno meravigliate,
alzando lo sguardo: l’avevano vista tantissime volte ma era ancora
pregna di fascino e sembrava essere lì solo per accoglierle. San
Pietroburgo era lì per loro, ancora una volta.
«Ehi», una voce poco
distante prese il loro interesse ma si voltarono appena, continuando a
camminare. Un gruppo di ragazzi si era messo a seguirle ma non avevano
intenzione di fermarsi: li conoscevano, erano nella loro scuola, alcuni
forse avevano conosciuto Sergey. Ed erano ubriachi. «Ehi, cazzo», uno
di loro allungò un braccio e afferrò quello di Irina, bloccando le due.
«Vi stavamo chiamando. Noi», indicò il gruppo e se stesso e poi le due
ragazze, «ci conosciamo».
Marlena si guardò
attorno e poco dopo rispose per entrambe, mentre il ragazzo lasciava
andare il braccio della sua ragazza. «Forse… a scuola». Irina non
sembrava approvare l’avergli dato l’informazione.
«Giusto!», rise lui e
gli altri fecero altrettanto, alzando le loro bottiglie semivuote di
birra. «E vi chiamate…».
«Marl-», lei stava per
rispondere ancora, quando Irina la fermò con la voce sulla sua,
tirandola un po’ indietro.
«Lasciateci in pace».
«Eh, wow, non vi
abbiamo mica toccato», dichiarò un altro, con l’alito che sapeva di
alcol.
«Vogliamo solo uscire
con voi, possiamo?», chiese il primo, mostrando loro un breve inchino,
sbandando e faticando a reggersi in piedi. Le due si scambiarono una
breve occhiata e Irina poggiò una mano sulla schiena di Marlena,
decidendo di andarsene. Il gruppo cominciò ad innervosirsi,
lamentandosi, e il primo di loro le fermò ancora, ponendosi sui loro
passi. «Cazzo,
vogliamo solo divertirci, che male c’è? Vi abbiamo
trattato male, per caso?», alzò le braccia all’aria, ricevendo consensi
dagli amici, «Vi abbiamo dato delle troie? No, vogliamo solo fare una
passeggiata con voi e conoscerci un po’», scambiò sguardo col gruppo e
proseguì, grattandosi il naso, «Non siete mica lesbiche, vero?». Tutti
cominciarono a ridere e Marlena si ghiacciò, bloccandosi, iniziando a
respirare affannosamente.
«Mi piacciono le
lesbiche», affermò uno in fondo al gruppo, alzando la sua bottiglia al
cielo.
«Potremmo esserlo
anche solo per non essere abbordate da voi ubriaconi». La voce di Irina
era fredda, calcolata, scostante.
Il gruppo ripiegò il
rifiuto in risate e, quando il primo ragazzo stava per poggiarle una
mano addosso, un’altra mano lo fermò, riportandogliela indietro. Irina
e Marlena alzarono i loro sguardi impauriti e la prima sbuffò, vedendo
suo fratello.
«Desiderate qualcosa
da mia sorella e dalla sua amica, per caso?». Il suo volto appariva
irato ma controllato. Il gruppo se ne andò poco dopo, insoddisfatto, e
Irina trascinò via Marlena a breve, pur di non avere a che fare con il
ragazzo.
»~***~«
Aveva paura, non parlava,
continuava a tenersi le mani fra le braccia e guardava raramente
qualcuno in faccia. Aveva quasi tre anni ma non era una bimba vivace,
ci mise davvero molto ad ambientarsi nella sua nuova casa. Si chiamava
Inga, ma quella donna, che desiderava tanto essere chiamata mamma, le
cambiò nome in Irina come la sua amata nonna, scomparsa pochi mesi
prima. La piccola capì presto la sua prima lezione: se non rispondeva
al nome di Irina, quella donna la metteva in castigo. La famiglia
lasciò San Pietroburgo poco tempo dopo l’adozione, poiché nessuno
scoprisse che l’ultima arrivata in famiglia non aveva il loro stesso
sangue. I signori Kozlov erano autoritari e cedevano in carezze così
raramente che Irina ringraziò di non essere la sola bambina in casa:
Denis aveva sette anni, era un bambino allegro e disordinato, ma più di
tutto, un bravo fratello maggiore. Aveva imparato in fretta a saperci
fare: le dava il bacio della buonanotte, le insegnava a giocare, a non
nascondersi il pane nelle tasche perché nessuno glielo avrebbe portato
via, la spronava a parlare, a camminare come una signorina beneducata
come la voleva la loro mamma e a sapersi difendere. Denis era sempre al
suo fianco, come al suo primo giorno di scuola e quando provò a farsi
le sue prime amiche. Il tempo cambiò ogni cosa. Denis era più grande,
frequentava amicizie troppo diverse e a volte non tornava a casa per
giorni, poiché restava fuori con la sua band musicale. Voleva che anche
Irina imparasse a suonare la chitarra ma lei non ci sapeva fare e la
loro madre rise, all’idea. Secondo i loro genitori, Irina, come anche
Denis, erano destinati a diventare avvocati o magari magistrati. La
loro era una famiglia di generazione molto ricca e rispettata e
speravano che i loro figli potessero riprendere le loro radici. Si
trasferirono di nuovo a San Pietroburgo quando Irina aveva ormai già
compiuto dodici anni, in modo che entrambi i figli potessero crescere
nel pieno dell’arte e della cultura del loro stimato paese.
Irina credeva ancora
di avere il fratello al suo fianco e che ci sarebbe stato sempre, e
forse lo credeva anche Denis, finché non scoprirono di avere idee
diametralmente opposte su vari argomenti, come l’omosessualità. Denis
forse pensava che a sua sorella sarebbe passata, che avrebbe aperto gli
occhi alla sua visione del mondo e che non era nulla di grave, ma Irina
pianse notti intere quando seppe da un amico a scuola che un gruppo di
ragazzi picchiò un ragazzino solo perché creduto omosessuale, tra cui
c’era anche suo fratello. Sentì la terra tremarle sotto i piedi, tutte
quelle sue certezze che se ne andavano, che si sgretolavano come
un’unica grande bugia. Era felice di sapere di avere al suo fianco
Marlena, perché capì solo in quell’istante di essere nuovamente sola,
come quella bimba che aveva vissuto i suoi primi anni di vita chiusa
nelle mura di un orfanotrofio.
»~***~«
Il telefono squillò per
parecchio tempo prima di sentire quella voce. Irina teneva davanti il
suo tablet su una pagina internet che le segnava errore e la
televisione spenta. Sbuffava e si lamentava a bassa voce, allungando lo
sguardo e assicurandosi di avere la porta della stanza perfettamente
chiusa.
«Pronto? Irina
Kozlov?». La voce un po’ spenta e stanca dall’altro capo
del telefono
le parve come una scintilla in un mare di tenebra.
«Slava, sì, sono io,
che piacere risentirti», sospirò, tenendo a freno i batti del suo
cuore. «Temevo fosse successo qualcosa di brutto, non ha risposto
nessuno al numero del locale e... la pagina web è sparita? Non riesco a
trovarla».
L’altra voce ci mise
un po’ a rispondere. «Il
locale non c’è più, Irina», si concesse una
pausa, «Non hai letto
nel giornale? Dei balordi gli hanno dato fuoco
l’altra notte», inspirò, parve mantenere delle lacrime, «Abbiamo perso
tutto. Per fortuna era chiuso, non oso immaginare cosa sarebbe successo
se…».
Irina trattenne il
fiato e spalancò gli occhi. Ultimamente San Pietroburgo non era più
sicura per nessuno, ma lo era ancor meno per i locali da sempre aperti
alle coppie omosessuali e alle associazioni lgbt. Molte osterie e bar
avevano chiuso i battenti poco dopo l’approvazione della legge, per non
incorrere a guai, ma alcuni temerari si erano decisi a rischiare e a
lottare per i propri diritti, finendo per essere aggrediti, intimoriti,
e infine questo. Nonostante tutto, quel locale era una roccaforte di
San Pietroburgo e, ingenuamente, aveva sempre pensato che nessuno lo
avrebbe toccato.
«Irina?», la chiamò
per assicurarsi che stesse bene, non sentendo più la sua voce. «Hanno
ucciso il gatto di Vladimir, è stata colpa nostra, dovevamo fermarci e
chiuderlo per sempre, non solo per pochi giorni».
«No, no», inspirò,
tentando di trattenersi, passandosi una mano fra i capelli sciolti.
«No, avete fatto bene! Si deve continuare a lottare, Slava! Non possono
proibirci di esistere».
«La pagina web è
stata censurata dal governo. È quello che stanno facendo, Irina. E
stanno vincendo».
La porta della camera
si aprì di soppiatto e presa alla sprovvista cominciò a nascondere il
cellulare su una spalla e il tablet sulla pancia, anche se le dava solo
una pagina bianca. Denis entrò incurante della sua sorellina sul letto
e lasciò la porta aperta, indirizzandosi verso la lunga pila di cd
masterizzati su un mobile, sfogliando con interesse. La loro madre
stava camminando nell’andito quando si fermò alla porta aperta,
schifata dal disordine della stanza e intimando ai due di riordinare
immediatamente. Irina sentiva la voce di Slava che la cercava ma non
poteva rispondere con suo fratello nella sua stessa stanza. Lui prese
un cd e stava per dirigersi alla porta quando si bloccò e si voltò a
lei, con fare curioso.
«Un mio amico vuole
conoscerti», le disse e Irina deglutì. «Ha detto che sei carina e gli
ho detto che sei single. Ci stai? Te lo faccio conoscere uno di questi
giorni». Alla faccia impallidita di Irina, decise di non aspettare
risposta, «Gli dico che va bene! Non beve… o almeno non entro la
settimana. Ora puoi rispondere, eh», sforzò un sorriso e lasciò la
stanza, richiudendo la porta.
La voce di Slava
continuava a richiamare la sua attenzione ma Irina abbassò il capo,
sentendo il suo cuore battere rumorosamente.
«Slava?». Quando
riprese il telefono, la ragazza dall’altro capo tirò un sospiro di
sollievo e aspettò che continuasse. «Devo chiederti una cosa».
»~***~«
Era notte e lo sarebbe stata
per poco. Le notti bianche d’estate creavano una certa dipendenza alle
persone di San Pietroburgo, che distinguevano appena il giorno dalla
notte: il buio calava per poche ore e poi era già mattino. Marlena
aveva provato a chiamare Irina per tutta la notte ma il suo telefono
era spento, così decise di uscire dalla finestra, in barba al
coprifuoco imposto dalla madre. Sapeva dove poteva trovarla e passò per
Piazza del Palazzo come una ladra, sperando di non incrociare i padroni
delle voci rumorose che echeggiavano per la piazza scura. Imboccò una
via e poi una più piccola e stretta, accostandosi ad una finestra dal
vetro rotto. Sollevò una grondaia e facendosi aiutare da una mattonella
sporgente saltò per la finestra, rimettendo tutto apposto.
Aprì la porta
cigolante di quel salone vuoto con lentezza, osservando Irina sul
cornicione, illuminata dai raggi della Luna. Era immobile e con lo
sguardo rivolto alla finestra; solo quando udì la porta e si passò una
mano sul viso, si voltò, scoprendo gli occhi gonfi di lacrime.
Marlena si sentì
pugnalare. Mai come in quel momento capì, per la prima volta, come era
Irina ad aver disperatamente bisogno di lei. La ragazza tanto sicura di
sé si sentiva persa e sola senza le mani calde di Marlena sulle sue,
senza il suo sorriso e quella voglia di divertirsi e giocare, di
vivere.
Si accostò piano e
vide, in un angolo della camera impolverata, una lunga coperta distesa
a terra, a fianco dei plaid e uno zaino colmo.
«Cos’è successo?», le
domandò preoccupata, accostandosi ancora. «Ho provato a chiamarti tante
volte ma non rispondevi».
Irina balzò dal
cornicione e le stampò un bacio sulle labbra, per poi sorriderle. «Vuoi
sposarmi?».
«Eh?», spalancò i suoi
occhi e l’altra rise.
«Non ora, sciocca! Un
giorno! Un giorno non lontano! E potremo avere dei bambini», le prese
le mani nelle sue e gliele strinse forte, mentre Marlena allungava
ancora una volta lo sguardo allo zaino a terra. «Ho parlato con Slava
oggi e ha detto che mi fa sapere».
«Per cosa?».
«Ce ne andiamo»,
sorrise entusiasta, «Possiamo chiedere lo status di rifugiate a paesi
come gli Stati Uniti! O anche all’Italia, per dire, mi starebbe bene al
momento, tutto pur di non stare qui».
Marlena rise. «Non
credevo che in Italia ci fosse la legge sulle nozze gay».
«No infatti, ma
potrebbe arrivare prima lì che qui», rispose, «O magari andare lì e poi
spostarci».
«Siamo minorenni… E io
ancora devo finire la cura per l’apparecchio ai denti», sorrise con
malinconia, «Non ci faranno andare da nessuna parte senza
autorizzazione dei nostri genitori».
«Ecco perché ha detto
che mi fa sapere».
La baciò ancora e
Marlena l’abbracciò. «Mi piace», commentò, «Possiamo andare ovunque,
vedere il mondo».
«Sì e poi stabilirci
dove ci piace di più».
«Avremo una casa
grande».
«E dei cani».
«E bambini», gioì
Marlena. «E tu puoi fare la giornalista».
L’altra annuì. «Potrò
dare voce a tutti e non rischiare che vengano inascoltate! Tutti hanno
bisogno di avere qualcosa in cui credere».
«Adesso ho capito
perché vuoi fare la giornalista».
Marlena si fermò,
sorridendo, immobile, mentre Irina abbassava lo sguardo e lo posava su
quello della ragazza. Parve passare un’eternità con i loro occhi che si
incontravano, e si scoprivano ancora, e si amavano un po’ di più. Poi,
finalmente, Marlena spezzò il silenzio e si precipitò alle labbra di
Irina, circondandole il viso con entrambe le mani sulle guance rosse.
L’altra la prese fra le sue braccia e si unirono in un lungo bacio di
passione, prendendo respiro, per poi ritrovarsi subito.
San Pietroburgo era la
loro casa. Le aveva messe al mondo e accolte; le aveva fatte
incontrare, giocare, divertire e, infine, amare. Ma le avrebbe perse.
Un’altra città, dall’altra parte del mondo, le avrebbe prese come
figlie sue, come avevano stabilito. San Pietroburgo era diventata
ostile e la stessa città che le aveva fatte innamorare voleva che si
separassero.
Si gettarono piano
sulla coperta rossa e continuarono a baciarsi, scendendo per il collo,
per il seno, per le gambe nude.
L’amore
malato, innaturale e perverso non permetterebbe a due persone la
felicità.
Un bambino molestato da una figura adulta e d’autorità non ha colpe,
non ha malizia, e finisce per soffrire per il solo gusto dell’adulto
che vede in quel piccolo corpo una forma di desiderio. L’animale
seviziato dall’uomo non può essere consenziente, né approvare una
qualunque forma d’unione con i propri padroni. Un uomo omosessuale che
ama un altro uomo omosessuale è cosciente, non ha colpe se non quella
di essere se stesso, e di poter essere felice.
Le televisioni, i giornali e le radio locali bombardano tutti i giorni
le teste dei cittadini russi, affermando che le tre cose sono
comparabili. Perché se due uomini vogliono sposarsi non lo possono fare
anche un uomo e un animale domestico? Perché far donare il sangue e i
propri organi definiti sani alle persone omosessuali quando sono
chiaramente dei malati? Se si vieta la propaganda ai minori a nessuno
verrà più in mente di voler essere omosessuale e gli stessi
scompariranno! Solo le famiglie tradizionali composte da uomo e donna
possono e hanno dei figli che cresceranno con dei principi morali sani!
Grazie a Dio, i nazisti sterminavano i gay! Perché non richiudere gli
uomini e le donne omosessuali in dei recinti? Se non potranno
procreare, si estingueranno!
Marlena gettò i suoi vestiti e
quelli di Irina da un lato, spingendoli con i piedi. Le stringeva la
pelle senza spingere le unghie, mantenendo la morbidezza con i
polpastrelli. Le segnò la pelle lungo una scia di baci delicati e Irina
ansimava ad ogni tocco. Le mani viaggiavano lungo la pelle con
delicatezza, piano, scendendo lungo le natiche.
Le
persone omosessuali come sono nate? Lo sono diventate o lo sono sempre
state? Possono essere felici? Ed essere bravi genitori? Perché non
riescono ad essere etero? Perché non rinunciano a quella forma
sbagliata di amore e provano ad essere come tutti gli altri, così
possiamo lasciarli in pace? Allora sono loro che se le cercano! Non
vogliono essere eterosessuali? Perché? Il corpo della donna e dell’uomo
sono fatti per congiungersi, per stare insieme.
Irina placò un urlo e strinse
la coperta rossa, raggomitolandola rapidamente ad ogni impulso. La
lasciò, quando decise di raggiungere i capelli castani di Marlena sotto
il suo ombelico, attirandola a sé, in segno di piacere.
Milioni di bambini
vengono abbandonati a se stessi ogni anno in Russia: nelle strade,
nelle strutture, affidati ad altri che poi li danno via come se fossero
merce. Le coppie eterosessuali divorziano e si litigano i figli come
parte dell’arredamento. La grande maggioranza degli abusi su minori è
imputabile agli uomini adulti ed eterosessuali. Le preferite sono le
bambine. Molti bambini e moltissime donne finiscono nelle mani di
uomini violenti e vengono picchiati, torturati, uccisi. Le crudeltà
sono in continua crescita e il nucleo definito sacro da molti pastori,
la famiglia, va spesso in mille pezzi.
Tuttavia, per
il paese, il problema sono gli omosessuali.
Marlena strinse le cosce con
più forza e l’aiutò ad aprirle maggiormente, mentre Irina ansimava e
gemeva.
Non era la prima volta
ma sentirono che lo era di qualcos’altro, di essersi scoperte così
innamorate e così fragili. Così unite in quel cielo con poche stelle
che presto si sarebbe colorato d’arancio.
Tempo
fa, sulle nostre televisioni è andato in onda un documentario
intitolato “Sodom”. Ispirato a Sodoma e Gomorra della Bibbia, racconta
con immagini mirate per sensibilizzare il pubblico, come le persone
lesbiche, gay, bisessuali e transessuali vogliono ottenere
l’uguaglianza nei diritti per rendere schiavi gli eterosessuali,
destinando il mondo alla sua fine. Come si possa guarire dall’essere
peccatori. Cercando di spingerti ad odiare queste persone. E ad odiare
te stesso se sei come loro.
«Non vuoi più tornare a
casa?».
Irina inspirò,
stringendola più forte a sé, coprendola meglio con i plaid e con
giacche di tute tirate fuori dallo zaino. «Volevo stare qui per un
po’».
«Hai litigato di nuovo
con tuo fratello?».
«No, non so… più o
meno», si morsicò un labbro. «Vuole farmi conoscere un suo amico».
Marlena si voltò
immediatamente, spalancando i suoi occhi. «Cosa gli hai detto? Non ti
ha scoperto, vero?».
«Non gli ho detto
niente, è questo il punto. Secondo me sospetta qualcosa…», lasciò in
sospeso la frase, fissando uno dei muri ingialliti del vecchio museo.
«E forse dovrei dirglielo. Come giornalista, dovrei per prima cosa dare
voce a me stessa».
«No», quasi le urlò
addosso, «No, no, non farlo, non se ne parla». Le portò una mano su una
guancia arrossata e corrugò lo sguardo, continuando a ripeterle che non
voleva. Suo fratello era come tutti gli altri: non aveva mai fatto
mistero della sua omofobia, del suo odio ingiustificato, e temeva non
si sarebbe fermato neppure davanti a sua sorella e al suo amore per
lei.
«Non mi succederà
niente», le sorrise con quello stesso sguardo sicuro di sé che piaceva
tanto a Marlena. Tuttavia, ora che aveva rivelato un altro pezzo del
puzzle che era la sua ragazza, quello stesso sguardo le incuteva un po’
di timore, perché era un bluff. Un grande bluff.
«Non farlo, ti prego»,
sussurrò e Irina annuì, accostandosi per baciarla ancora.
«Lo prometto».
»~***~«
Il fondo statale per il cinema
rifiutò di contribuire al film sul gran compositore russo Tchaikovsky
perché gay. Pretendevano che la pellicola non affrontasse la vita
privata del compositore con l’assurda motivazione che, per loro, non
c’era alcuna prova della sua omosessualità, contraddicendo gli esperti.
Il regista non si diede per sconfitto e decise di rivolgersi altrove,
all’estero, per ottenere i fondi necessari e portare alla luce il suo
lavoro. Marlena s’imbronciò, leggendo la notizia in un trafiletto del
giornale locale, appena poggiato sul tavolo da sua madre, che svuotava
le buste della spesa. L’aiutò come sempre e sempre meno volentieri,
sentendola come uno sfondo fastidioso parlare dei vicini di casa e del
mercato. Ripensava al regista del film e come anche lui se ne sarebbe
andato per ottenere ciò che voleva. Lui un buon film, fedele al gran
compositore. Loro se ne sarebbero andate per vivere la loro vita al
meglio.
Allungava lo sguardo e
scrutava l’orologio alla parete della cucina, fremendo per ritornare da
Irina. Il giorno prima le era sembrata strana e, se la sua ragazza non
avesse avuto una giornata in famiglia, le sarebbe piaciuto raggiungerla
subito.
«Sai che i signori
Shashkoff temono di avere un figlio frocio?».
Marlena alzò un
sopracciglio ma mantenne lo sguardo basso, fingendo di leggere una
confezione di biscotti, e non disse una parola. Pensò a quanto fosse
bizzarro il continuo parlare di gay adesso che era passata la legge
contro la propaganda gay,
mentre prima quasi nessuno ne faceva parola.
«Il più grande»,
proseguì lei, «E in effetti… ha quello sguardo così femminile, quasi
una bambola…», azzardò una faccia schifata. «Gli uomini devono avere la
barba e devono essere rozzi. O che uomini sarebbero?».
Marlena fissò altrove,
senza risponderle. Si nascose fra i suoi pensieri.
«Se… Se a me dovesse succedere
qualcosa… Tu ti innamoreresti di un uomo?».
Marlena sbuffò,
seccata. «Ancora con questa storia? No», rispose con fermezza,
distanziandosi da lei, mentre passeggiavano lungo la strada del Canale
Griboedov. Straordinariamente non c’era tanta gente, passava qualche
macchina, ma era meglio non attirare l’attenzione. «Non ci siamo messe
d’accordo che avremo chiesto asilo politico ad un altro paese ancora da
definire?».
«Sì, sì, certo», si
fermò, osservandola ad occhi pieni, intensi, quasi colmi di un qualcosa
di indefinibile. «È che sai, vorrei essere sicura che tu potrai stare
bene anche senza di me, nel caso».
«Nel caso cosa? Quale
caso?».
Irina si fermò un
attimo, stringendosi un braccio. Stava facendo di nuovo arrabbiare
Marlena e le leggeva nello sguardo una disapprovazione che non le
piaceva. Ma lei non capiva.
«Marla, ti ho sempre
detto che sarebbe andato tutto bene, ricordi? Mentivo», sbottò,
abbassando un poco lo sguardo. «Non volevo che tu cambiassi, che ti
sentissi male per questa cosa… Vorrei che tu potessi avere la vita che
ti meriti».
«Con te», rispose
l’altra immediatamente, affrontandola, stringendo i pugni, «Con te è
dove voglio stare».
«Va bene».
«Va bene cosa?»,
sospirò, irrigidendo i denti. «Parlami», le ordinò, fredda.
Irina alzò lo sguardo
e si morse le labbra. «Va bene… ti amo», biascicò. «Ti amo. E non
voglio che tu soffra… perché San Pietroburgo… perché questo paese ci ha
tradito», cominciò a piangere e Marlena la fissò rapita, immobile.
«Slava probabilmente non sa come farci andare via di qui. Hanno paura.
Hanno picchiato un attivista, qualche giorno fa, e la polizia non è
intervenuta. Siamo in trappola, Marla. E l’ultima cosa che volevo era
che tu ti sentissi come… come mi sento io ora», abbassò lo sguardo.
Marlena si accostò a lei ma Irina tornò due passi indietro, per non
farsi toccare. Era giorno. Il sole pallido illuminava i loro visi,
attraverso i gran mosaici colorati delle fiere costruzioni di San
Pietroburgo, che per tanto tempo le aveva accolte e che ora le aveva
ingannate. «Non ci sarà un lieto fine per noi, qui», rialzò a poco lo
sguardo e Marlena s’imbronciò, «Sarà sempre questo quello che dobbiamo
fare: fingere di essere qualcun altro. Io avrò un ragazzo e tu avrai un
ragazzo. Come copertura. E di notte potremmo andarcene dalle nostre
case, quando i nostri mariti dormiranno, per stare insieme. Di notte.
Come facciamo ora. Prenderemo in giro entrambi: diremo che li amiamo,
avremo con loro dei figli e fingeremo una vita normale. Quando ci
incontreremo di giorno faremo finta di non conoscerci-», s’interruppe,
con la voce di Marlena, scoppiata in lacrime, sulla sua.
«Smettila! Basta! Non
voglio sentirti più!», gridò e qualche passante si fermò, incuriosito.
«Andrà così!», strillò
anche l’altra, poco prima di calmarsi, guardarsi attorno, e deglutire,
fissando un punto lontano.
Era tutto così
stretto. San Pietroburgo la stava schiacciando.
«Lo sai anche tu che
andrà così… E io non volevo farti soffrire ma questa… questa è la
verità, e se tu resterai sempre innamorata di me non avrai una vita
normale…», singhiozzò, «Sarà una vita di bugie, come l’avrò io».
San Pietroburgo la
stava uccidendo.
Lo schiaffo risuonò
nel vento e i passanti ripresero a camminare, ritornando alla loro
vita, dimenticandosi di due ragazzine che gridavano accanto al canale.
Era la prima volta, quella, che Marlena alzava le mani. Per un attimo
sentì l’eco dello schiaffo che sua madre diede a lei da bambina ed ebbe
paura delle sue azioni. Voleva andarsene, scappare da quella
situazione, da ciò che aveva commesso, quando Irina l’abbracciò di
colpo e lei ricambiò. Restarono parecchio tempo abbracciate, interrotte
solo dai clacson che ricordarono alle due dove si trovavano e che non
potevano permetterselo.
«Sono lesbica»,
sussurrò Marlena e Irina spalancò gli occhi. «Se anche con te non
dovesse funzionare, non mi metterei mai con un uomo dalla lunga barba»,
accennò una risata, «Avrò la vita che avrai tu. Comunque. E, in ogni
caso, amo te e amerò sempre te».
Il desiderio di
baciarla era salito fin sulle guance ma Irina si trattenne e si limitò
a sfiorarle una mano, calda.
«Ce ne andremo. Prima
o poi. E vivremo bene», le sorrise Marlena. «Ne sono sicura».
Sua madre la destò dai suoi
pensieri e le ricordò di mettere la pasta nei pensili giusti. Si
domandava cosa avrebbe fatto sua madre se avesse scoperto
l’orientamento sessuale della figlia. In fondo non le aveva mai portato
a casa un ragazzo e l’unica cotta che si ricordava di aver esibito era
quella per il suo cugino di secondo grado, quando avevano cinque anni
entrambi. Forse si sarebbe comportata come la maggior parte degli
abitanti di San Pietroburgo: sperando e pregando che cambiasse, o
prendendo un appuntamento con uno specialista. Come si sarebbero
probabilmente comportati i genitori di Irina se lo avessero scoperto.
Era importante mantenere se stesse chiuse in un cassetto, per quanto
potesse fare male.
»~***~«
Si addormentò, quella notte.
Sognò di Irina che l’aspettava al vecchio museo e si svegliò di
soprassalto, con una brutta sensazione sulla pelle. Si chiuse nel
giaccone e uscì dalla finestra della sua camera, per poi correre,
inoltrarsi per le strade ancora troppo trafficate. Arrivò al museo
quasi volando, sollevando la grondaia, ma quando si affacciò a quella
saletta scoprì la porta aperta e che al suo interno non c’era nessuno.
Si guardò attorno con preoccupazione e ansimò, notando quanto il suo
cuore stesse accelerando il battito, come se sapesse per primo che
stava per accadere qualcosa di importante. Il suo zaino era lì ma non
lei. Corse via. Voleva solo sapere che stava bene. Che c’era ancora.
Che, se non poteva uscire di casa, si sarebbero viste l’indomani come
sempre.
Si avvicinò più
lentamente alle strade lastricate poiché si scivolava. Osservò le tante
luci delle case accese nel buio e sperò di poterla vedere presto,
accanto ad una di loro. Si risistemò le cuffie pelose alle orecchie e
alzò lo sguardo al cielo, quando vide qualcosa brillare: stava
nevicando. Nevicava in una notte d’autunno.
Si accostò a casa di
Irina: non si era mai avvicinata tanto e si era limitata a vederla da
lontano, per timore di incontrare la sua famiglia e che avessero potuto
scoprire tutto solo dai loro sguardi. Ma adesso non le interessava. Le
luci erano accese, ma non vedeva la sua ombra attraverso le finestre e
pensò di urlare il suo nome, fermandosi, quando vide qualcuno di
familiare arrivare dal canale: Denis, il fratello di Irina. Era lui, ne
era certa. Si allontanò dalla casa e deglutì. Le mancava il fiato.
Denis la fissò per brevi attimi e a Marlena raggelò il sangue. Pensò di
restare ferma, di vederlo passare senza fare niente; non riusciva a
muoversi. I fiocchi bianchi cadevano lenti e lo sguardo di quel ragazzo
la trapassò da parte a parte. Marlena aveva paura. Aveva paura che avrebbe ucciso
anche lei.
Riprese a correre, con le
lacrime agli occhi ormai già fredde, inciampando e rialzandosi tra i
singhiozzi. Era tardi. Era troppo tardi. Si affacciò al ponte nuovo
delle scuderie e scacciò un urlo disperato, mantenendosi la bocca con
le mani. Si voltò, si inchinò, e si rivoltò ancora, camminando in
cerchio prima di riaffacciarsi e gridare con tutte le sue forze.
Irina era lì.
Non era vero. Non era
vero niente. Il suo sorriso sicuro di sé, le promesse, la loro casa dei
sogni con dei cani e bambini. Erano solo bugie. Erano bugie e lo
sapevano; nello stesso esatto momento in cui le loro labbra le avevano
pronunciate, già sapevano che erano bugie.
Non le avrebbe più
sfiorato le mani calde. Non l’avrebbe più baciata. Non sarebbe più
diventata una giornalista. Era lì. L’acqua gelida del canale la stava
trascinando via e lei non si muoveva.
Irina era lì.
Marlena si accostò ai
ghirigori della ringhiera fredda e bagnata e con la gola secca si
guardò ovunque, le mancava il respiro, gli occhi si facevano appannati,
non riusciva più a piangere né a gridare. Il vento sulla pelle era
diventato improvvisamente superfluo; aveva perso significato. Il mondo
intorno a sé non faceva più paura. San Pietroburgo era diventata
invisibile. I suoni e i colori erano svaniti. Silenzio. La gola in
fiamme e la testa esplodeva. Ma niente era forte come il dolore al
petto. Lacerante e cattivo, non esisteva nient’altro.
Stava per saltare
quando un uomo le proibì di farlo e la allontanò di peso, mentre un
altro chiamava la polizia.
Irina era lì e ci
sarebbe stata per sempre. Marlena le aveva promesso che se ne sarebbero
andate ma San Pietroburgo l’aveva ingannata, non l’avrebbe lasciata
andare. La città l’aveva tradita e, infine, uccisa.
»~***~«
I vicini di casa dissero che
si erano sentite parecchie urla e poi, d’improvviso, il silenzio.
Marlena trascorse la notte in caserma ma non seppe dire nulla alla
polizia: restò a fissare il vuoto per ore e, come sotto ipnosi, non
vide né sentì nulla di ciò che le stava intorno. I suoi occhi erano
vuoti. Stanchi, pesanti, gonfi, senza espressione. Il vuoto sembrava
l’unica cosa che le restava. Aveva appreso ciò che era successo, ma
l’immagine della sua lei
sotto al ponte non le lasciava respiro e sua
madre la trascinò via appena ne ebbe l’occasione. Ma Marlena non tornò
a casa quella notte. Scappò dalle braccia di sua madre e s’intrufolò al
vecchio museo, per piangere e gridare, da sola, accovacciata accanto
allo zaino che lei aveva lasciato.
Com’era potuto
accadere? Perché?
Lo stomaco si
contorceva, le budella sembravano voler schizzare via, sentiva gli
occhi bruciare e i pugni rossi e doloranti, per aver pestato contro al
muro. Sentiva che la colpa non era altri che sua. Irina doveva aver
fatto coming out quella notte e lei l’aveva lasciata sola. Le aveva
fatto promettere che non l’avrebbe fatto invece di restare al suo
fianco e incoraggiarla a diventare la futura giornalista che tanto
desiderava. Quello era il suo posto. E ora, quel suo futuro con lei era
svanito. La magia era finita. Era sola. Sola contro il mondo. Senza una
parte di sé.
«Ti
amo».
«Va
bene».
«Va
bene e basta?».
«Ti
amo anch’io».
Urlò ancora più forte,
reggendosi il petto. Non sopportava più quel dolore: era troppo. Voleva
farlo smettere. Voleva solo che smettesse. Svegliarsi e ricominciare
daccapo: correre da lei e ritrovarla in quella stanza che fissava la
Luna dalla finestra, sopra il cornicione, che con i boccoli biondi che
si illuminavano.
Pestò ancora un pugno
al muro e cadde dell’intonaco. Poggiò la testa e singhiozzò ancora.
Sapeva che Irina non
era una ragazza così sicura di sé e lei l’aveva lasciata sola. Si
domandava dove fosse adesso. Se la vedeva piangere e disperarsi e se si
rendeva conto di essere sola, anche lei.
Smise di lacrimare
poiché gli occhi non glielo permettevano più e li alzò alla finestra,
osservando i colori di San Pietroburgo che cominciavano a splendere
arricchendo i raggi del sole. Lei continuava ad esistere anche senza
Irina. Sembrava fiera del mattino, dimenticandosi tutto.
Sussurrò il suo nome e
pestò ancora, e ancora, e ancora, gettandosi a terra.
«Marla?».
«Guarda
che è dalla prima volta che ti ho vista che penso che tu sarai la mia
lei per sempre, perciò… vedi di fare altrettanto».
«Ci penserò su», rise.
Ritornò a casa il giorno dopo
con il vuoto ancora indosso.
Sua madre l’abbracciò
disperata, facendole notare che aveva denunciato la sua scomparsa,
senza capire che quella non era sua figlia, ma il suo spettro. Come un
fantoccio senza anima, le avevano privato tutto.
Si chiuse in camera e
cominciò a fissarsi allo specchio. Minuti senza fine per ritrovare se
stessa, senza esiti. Slacciò la giacchetta e la lasciò filare a terra.
Continuava a fissare i suoi occhi grandi e spaesati, mentre sbottonava
una perla color panna dopo l’altra della sua camicetta, lasciando che
anche quella le scivolasse addosso. Non era sufficiente. Sganciò il
cinto e scese i pantaloni, togliendosi le scarpe, tirando una e poi
l’altra con i talloni. Sussultò e con le mani fredde si sganciò il
reggiseno, gettando quello e infine gli slip.
Fissò ogni centimetro
della sua pelle pallida e nuda, senza toccarsi. Un verme fino e rosa.
Il suo corpo sentiva
la mancanza delle sue
mani, dei suoi
sguardi, delle sue
labbra.
Era vuoto e spoglio
senza di lei. Non si riconosceva.
Lentamente s’inchinò e
s’inginocchiò a terra, con un sussulto e un ultimo sguardo allo
specchio; si sdraiò sulle pianelle ghiacciate, deglutendo. Chiuse gli
occhi. Ora lo sentiva. Ora sentiva qualcosa.
Lei era viva.
»~***~«
«Vuoi raccontarmi cos’è
successo?».
Sua madre la
immobilizzò con lo sguardo, quando uscì dalla sua camera per prendere
una boccata d’aria.
Spiegarle il suo
sentirsi sconfitta, in colpa, la sua vergogna, la sua tachicardia e la
sua battaglia interiore tra il lasciarsi morire e il lottare per
vivere, senza raccontarle il suo unico grande amore, era impossibile.
Tutto era legato come in una ragnatela. Ogni piccolo, esile ma tenace
filo collegava ogni frammento del suo mondo. La morte di Irina ne aveva
strappato una parte e Marlena era combattuta sul rompere tutto o
tentare di reggere e ricostruire ciò che poteva. Quello che ne restava
era composto soprattutto da un’insieme di domande.
Chi
sono io? C’è un me
senza lei? Dov’è
lei in questo momento? Avrà paura? Perché non sono
stata al suo fianco quando potevo?
Marlena deglutì e si
passò la lingua sull’apparecchio scivoloso. Abbassò un poco lo sguardo.
«Non te l’hanno
detto?», domandò, con la voce senza vita, «È morta…».
«Certo che mi hanno
detto perché eri lì. Hai trovato tu il corpo», rispose. «La conoscevi,
vero?».
Non seppe cosa
rispondere. Quella ragazza rappresentava la parte più significativa
della sua vita: era l’unico pensiero che la faceva alzare al mattino,
per cui ridere e arrabbiarsi, per cui provare ancora gioia con quella
impietosa guerra in corso a San Pietroburgo. Quel suo sguardo sicuro di
sé dava moto ad ogni cosa.
«Era… mia amica»,
sussurrò, glaciale.
Sentì lo stomaco farle
male appena. Il dolore che provava per la sua scomparsa le impediva di
sentire il male di quelle parole bugiarde nel loro pieno potere.
«Ho capito», mormorò
la donna, alzando un braccio verso la cucina. «Adesso però vieni a
mangiare. Devi mangiare».
»~***~«
La figura di Irina sott’acqua
la tormentò nei sogni più di ogni altra cosa. Sperava di rivederla
sorridere e dirle che l’amava, ma lo sguardo assente sotto uno strato
d’acqua le si era improntato addosso. Nemmeno piangere quando si
risvegliava dall’incubo aveva più senso.
Marlena testimoniò
contro Denis Kozlov ma la corte rimandò a giudizio. Successivamente, fu
prosciolto per assenza di prove. La scientifica poté dimostrare come il
ventunenne aveva spostato il corpo e lo aveva nel canale, ma non
l’omicidio.
L’arma del delitto non fu mai trovata.
I processi portarono a
galla più del dovuto, scavando nella vita di Irina come neppure Marlena
era mai riuscita a fare: l’adozione, i segreti della famiglia e la
relazione tra le due furono di dominio pubblico molto presto. Marlena
non riuscì a mentire davanti a tutta la corte il suo rapporto con la
ragazza e sua madre la cacciò di casa senza pensarci. Slava e gli altri
ragazzi del locale la aiutarono a trovare una sistemazione momentanea e
Marlena imparò a trascinarsi per le strade di San Pietroburgo senza una
guida. Sentì Irina morire due volte quando la legge dichiarò il caso
irrisolto senza nessun colpevole, arrivando perfino a formulare
l’ipotesi di suicidio. Ma Irina non l’avrebbe mai fatto, urlava
Marlena. Non c’era giustizia e rispetto per i vivi come non c’era per i
morti.
»~***~«
«Non sono gay».
La donna la fissava
con sdegno, rimprovero, quasi odio. Se ne stava sulla porta di casa e
la scrutava da capo a piedi come se non riconoscesse la ragazza che
aveva davanti, perché lei continuava a sostenere di non aver cresciuto
sua figlia con idee facenti parte di stili di vita alternativi.
Marlena la guardava a
sua volta senza espressione. Lasciava che il disgusto che provava per
quella donna le scivolasse addosso. Lei le serviva per vivere, ed era
tutto. Indossò quelle bugie come un maglione fastidioso ma necessario.
Irina aveva ragione.
«Era stata lei,
vero?», boccheggiò, «Ti ha sedotta e costretta a stare alla sua mercé.
Lo sapevo»,
aggiunse con convinzione, creando una smorfia con le
labbra. Marlena strinse forte i suoi pugni ma la madre non ci diede
peso. «Puoi tornare a casa. Domani».
Le chiuse la porta in
faccia e Marlena se ne andò. Fu così che si trovò un ragazzo e finse di
amarlo, anche se non riuscì mai a sorridergli. Il tempo passò e Marlena
non ritrovò mai la parte di sé persa quel giorno.
Le
persone omosessuali sono sempre esistite e sempre esisteranno. Non
esiste cura perché non è una malattia. Non è causata da traumi e non è
contagiosa. Non esiste propaganda che possa cambiare l’orientamento
sessuale della gente. San Pietroburgo volta le spalle a tanti suoi
figli e un giorno li piangerà tutti.
Cos’è una persona senza amore? La legge e l’omofobia dilagante svuota
le persone della propria essenza e le svende. Costringe loro a cambiare
per paura. Il sindaco di Sochi, Anatoly Pakhomov, ha dichiarato, alle
ultime olimpiadi, che da loro non ci sono gay. Posso smentirla, signor
sindaco: i gay ci sono ma sono nascosti in vite false costruite su
misura per loro, per paura, oscurati dalla vostra ipocrisia, ignoranza
e cattiveria.
Io sarò qui a dare voce a tutti voi che non potete parlare, finché non
sarete liberi di vivere e farlo senza il mio aiuto. Raccontatemi quello
che state passando e parlerò per voi. Vogliono farvi sentire soli, ma
non lo siete. Non siete soli contro il mondo.
Tutti hanno bisogno di avere qualcosa in cui credere.
Vostra,
Marla.
Futuro distopico? No,
giorni nostri.
Ammetto
che, quando ho
letto il titolo del contest a cui questa storia partecipa, ho avuto un
brivido. Per curiosità ho letto il bando e ho visto che incredibilmente
la giudice accettava anche coppie non etero ed ero sorpresa. Con San
Pietroburgo mi aspettavo l’omofobia, in un certo senso, era una
certezza, perché San Pietroburgo e coppie non etero non sono
accostabili, oggi giorno. Poi ho pensato che, semplicemente, lei che
aveva indetto il contest poteva non saperlo. E allora mi sono decisa a
tentare e parlare di questo! Mi era subito balenata in mente
un’immagine specifica e ho colto l’occasione. Sì, tutto quello
descritto succede davvero a San Pietroburgo e in Russia in generale.
Basta "googlare" i nomi e i fatti, per i curiosi.
Per
chi vuol dare
un'occhiata, il contest è questo: Le
notti bianche di San Pietroburgo ;)
Alcune
note:
Ira e Marla: sono
abituata ad usare la ypsilon
quando devo scrivere soprannomi, così
erano inizialmente Iry e Marly, ma mi sembrava errato considerando che
i personaggi sono russi, proprio come ho cambiato i vari “ok” nel testo
in “va bene”. Spero di non aver scelto male :P
La morte di Irina:
sapevo fin da subito della sua morte. Era l’immagine iniziale che mi ha
permesso di partecipare al contest, tuttavia “ci sono rimasta davvero
male” quando ho dovuto scrivere quella scena. Non se lo meritava, in
un’altra occasione forse non l’avrei uccisa, era come se il personaggio
non volesse morire.
Nigeria: non l’ho
citata a caso. Anche in Nigeria vigono delle durissime leggi omofobe,
che prevedono divieti per coppie o anche gruppi per omosessuali,
punibili fino a quattordici anni di carcere.
"cominciò a postare su vk": vk è il Facebook
russo, per chi non lo conoscesse.
Ammetto
che da quando
tutta questa storia ha iniziato in Russia ho cominciato ad odiare quel
posto e la sua gente (in generale, chiaramente). Leggo troppo spesso
notizie relative e tutto ciò mi inorridisce. Ho sempre ammirato la loro
architettura, quei colori e le loro chiese mi piacciono molto, ma non
riesco più a vederli con la stessa ammirazione di una volta.
Spero
di aver scritto
questa breve oneshot meglio di come la percepisco io a volte
(confusionaria? D:) e di non aver lasciato intuire troppo il mio
“disprezzo”.
Grazie
a chi ha letto fin
qui e magari vorrà lasciarmi una recensione!
A presto :)
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