Pioveva.
Le squadre erano rientrate nei rispettivi spogliatoi. Nei
desolati corridoi dello stadio rimbombavano le urla e gli schiamazzi dei padroni
di casa.
Bussò alla porta e, non ottenuta risposta, socchiuse la
porta per sbirciare l’interno dello spogliatoio. Josh si stava esibendo per i
compagni in un’improbabile lambada sul lettino massaggi agitando
vorticosamente in aria un paio di sospensori, mentre gli altri tutt’attorno
battevano il tempo.
Non troppo sorpresa richiuse la porta e si appoggiò di
spalle alla porta incrociando le braccia dietro la schiena. Volse gli occhi al
soffitto, apparentemente incurante della bolla di chewingum rosa che le usciva
dalle labbra.
Lui, comunque, non c’era.
Con la coda dell’occhio scorse attraverso il vetro
frastagliato lo svolazzio delle casacche rosse e non riuscì a trattenere un
sospiro di irritazione.
Si avviò lungo il corridoio verso il campo da gioco,
gettando nell’immondizia la gomma ormai priva di sapore. Aprì la pericolante
portoncina di legno laccata di smalto chiaro che portava al box della squadra di
casa.
Quella porta era lì da quando Robert Brett, idolo di casa
degli anni cinquanta, distrusse tutti gli arredi del box giocatori dopo una
vergognosa sconfitta con gli Extremes di Seattle. Dopo quell’episodio i Lions
non persero più una partita in quello che a Westside tutti considerano il
campionato più memorabile della storia del liceo del paese. Tutti immaginavano
che quella porta sarebbe rimasta sempre lì, almeno finché un nuovo Brett non l’avesse
buttata giù a calci.
Non cigolò come suo solito.
Dalla sua posizione poté constatare che scendeva ancora una
pioggerellina fine ed inesorabile che aveva ormai convinto anche i più fedeli
tifosi a tornarsene a casa per cena. Dalla tettoia in lamiera, invece, cadevano
gocce d’acqua grandi come quarti di dollaro, che avevano formato una pozza
oblunga tra il muretto e quella sfumatura chiara che fino a poche ore prima era
una gessata linea bianca.
Rimase un attimo in silenzio ad osservarlo. Era davanti a
lei, in piedi sugli stretti scalini del box, con le spalle appoggiate all’estremità
del muro appena riverniciato di un bianco troppo chiaro per poter resistere più
di un’estate.
Il suo sguardo era sereno mentre fissava il campo dei Lions
imbruttito dalle pesanti pozze di fango. Aveva la testa leggermente reclinata
all’indietro e teneva il cappello per la tesa nella mano sinistra abbandonata
lungo il fianco.
Come quella volta. Proprio come allora.
Fece un passo avanti, chiuse la porta dietro di sé
appoggiandovisi con le spalle e le braccia intrecciate dietro la schiena.
Si voltò verso di lei sentendo scattare il meccanismo della
porta.
Lo salutò con un semplice sorriso, ma non si impedì di
guardarlo come guardava solamente lui.
Aveva una commovente aria stupita, le guance gli si
colorarono appena e con sguardo sfuggente calzò il cappellino con la mano prima
di metterselo in testa, quasi come un bambino sorpreso con le mani sporche di
marmellata.
<< E’ già ora di andare? >>.
<< No. Sono solo stanca di far da balia al branco
>>.
La guardò finalmente in viso con aria più sicura. <<
Tuo padre sarà infuriato >>.
Fece una buffa smorfia con la bocca, sorrise e gli rispose
con gli occhi rivolti al cielo. << No, è abituato ormai, lo sai. Credo
che insegnare nelle scuole superiori per così tanto tempo lo abbia reso
insensibile alla comune vergogna >>.
Lo vide sorridere appena e voltarsi nuovamente verso il campo
da gioco.
Il rumore delle gocce di pioggia sulla tettoia tornò a
scandire il tempo lentamente.
Quel suo darle le spalle la faceva sentire stranamente
ansiosa. Si passò la lingua sulle labbra e, nel pronunciare quelle parole,
distolse inconsapevolmente lo sguardo verso lo strano alveare di legno in cui i
giocatori ripongono le mazze.
<< Posso rimanere un po’ qui con te? >>.
Attese la risposta continuando ad osservare senza interesse
la parete opposta del box giocatori.
<< Beh, se proprio devi >>.
Si voltò stupita e lo vide sorridere da sopra la spalla
burlandosi di lei.
Si mosse veloce e salì gli scalini, uno più di lui. Lo
spinse con fare minaccioso spalle alla parete e gli strinse la punta del naso
con le dita.
<< Ah davvero? Sua altezza lo consente? >>.
Boffonchiò qualcosa con la voce nasale rotta dal riso, le
prese il braccio cercando di divincolarsi, mentre il berretto gli si abbassò
sul viso di contrasto alla parete retrostante.
Scese uno scalino, ristabilendo tra loro la consueta
differenza di altezza. La mano le scivolò dalla parete alla sua spalla, mentre
con l’altra, lasciandogli la punta del naso, gli tolse il cappello dal viso.
Non le lasciò il braccio. E fece scivolare l’altra mano
sulla sua vita. Poteva sentire la pelle fresca appena sotto la spalla, dove
terminava la manica corta della maglietta bianca e rossa dei Lions. E la curva
della vita.
Pioveva.
Non più di qualche mese prima erano lì, proprio in quel
punto. Era molto caldo anche per una cittadina vicino alla costa occidentale che
gode di un clima estremamente mite per tutto l’anno. Pioveva anche allora, ma
fino a venti minuti prima il sole aveva spietatamente martoriato la pelle dei
giocatori e degli spettatori che si erano precipitati a vedere la partita più
importante dell’anno. Quella pioggia, in fin dei conti, era quasi un sollievo.
Avevano perso.
Già. La partita dell’anno, contro il Victoria High di San
Diego, che avrebbero poi battuto di quattro lunghezze i Fighters di Boston nella
finale di campionato.
Era una squadra troppo forte per un liceo di provincia che
poteva contare solo su pochi talenti. John Owen era sicuramente un ottimo
lanciatore, specialmente considerato che era il suo primo campionato, ma per
tenere a bada i giocatori di Boston per nove inning ci voleva ben altro.
Ciò nonostante i Lions di Westside si erano piegati solo per
un banale errore all’ultima ripresa di Kennet Foster, dopo che nella prima
metà del nono inning i futuri campioni si erano trovati con due corridori sulle
basi ed un solo out.
Uno a zero.
Una sconfitta dignitosa, è innegabile, ma lui le aveva
promesso un finale diverso.
Una vittoria sarebbe stato l’orgoglio della scuola, della
città e dell’allenatore.
Il vecchio Rash era un brav’uomo. Vedovo, aveva girato ed
allenato in quasi tutti i licei del Midwest e finalmente si era definitivamente
accasato nella cittadina di Westside, dove aveva conosciuto e sposato la vedova
dell’undicesimo preside del liceo locale, Gwendaline Owen.
Ma sopra ogni cosa l’aveva promesso a lei. La figlia del
coach, nonché sua sorella acquisita, con cui divideva ormai da anni il primo
piano dell’ala destra della residenza Owen.
Il coach e i compagni gli avevano battuto la mano sulla
spalla e lui lo aveva fatto col povero Foster, che per anni tutti avrebbero
ricordato mancare clamorosamente la palla della sconfitta.
Poi era rimasto lì, ipnotizzato dalla pioggia, mente i
giocatori si rifugiavano nelle docce e gli spettatori abbandonavano delusi lo
stadio.
Negli occhi aveva ancora la palla che volava altissima e
scendeva dritta verso l’interbase. Il battitore avversario correva lento e
rassegnato verso la seconda base, aspettando solo che l’avversario la
raccogliesse al volo. Nell’attimo successivo Foster rincorreva la palla che
sembrava proprio non volerne sapere di entrare nel suo guantone.
Fine della partita.
Anche quel giorno lei era entrata in silenzio dalla porticina
laccata di smalto chiaro, che allora, però, aveva cigolato sia nell’aprirsi
che nel chiudersi.
L’aveva vista con la coda dell’occhio ed aveva voltato lo
sguardo verso la pioggia, ricordando come la sera precedente gli avesse
inaspettatamente strappato quella promessa. Aveva intrecciato il mignolo al suo
e tanto era bastato ad incastrarlo. La verità era che non riusciva mai a
negarsi a lei. Bastava quello sguardo e non c’era nemmeno più bisogno di
promettere.
E poi quella domanda. Lo colse di sorpresa. Una ricompensa se
avesse mantenuto la promessa. Non si aspettava certo un premio. Quantomeno non
da lei. Fu l’istinto a rispondere per lui. Non riuscì ad impedire al suo
sguardo di indugiare per un istante sulle sue labbra.
La colse di sorpresa, ma capì forse prima di lui. E aveva
già deciso prima che lui distogliesse fugacemente lo sguardo per sollevarlo al
soffitto.
Lo ascoltò comunque tergiversare e lo osservò mentre
cercava di far scomparire quel lieve rossore dal viso.
Era stato come se i suoi occhi non avessero mai visto la sua
bocca prima d’allora.
Finalmente le sue labbra si piegarono in un piccolo, lieve,
sorriso, poi si alzò, si girò e se ne andò dicendogli semplicemente <<
Allora è deciso. ’notte Johnny >>.
Johnny.
Lo chiamava così solo lei. Mai davanti agli altri, nemmeno
in casa. Solo se soli.
Ed ora era lì, sugli scalini del box giocatori di casa, a
fissare la pozza del box di battuta.
Tutto gli era passato per la mente in un lampo, ma in realtà
non avrebbe saputo dire quanto fosse rimasto lì senza avere il coraggio di
girarsi.
Si tolse il cappello dei Lions con due dita e allungò il
braccio lungo il fianco. Piegò le labbra in un debole sorriso e fu capace di
pronunciare solo quelle poche parole.
<< Mi spiace, ti ho delusa stavolta >>.
Invece sorrideva, ma lui non poteva vederla. Fece pochi
lunghi passi e salì gli stretti scalini che portano al campo da gioco.
Giunta alla sua altezza la spiò con la coda dell’occhio.
Guardava dritto avanti a sé. A pochi centimetri da lui. Le braccia intrecciate
dietro la schiena.
Non riuscì più a distoglierne lo sguardo.
<< Non sono delusa, Johnny >>.
Sporgendo appena il labbro inferiore soffiò via i capelli
della fronte, mandando la testa all’indietro. Poi, d’improvviso, si voltò
verso di lui con fare irriverente.
Aveva uno splendido, inaspettato, sorriso.
Rimase in silenzio limitandosi a guardarla.
Lei socchiuse gli occhi per un brevissimo attimo, o forse
semplicemente abbassò lo sguardo, non avrebbe saputo dire con certezza. Girò
le spalle lentamente verso di lui e avanzò di un passo. Gli prese il cappello
dalla mano sfiorando appena le sue dita e incurvò con forza la tesa tra le mani
per renderla più arcuata.
<< Non ti avevo mai visto giocare così >>.
Si calzò il cappello in testa con la visiera all’indietro.
Un ciuffo di capelli ribelle le uscì dall’apertura del cappello che si
trovava sulla fronte invece che sulla nuca.
<< Così bene, voglio dire >>.
E d’improvviso si avvicinò. Sentì le sue labbra un attimo
dopo.
Sentì la sua mano sfiorare il dorso di quella con cui fino a
pochi istanti prima aveva tenuto il berretto, mentre con l’altra lo stringeva
da dietro la spalla opposta. Le braccia sulle braccia. Non un filo d’aria tra
di loro.
Le sue labbra. La sua bocca.
Sentiva il suo respiro, attraverso i lievi, ritmici movimenti
del petto che si muoveva contro il suo.
Si perse in quel respiro. Nel suo calore.
Lasciò le sue labbra ma non lui. Rimase ancora un attimo
lì, in quel tepore.
Poi si allontanò spingendosi appena, quasi con fatica,
aprendo gli occhi lentamente. Aveva le guance arrossate e non riuscì ad
incrociare il suo sguardo. Un lieve sorriso piegò le sue labbra. Si tolse il
cappellino ma lo tenne con sé.
Finalmente alzò gli occhi e se ne andò in un istante.
La vide uscire dalla portoncina bianca lasciandola aperta.
Tenne il cappellino per tutta l’estate nel ripiano più
alto dell’armadio nella sua stanza, insieme alle sue cose più care, alle
vecchie fotografie della mamma. Tra gli oggetti preziosi.
E adesso era di nuovo su quegli scalini, vicino a lei, e la
teneva per la vita.
Se anche stavolta fosse sgusciata via verso la pericolante
portoncina bianca, l’avrebbe trattenuta.
Si.
Forse.
Lo stava guardando. E sorrideva, come solo lui poteva
vederla.
Si, perché quel tipo di sorriso era dedicato a lui soltanto.
A nessun altro.
Non era stata lei a dirglielo, ma lo sapeva, come sapeva che
nessun altro godeva delle sue attenzioni, delle confidenze e degli sguardi che
poteva scorgere nelle notti d’estate, nelle lunghe passeggiate o nelle
giornate di pioggia.
Sapeva, anzi sentiva, che con nessun altro condivideva quella
complicità, come sapeva che non era sua sorella e che, per fortuna, non lo
sarebbe mai stata. Sebbene, in realtà, i loro genitori parlassero ormai da
tempo di adozione reciproca.
Abbassò il braccio con cui teneva il cappello e si
allontanò leggermente. La mano di lui le scivolò lungo il braccio,
accarezzandole la pelle, fino alle dita.
<< Non vorrai prendermi anche questo, vero? >>.
Il suo sorriso si fece malizioso ed irriverente. Se lo mise
in testa con entrambe le mani calzandolo con decisione. Gli rivolse la schiena
improvvisamente, costringendolo a lasciarle il fianco. Voltò indietro la testa
sopra la spalla e gli si rivolse con fare risentito.
<< Credevo ne avessi già uno >>.
Da uno dei passanti di stoffa bianca della gonna pendeva il
cappellino blu del precedente campionato con la L rossa cucita sulla visiera.
Rimase un attimo stupito e poi, senza guardarla, lo staccò
dalla gonna, mentre lei si girava nuovamente. Lo prese in mano osservandolo
quasi con riverenza.
<< Pensavo che potesse esserti utile… che potesse
portarti fortuna per il prossimo campionato >>.
Aveva di nuovo le mani intrecciate dietro la schiena, si
sporgeva in avanti col busto come una bambina timida che riesce a guardare solo
il suo dono, senza poter incontrare lo sguardo di colui al quale regala il più
prezioso dei suoi monili. Le sue guance si colorarono appena e assunse un’espressione
buffa ed impacciata.
Alzò lo sguardo con titubanza e con le dita si sistemò
dietro l’orecchio una ciocca di capelli ribelle. Per un attimo le era sembrato
di aver sentito il sapore delle sue labbra. Sembrava ieri. Proprio lì. In una
giornata di pioggia, lo aveva baciato. Era stato il suo primo bacio, lo aveva
riservato a lui.
Lui soltanto.
Aveva conservato a lungo quel cappello e spesso si era
sorpresa ad indossarlo, proprio come quel giorno, e a rimuginare su quanto aveva
fatto.
Lui era quasi suo fratello ormai. I loro genitori, almeno,
volevano che lo diventasse. Sarebbe stata una delusione terribile per loro se
così non fosse stato. Forse non avrebbe dovuto farlo. Forse sarebbe stato
meglio se si fosse trattenuta. E poi, dopo quel giorno, lui non aveva fatto
parola di quanto successo.
Si voltò verso il campo cercando di scacciare quei pensieri.
Stava ormai spiovendo ed era quasi sera. All’orizzonte le nuvole si diradavano
lasciando intravedere qualche angolo di cielo ormai dorato.
Frugò nella sua mente alla ricerca di un nuovo argomento. Ma
le sembrava di sentire ancora le sue dita scendere leggere accarezzandole il
braccio.
La porticina bianca cigolò.
<< E’ ora di andare ragazzi. La prima partita dell’anno
rimandata, una vera disdetta >>.
Istintivamente si allontanarono di un passo l’uno dall’altra.
John indossò il cappellino, mentre lei, invece, si toglieva l’altro quasi di
nascosto.
<< Non vorrai giocare con il cappellino dello scorso
anno, vero? >>.
<< Hai indovinato allenatore! Tua figlia mi ha appena
rubato quello nuovo >>.
Si voltò verso di lui con aria risentita. << Ehi, te
lo restituisco subito, non c’è problema! >>. Gli fece una smorfia e si
girò verso suo padre << Non preoccuparti papà, il tuo pupillo domani
giocherà con una divisa nuova di zecca! >>.
E lui rideva, giocandosi di lei, cercando poi di schivare il
cappello nuovo che turbinava in aria.
<< Mah! Fate voi… Tornate a piedi come al solito,
vero? >>.
Nessuna risposta. Solo cappelli in aria. Uscì chiudendosi
dietro la porta.
Dopo un’eroica battaglia si arrese, si scusò
cerimoniosamente e finalmente lei si calmò. Scoppiò ancora in una fresca
risata e lanciò il cappello nuovo sulla panchina di legno dei Lions fattasi
scura per l’umidità.
Rimasero in silenzio per un lungo momento in cui ognuno
inseguiva i propri pensieri.
La guardava. E quanti sentimenti sfioravano la sua mente.
La ricordò con i capelli sulle spalle, come li portava fino
a pochi anni prima. La vide piangere sulla tomba della madre, come accadeva ogni
anniversario, e poi seduta sulla staccionata del giardino, nel suo candito abito
color mimosa il giorno del ringraziamento. Pensò a quando le teneva la mano
mentre le toglievano il gesso alla gamba, rottasi cadendo dalle scale, e alle
sottili dita che intrecciava con le sue, ogni sera, sulla strada di casa.
Un lungo e malinconico sorriso gli piegò le labbra.
<< Torniamo a casa? >>.
Gli sorrise e fissò ancora per un attimo il cielo di mille
colori.
<< Sembra che non ci bagneremo, per fortuna >>.
<< Già. Mi cambierò in un attimo >>.
Lasciò cigolare la porta e corse nel corridoio portando via
entrambi i cappelli.
Si alzò dalla panchina spolverando con la mano il retro
della gonna e, prima di uscire ed entrare nel corridoio che penetra nell’interno
delle gradinate, si voltò ancora una volta per guardare verso il campo da
gioco.
Sprazzi isolati di un ormai basso sole di fine Luglio
illuminavano le pozze d’acqua vicino al campo. Il riflesso illuminava il
soffitto del box rendendo una strana sensazione di estraneità.
Non sembrava il posto in cui si trovava fino a pochi attimi
prima.
Già. Soltanto perché lui se ne era andato.
Quanto amava quei momenti di complicità.
Oggi le aveva tenuto la mano. L’aveva quasi abbracciata,
per la verità.
Ripensandoci si morse piano il labbro inferiore e sorrise. Le
piaceva stargli vicino. Più vicino di quanto avrebbe dovuto.
Uscì chiudendosi la porta cigolante alle spalle, percorse i
desolati corridoi dello stadio osservando con curiosità i misteriosi graffiti
di qualche ragazzaccio dal notevole talento e indossò il cardigan rosso dei
Lions.
Lo aspettò all’ingresso dello stadio e lo vide arrivare
vestito di jeans blu scuri e di una semplice camicia bianca.
Era solo qualche miglio di strada fino a casa Owen, ma loro
preferivano sempre tagliare attraverso i campi. In estate, in particolare,
amavano costeggiare la staccionata che divide i due grandi campi coltivati a
girasoli.
Tutto il terreno intorno a casa Owen era di proprietà della
famiglia da generazioni, ma ormai, da più di dieci anni, o meglio da quando il
signor Owen era morto lasciando moglie e figlio di soli otto anni, venivano
coltivati dai Cardillo, numerosa famiglia argentina immigrata negli anni
settanta, a cui non mancavano certamente braccia da impiegare nel lavoro dei
campi.
Vicino le staccionate erano soliti lasciare sempre l’erba
piuttosto alta, in ossequio alla tradizionale credenza di lasciare un luogo di
riposo per i viandanti. In realtà, quel morbido giaciglio era servito solo a
qualche sparuta coppietta e più spesso a qualche ragazzaccio che vi smaltiva la
sbornia.
Camminavano lenti nello stretto viottolo in cui, prima dell’estate,
passava a stento anche il ronzino del vecchio Cardillo, ma il grano non sarebbe
stato di nuovo alto per ancora parecchi mesi ed il passaggio era agevole.
Le piaceva camminare lentamente in quel breve tratto che
separava la strada dal viottolo, mentre aspettava con ansia di girare intorno
alla staccionata. Di lì a pochi passi nessuno avrebbe più potuto scorgerli
dalla strada e lui l’avrebbe presa per mano e non l’avrebbe lasciata fino a
quando non sarebbero stati in vista di casa. Le piaceva sentire le dita tra le
sue. Un gesto di intimità semplice e sensuale.
Come lui.
Ricordò divertita la prima volta che l’aveva fatto. Rivide
il suo profilo tutto irrigidito mentre teneva lo sguardo dritto davanti a sé,
con il viso tutto rosso e la mano sudata. Decise di far finta di niente,
divertita dal suo imbarazzo e lusingata da quel gesto. Da allora avevano
cominciato a rincasare sempre a piedi e ad odiare i giorni di pioggia.
Si sentiva bene così vicina a lui.
Alle volte deviavano lungo il fiumiciattolo e scendevano fino
al piccolo mulino di Muto. Muto era un vecchietto solitario. Viveva solo.
Lavorava solo. Morì anche da solo. Fino a qualche anno prima vendeva il pane a
tutto il paese, morì e nessuno quasi sembrò accorgersene.
Ma in fin dei conti perché mai avrebbero dovuto? Quasi
nessuno aveva sentito la sua voce, eccetto qualche grugnito riservato al
malcapitato ragazzo di bottega che portava il pane al negozio di alimentari.
John lo conosceva bene e meglio di lui lo conosceva suo
padre. Era venuto al suo funerale e aveva baciato la vedova. Pochi giorni dopo
regalò al piccolo John un coltellino dal manico rosso con cui per tutta l’estate
gli insegnò ad incidere il legno.
Conservava ancora quel coltello.
Il mulino in realtà rientrava nella proprietà degli Owen
come la terra su cui giaceva, ma Muto era lì da sempre e il vecchio Owen non si
sarebbe mai sognato di cacciarlo. Era buffo chiamarlo Muto per poi sentirlo
rispondere. Sabrina non poteva non sorriderne ogni volta. E a John piaceva.
Gli piaceva vederla sorridere.
Ricordò come, nei giorni di festa, suo padre era solito
portarlo sulle spalle a visitare il mulino mentre aspettavano che la crostata di
more fosse in tavola per merenda.
Era così dolce ricordare suo padre. Le sue spalle, le sue
mani grandi. Sarebbe stato felice di fargli conoscere Sabrina. Era sicuro che
anche lui l’avrebbe amata.
Scrutò il cielo gonfio di nuvoloni ed arrivati al bivio
preferì proseguire proprio nella direzione del mulino. Pochi minuti dopo
cominciò nuovamente a piovere ma, fortunatamente, erano ormai a pochi metri
dalla costruzione di pietre e legno di quercia. Entrarono dalla robusta porta di
legno in un ampio locale che Muto usava per lavorare gli impasti.
Con cura incastrò nel gancio di ferro arrugginito l’asse
che serviva da serratura e la seguì salendo al piano soprastante attraverso le
anguste e scricchiolanti scalette rasenti la parete.
Entrato nel locale vide che aveva aperto l’ampia porta
scorrevole che costituiva gran parte della parete da cui si accedeva alla parte
superiore della ruota, che, al momento, era immersa di solo qualche centimetro
nell’acqua del fiumiciattolo in secca.
Il locale era spoglio. Muto era solito accatastare i sacchi
di farina sulla paglia stesa sul pavimento. Adesso erano rimaste solo le mensole
degli attrezzi sulle pareti, una vecchia lampada e un bel mucchio di paglia nell’angolo
vicino alla porta scorrevole.
Avevano tenuto in ordine il mulino per evitare che gli
animali lo trasformassero in un luogo di cova. Una volta si erano quasi
intossicati con il veleno per topi e finirono per passare tre giorni nell’ospedale
della Contea. I loro genitori si infuriarono per quanto era successo, ma non
riuscirono a dissuaderli dell’idea di prendersi cura del mulino di Muto.
Si mise seduta come sempre sul bordo del solaio, lasciando
dondolare le gambe ed i piedi nudi sopra la ruota.
La tettoia si allungava di almeno un altro metro sopra di lei
riparandola dalla pioggia che non accennava a perdere intensità.
Si avvicinò studiando la stanza semibuia. Si abbassò vicino
a lei, poggiando la schiena alla porta scorrevole giunta a fine corsa.
Rannicchiò una gamba al petto e fece scivolare l’altra a dondolare sopra la
ruota.
Guardava il suo profilo.
Ormai quel posto era solo loro. L’avevano risistemato con
un misto di malinconia ed affetto per il vecchio Muto, trascorrendovi interi
pomeriggi e domeniche. Gli piaceva passarci a sera, tornando dagli allenamenti,
tenendola per mano.
La sua mano. Ogni volta che la prendeva nella sua, dopo aver
doppiato la staccionata del campo di girasoli, era un’emozione speciale.
La prima volta l’aveva fatto senza sapere dove trovarne il
coraggio. L’aveva presa e basta. Era un gesto che forse avrebbe portato delle
conseguenze, ma non era riuscito ad impedirsi di farlo. Non era nemmeno riuscito
a voltarsi per guardare la sua reazione. Aveva atteso fino a quando non aveva
sentito le sue dita stringersi leggermente alle sue. E solo in quel momento si
era reso conto di aver trattenuto il respiro.
Era un giorno d’estate. Ricordò che indossava un morbido
vestito arancio. Un piacevole vento tiepido le scompigliava i capelli che
cercava di trattenere con una mano. Stava guardando in direzione di Mercy, il
piccolo paesino che si intravede a nord nei giorni di buona visibilità. Vi
andavano ogni estate in occasione della festa delle maschere ed poi in Settembre
per quella dell’uva. Ne tornavano ogni volta un po’ brilli.
Ricordò che la sua mano era tiepida. La pelle del braccio,
invece, quasi fresca. Lo aveva guardato. Aveva sentito il suo sguardo su di sé,
ma in quel momento non sarebbe mai riuscito a ricambiarlo.
Era certo che fosse rimasta sorpresa di quel gesto, ma lo
rassicurò il fatto che avesse continuato a camminare vicina a lui, come se
niente di strano fosse accaduto.
E quel gesto di intimità era ormai diventato una promessa
segreta, che si rinnovava con discrezione ogni sera. Lasciarle la mano in vista
di casa lo amareggiava come solo le cose inevitabili possono fare.
Ora era lì, davanti a sé. Bella come poche altre volte l’aveva
vista.
Lo era sempre in verità, ma quando si trovavano da soli la
sua bellezza riusciva sempre a stupirlo. Era diversa con lui. Solo con lui. A
nessun altro erano mai dedicate quelle parole e quel sorriso.
Si. Accanto a lui era ancora più bella. Quasi magica.
Osservava le gocce di pioggia che si perdevano nel
fiumiciattolo creando ampi cerchi concentrici che si ostacolavano e rompevano a
vicenda. La luce ormai troppo lieve del giorno le illuminava appena il viso.
Nonostante le nuvole poteva scorgersi una pallida luna che si
ergeva già abbastanza alta. Notò che la punta del naso e le ginocchia argentee
già ne riflettevano la luce.
La vide allungare una gamba in aria, fuori dal pavimento,
facendo forza sull’altra e sulle braccia, per raggiungere con il piede le
gocce d’acqua che scivolavano giù dalla tettoia. Quando vi riuscì emise un
piccolo gemito di soddisfazione e sorrise come una bambina. Poi rannicchiò la
gamba ed il piede bagnato al petto e lo guardò mordendosi il labbro inferiore
con occhi buffi.
Piccoli brividi apparsero lungo la gamba su cui scivolava
lenta qualche goccia di pioggia. Con quello strano movimento la corta gonna
bianca e rossa era salita lasciando intravedere la dolce linea della coscia.
Si costrinse con fatica ed imbarazzo a volgere lo sguardo all’interno
della stanza, verso la paglia su cui, quell’estate, lo aveva sorpreso a
sonnecchiare innumerevoli volte.
Ma lei interruppe subito i suoi pensieri.
<< Ricordi l’anno scorso, la festa dell’uva a
Mercy? >>.
Erano andati a piedi da soli ed erano tornati la mattina
successiva con la macchina dello sceriffo Paley, amico d’infanzia del vecchio
Owen. Avevano camminato attraverso i campi durante una tranquilla serata,
accompagnati dal sole che tramontava. Avevano ballato tutta la notte nella
piazza di Mercy insieme ai vecchietti del paese. Fino a che non si era ubriacato
con l’unico bicchiere di vino della serata.
Quell’episodio era sempre motivo di scherno. Persino il
vecchio Paley lo sfotteva con fragranti risate.
Si voltò, pronto ad incassare, ma il suo sguardo non era
quello che si aspettava. Guardava la pioggia avanti a sé, ma senza vederla.
Aveva incrociato le mani sotto le gambe, che oltre le ginocchia dondolavano
nuovamente sopra la ruota. Un lieve, dolce sorriso sulle labbra.
Esitò un momento. Girò su sé stesso e fece scivolare le
gambe accanto alle sue. Mandò indietro il busto sorreggendosi con le braccia
stese dietro la schiena e le rispose fissando l’acqua che pioveva dalle curve
della tettoia.
<< Mi ricordo il tuo vestito azzurro e il nastro che
avevi tra i capelli. Ricordo di aver ballato con te tutta la notte >>.
Una piccola emozione le trasparì dal volto.
Ricordò le sue braccia intrecciate intorno alla schiena, le
sue mani lungo la vita. Gli sguardi che si incrociavano continuamente. Il suo
sorriso gentile. Il suo respiro. Adesso forse più di allora le provocavano un
dolore dolce e intenso in mezzo al petto.
Abbassò istintivamente lo sguardo e si accorse con imbarazzo
che la gonna le era salita più del lecito. La spostò con noncuranza, spiandolo
con la coda dell’occhio.
La lunga tettoia teneva in ombra il suo viso. Quando le
parlò la voce sembrò provenire dal fondo della stanza.
<< Vorrai tornarci quest’anno o ti vergognerai di me?
>>.
Con una mano si spostò i capelli dietro la schiena lasciando
scoperta parte del collo e gli rispose con un filo di sorriso.
<< Avevi il sorriso di un bambino mente dormivi nella
macchina dello sceriffo >>. Rimase un attimo in silenzio a guardare la
pioggia e ad ascoltare le rane che gracidavano nel fiumiciattolo. Riprese poi
con fare malizioso.
<< Mi farai ballare tutta la notte? >>.
<< Tutto quello che vorrai >>.
<< Anche in cima al campanile di Mercy? >>.
Uscì dall’ombra e d’istinto le si avvicinò.
<< Anche nei campi e nel castagneto del vecchio Walsh,
se vorrai. Ti prometto che torneremo con le nostre gambe stavolta >>.
Si strinse nelle spalle. << Oh si, certo. Se ti
ricorderai di non ballare vicino alle botti del vino >>. Si voltò dall’altra
parte e con un sorriso irriverente continuò << Alle volte anche solo l’odore
del vino, sai … si, insomma, potrebbe farti uno strano effetto …. Forse il
vin nuovo non è proprio cosa per te >>.
La sentì ridere sottecchi. Istintivamente le passò una mano
intorno alle spalle, aspettò che si girasse di nuovo e avvicinò il viso al
suo.
Avrebbe voluto replicare. Ma le parole gli si bloccarono in
gola e si persero nell’odore della sua pelle. Il viso. Il collo. La spalla
fresca sotto la sua mano. I capelli sotto il suo braccio. I suoi occhi. Quel suo
sguardo prima stupito e subito dopo addolcito gli strappò un sospiro di parole
dal pensiero << Non è solo il vino a farmi girare la testa. >>.
Si morse il labbro per l’idea di aver detto qualcosa di
troppo, o forse per non aver voluto finire quella frase che gli era nata in gola
da sola. Come si era avvicinato, d’istinto si allontanò. Rientrò nell’ombra,
ma lei sembrava non volerne sapere di distogliere lo sguardo e si sentì
costretto ad alzarsi.
Non aveva detto niente in realtà, ma quello che avrebbe
voluto dirle lo aveva messo in agitazione comunque.
E sapeva che lei lo aveva capito.
Fece qualche passo verso l’interno della stanza.
Lei si voltò di nuovo verso la pioggia, lentamente.
Guardò le gocce gonfiarsi e cadere dalla tettoia. Si
sorprese a pensare con tristezza e rassegnazione che forse quelle paure non se
ne sarebbero mai andate. Che avrebbero sempre aleggiato tra loro.
Pronunciò quelle parole con un filo di speranza, con un
sorriso appena accennato in occhi bui e stanchi.
<< Proprio come adesso? >>.
Sgranò gli occhi per un attimo e poi li riabbassò. Rimase
girato verso la parete. Non parlò per paura di deluderla. Con l’ansia di
sbagliare. Senza riuscire a pensare.
Ebbe per un attimo la tentazione di spiarlo con la coda dell’occhio.
Ma poi tenne il suo sguardo fisso sulla pioggia. Rimase in silenzio, aspettando
una risposta che temeva non sarebbe arrivata. Ma non sarebbe stata lei a
mollare. Non stavolta. Si sentiva così stanca.
Strinse gli occhi ed alzò appena lo sguardo. Quando li
riaprì vide il setaccio di Muto. Ricordò il giorno in cui le insegnò ad
usarlo. Aveva il viso tutto bianco di farina e gli occhi lucenti. Fecero il
bagno nel fiume e fu punta ad un piede da un insetto velenoso. La portò
tenendola in braccio fino a casa, incurante delle parole di Muto che voleva
accompagnarla con il furgoncino. Aveva corso come un pazzo lungo il viottolo
sterrato, ricorrendo ad energie che non sospettava di possedere. Era rimasta a
letto con la febbre per giorni, ma alla fine era andato tutto bene. Quella
paura, però, non l’avrebbe mai scordata.
E adesso provava una sensazione molto simile. Aveva l’impressione
che qualcosa di lei se ne stesse scivolando via piano piano.
Parlò con il cuore gonfio di paura, sgombrandolo con forza
dalle paure che lo attanagliavano.
<< Si. Proprio come adesso >>.
Per un momento si sentì stranamente sollevato. Alzò gli
occhi al soffitto e rise di sé. Le parole scivolarono da sole dal pensiero.
<< E come prima, nel box giocatori. E come ogni sera, quando entri in
camera mia in camicia da notte. E come ogni giorno, quando prendo la tua mano
lungo il sentiero dei girasoli >>.
Indugiò per un lungo attimo e lei rimase in silenzio. La
paura lo colse nuovamente e lo costrinse a riabbassare lo sguardo. Sentiva
rimbombare nella sua testa il rumore delle gocce di pioggia sulla tettoia.
Strinse istintivamente i pugni e cercò di rimanere lucido.
Le parlò con un filo di voce. << Come tutte le volte
che vedo il tuo sorriso. Quello che non ti vedo mai rivolgere ad altri. E che ho
sempre sperato fosse solo per me >>.
Era rimasta assolutamente immobile, quasi senza respirare.
Per quei pochi momenti non aveva sentito più la pioggia, né l’aria fresca
sulla pelle umida delle gambe, né il contatto con il pavimento. Solo il suono
della sua voce. Solo i suoi silenzi. Solo le sue parole.
E quelle ultime sciolsero i suoi pensieri. Finalmente
sorrise. Distese in aria le gambe che pendevano nel vuoto e si guardò le punte
dei piedi piegando leggermente la testa da un lato.
Le tirò su e si alzò girandosi su se stessa e fece un passo
verso di lui che le dava le spalle. Allungò la mano verso la sua, che pendeva
abbandonata lungo il fianco. Si fermò un attimo prima di raggiungerla, commossa
da quanto più grandi si fossero fatte la sua schiena e le sue braccia, da
quando, qualche anno prima, l’aveva portata in braccio fino a casa. Era
passato del tempo, molto tempo, ma le cose tra loro non erano cambiate. Forse
non avrebbero mai potuto essere diverse.
Sfiorò il dorso della sua mano con le dita e poi lo strinse
al suo palmo.
Socchiuse gli occhi. Lo disse a voce bassa.
<< Si, solo per te. E’ sempre stato solo per te
>>.
Le sentì fare un altro passo. Sentì il suo viso affondargli
nella schiena. La sentì lasciargli il palmo della mano e un attimo dopo sentì
solo le dita, che si fondevano con le sue. L’altro braccio che lo stringeva a
sé. Sentì tutto il suo corpo contro di sé.
Si perse per un momento in quella strana sensazione di
torpore che in breve diventò qualcos’altro. Si voltò lentamente con l’intenzione
di guardare il suo viso e prenderlo tra le mani. Ma il suo corpo agì da solo e
la strinse a sé.
Si trovò tra le sue braccia. La teneva stretta come non lo
credeva capace. La colse un attimo di smarrimento e di stupore per quel gesto
inaspettato. Poi si scoprì felice ed impaurita nel calore del suo corpo.
Lentamente, sulla punta dei piedi ancora nudi, appena
sollevata da terra, spostò le braccia piegate contro il suo torace e le fece
scivolare dietro le spalle. Gli si trovò ancora più vicina e non riuscì a
trattenere un sospiro che le uscì come un gemito.
Intrecciò le braccia sempre più strette sulla sua schiena,
fino ad avvolgerla completamente. Sentiva il suo respiro nel proprio petto.
Sentiva il suo petto sul suo. Sentiva la sua vita, che le mani non potevano
evitare di sfiorare. Il suo profumo. I suoi capelli. Li sentì tra le sue dita,
lisci, sottili, delicati come seta.
Allentò un attimo il suo abbraccio, come per gestire un’emozione
troppo forte.
I suoi piedi toccarono di nuovo terra, le mani gli
scivolarono sul petto, ma il suo viso rimase lì. Vicino al suo. Vicino al
collo. Lo sfiorò con la guancia e poi con le labbra. D’istinto. E si sentì
stringere di nuovo, sollevata ancora da terra. Gli strinse le braccia intorno al
collo e incontrò il suo sguardo.
Sapeva quanto la desiderasse. Certo, lo sapeva forse meglio
di quanto lui stesso ne fosse consapevole, ma vederlo nei suoi occhi, sentirlo
nel fremito delle sue braccia e di tutto il suo corpo era tutta un’altra
emozione.
Gli sorrise. Gli accarezzò leggera la nuca. Gli passò la
mano tra i ribelli capelli castani che le erano sempre tanto piaciuti e
appoggiò per un attimo la fronte alla sua sfiorandogli la punta del naso con il
proprio.
Le sorrise, la spinse piano contro la parete ormai nell’ombra
e la baciò.
Tutto era fermo.
Non fu come la prima volta. Un turbine di emozioni violente
li colse impreparati.
Il suo bacio era intenso, profondo. Le sue braccia le
cingevano la schiena, le sue mani il costato. Sentì il bisogno di stringersi
ancora di più al suo petto. Si staccò appena dalla ruvida parete di legno e si
spinse contro di lui.
Fu costretto ad incurvarsi impercettibilmente e le mani gli
scesero leggere disegnando la linea del suo corpo, facendola trasalire appena.
Sentì quel brivido scenderle lungo la schiena distraendola dalle sue labbra per
un attimo. Poi la vide aprire gli occhi per cercarle nuovamente e sentì ancora
tutto il calore del suo corpo.
Pioveva.
L’odore della sua pelle si era mischiato a quello della
pioggia.
Il cardigan rosso dei Lions li precedette sulla paglia un po’
umida. Scavò con la mano per trovare quella più asciutta e il resto fece loro
da riparo.
Successe così, in poche ore di pioggia.
La notte corse via veloce, ma tornarono a casa che era ancora
scuro. Presto tutti avrebbero saputo, ma per un altro po’ sarebbe rimasto un
loro segreto, come del resto era sempre stato durante tutti quegli anni.
Camminarono piano, tenendosi per mano nella lieve, magica
luce di una luna che andava sparendo all’orizzonte. L’erba ancora umida
bagnava le loro caviglie nude e i ricordi della notte appena trascorsa
aleggiavano intorno a loro, lievi come fantasmi.
Firenze, 16 - Maggio - 2003
Ehi ragazzi, fatemi saperecosa ne pensate, anzi, facciamo
così: se non mi commenterà nessuno capirò l'antifona e cambierò sport, in
caso contrario... beh, non sarà facilissimo liberarvi di me...
Ciao a tutti,
Lex