Interludio

di DoLD_GdR
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*Un guizzo infastidito illumina gli occhi color ghiaccio di Ace. Tutti gli esseri umani sono convinti, da tempo immemore, che gli occhi siano lo specchio dell’anima. Ebbene, in quelli di Ace poche cose vi si possono leggere, e di solito sono quelle sensazioni troppo potenti da nascondere nella sua solita, pietrificante, espressione. Sono le sensazioni che hanno violenta natura, quelle impossibili da nascondere. Il fastidio non rientra fra quelle, ovviamente, ed è per questo, infatti, che seppur fuggevole, è voluto. Il ragazzo, abituato a tenere sotto controllo qualsiasi situazione, non ama quando i suoi piani vengono stravolti, e quello stupido di James sta facendo esattamente ciò che non dovrebbe fare: stravolgere i suoi piani. Stringe così forte l’impugnatura levigata della bacchetta, Ace, che sente la pelle diafana sulle proprie nocche tirare così forte da fargli male. Stringe le labbra, già sottili di suo, in una smorfia indispettita. Deve riportare l’ordine. L’ha fatto quando era solo un bambino, e la sua bocca non conosceva altro che il sapore del latte proveniente dal seno della loro madre, e deve farlo ora, reiterando quei gesti abituali, senza i quali, ormai, il suo cervello non sa più discernere ciò che è reale e ciò che non lo è. Cosa fare? Schiantarlo sul posto? No, non soffrirebbe, e il ragazzo deve essere punito. Deve essere punti per quell’intransigenza intollerabile, deve soffrire. Ace deve abbeverarsi delle sue urla, delle sue lacrime, del sangue che, magari, riesce a far scorrere senza subire punizioni. Il cuore gli batte nel petto troppo forte, così forte da risultare terribilmente simile al cuore di una belva che ha appena perso la sua preda giornaliera. E poi, questione di attimi, proprio come una belva che assiste ad una preda troppo poco valida per mettere in moto i muscoli flessuosi del suo agile corpo, Ace emette un respiro profondo. L’ansia abbandona il suo corpo, le dita attorno all’impugnatura della bacchetta si rilassano, gli occhi si perdono nel vuoto, a ricercare la figura del fratello perso tempo addietro. Non lo saluta neanche, il Corvonero di cui ha già dimenticato il nome. Semplicemente, torna ad afflosciarsi fra l’erba, che ora, più che un campo di battaglia, risulta più simile a un morbido cuscino.*




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