[ Vincitrice del concorso "Manga&Disney" indetto da Writers Arena]
Catch me
Bruce
'Smoke' si stava preparando alla sua prossima tirata.
Aveva arrotolato un
po' di robaccia, che era solito fumarsi ogni fine pasto. Meglio di una
medicina, diceva.
Si accontentava di quello che poteva avere con i suoi miseri yen da
pluri - disoccupato.
Perché 'pluri'? Perché quando hai il fondoschiena
a pari livello con l'asfalto, le devi rimboccare quelle dannate
maniche, se non te le hanno già strappate i gatti randagi.
Quelli mangerebbero qualunque cosa. Un po' come Bruce. Forse per questo
li odiava. In un certo senso, gli rubavano il mestiere.
E lui la sapeva lunga
sul lavoro. Elettricista, portiere, benzinaio, cameriere, operatore di
call center, meccanico, lavavetri, postino, finto produttore
hollywoodiano e perfino cavia per nuovi prodotti farmacologici. Tutti,
tutti miseramente conclusi con una porta che si era infranta sul suo
naso, mentre nelle tasche non restavano neanche le farfalle.
Quindi, si era rassegnato: lavorare non faceva per lui. Troppa fatica e
zero risultati. Molto meglio vivere alla giornata, raccattando viveri e
altro qua e là. Senza impegno.
Quella
cartina farcita restava intrappolata tra l'indice e il medio, in attesa
della scintilla che l'avrebbe consumata.
«Non ho
ancora capito cosa diavolo ci fai qui. Non sembri affatto uno che
barcolla, se così si può dire.»
Una fiammella spuntò dall'accendino e si avvolse attorno
alla punta estrema della canna.
Inghiottì un po' di fumo ed il suo volto si
riempì momentaneamente di estasi mistica, che fu
però distrutta da una roca tosse.
Quell'erba doveva provenire da una pessima piantagione.
Nobu
lanciò un'occhiata di sbieco al suo temporaneo compagno,
mentre teneva le ginocchia vicine al petto.
« Ma te l'ho
appena detto! Cos'è? Sei sordo o hai la memoria di un chicco
di riso?»
Il vento trasportò quel fumo marcio fino alle sue narici.
Qualunque essere umano avrebbe ripudiato quell'olezzo.
Ma quel giorno il chitarrista dei Blast sembrava aver perso il senso
dell'olfatto e molto altro, in vero.
« Aah!
Dà qua! » allungò un braccio verso
Smoke, strappandogli dalle dita il rotolino e tutto il contenuto.
Il barbone restò piuttosto allibito, con le dita ancora
distanziate, come se reggessero una sigaretta invisibile.
« Fratello,
stai messo troppo male. Fattelo dire da uno che se ne intende.
»
Il biondino non
badò più del necessario al commento di Bruce. Che
ne se sapeva lui? E soprattutto, che gli importava? Probabilmente aveva
ragione.
Era una follia. Non sarebbe dovuto essere lì a disquisire
con un vagabondo, ma in qualche altra parte del mondo ad essere se
stesso. Già, questa sarebbe stata la trama perfetta della
sua storia.
Invece era nel posto sbagliato e al momento sbagliato. Inadeguato, come
sempre.
Aspirò quella carta arrotolata, che in breve tempo aveva
viaggiato di bocca in bocca, insudiciandosi del nuovo proprietario, e
la tenne stretta tra le labbra, anche dopo la boccata.
«
È colpa sua. Di lei ... » farfugliava, tremando. I
muscoli delle braccia sembravano non sottostare a nessun controllo.
Erano indipendenti. Ed erano confusi.
Smoke trattenne qualunque considerazione da uomo di mondo sul sesso
femminile. Aveva avuto le sue esperienze, non si poteva lamentare.
Poteva raccontare della pornostar canadese o dell’infermiera
cinese o della cameriera nigeriana. Ma no, lui era un signore. Non
avrebbe rivangato storie ormai sepolte solo per lustrarsi la
reputazione.
« Lei
chi?» Fu quanto si limitò a chiedere. La
conosceva? Era una delle sue ardenti fiamme, seppur ormai estinte? Non
aveva insinuato commenti, ma era pronto a farli da quella precisa
domanda in poi.
L’ossessione
è un pane azzimo di cui ci nutre a sazietà. Ne
trangugiamo a quintali, un morso tira l’altro, in un ciclo
che ha un inizio, ma non sai qual è, o semplicemente non lo
ricordi più. La fine è assolutamente impossibile
da stabilire. Per alcuni dura un giorno, una settimana, un mese. Altri
vengono consumati tutta la vita. Dall’ossessione. Che non
è altro che il desiderio di possessione.
Ossessione - possessione. Le catene dell’uomo libero.
I suoi occhi plasmati a forma di mandorla non spostarono il loro
obiettivo, ovvero il niente che gli stava dinanzi. Si mossero attimi di
fittizio silenzio. In realtà, c’era tormento
all’interno del giovane. Un rumore tacito.
Poi, come se si fosse deciso a tornare in quel presente,
sfilò la canna dalle dita e iniziò a rigirarsela
tra i pollici, mentre l’osservava con le pupille asciutte.
Quasi ci fosse scritta lì la sua storia.
«
Il coniglio.»
. . .
« È già la terza birra, Nobu,
smettila!»
Nana Osaki non è certo il tipo di persona - di
donna - da materni propositi, che cerca di riportare il figliuolo alla
retta via. Caso mai, è la sua omonima a prendere certe
posizioni. Ma in quel momento non era lì, al Jackson Hole,
per recitare la sua parte. Da madre, appunto. Ognuno è
libero di vivere la propria vita come crede, anche e soprattutto
prendendosi la responsabilità delle proprie debolezze e dei
propri vizi. Questo è sempre stato il suo credo e ha cercato
di rispettarlo fino in fondo. Ma, d’altra parte, la vista di
un ragazzo poco avvezzo all’alcool che trangugia
l’ennesima bottiglia, è decisamente imbarazzante.
Ecco giustificato, nella sua ottica, quello che sembrerebbe uno slancio
moralistico.
« Sei solo invidiosa, perché sto
vincendo a Mahjong. » posò sul tavolo la bottiglia
brunastra e si limitò a fissare la cantante con uno sguardo
molto arrogante e molto idiota al contempo, la quale non fece una piega
nell’espressione del volto.
« Anzi, sai che ti dico? » allungò un
braccio verso le tessere del gioco, macchinò per qualche
secondo, finché non compose la combinazione desiderata.
« Ho vinto!!! » esultò, sollevando le
braccia verso l’alto. Ma non bastò come manifesto
della sua gioia infantile. Si mise eretto sulla sedia e
incominciò a sgambettare, improvvisando un balletto, molto
simile alle danze apotropaiche di alcune tribù indigene, il
tutto accompagnato da versi incomprensibili. Questo non fece altro che
dimostrare la tesi di Nana: aveva oltrepassato il limite e per il resto
della serata sarebbe stato in quello stato vergognoso.
« Sono il Re del Mahjong! Sono il Re del Mahjong! »
esaltato, a dir poco. Proseguì quello spettacolo indecente,
esibendosi in movimenti pelvici e mosse alla “Saturday night
fever” . Le reazioni del pubblico inconsapevole furono gli
occhi sgranati e lo scuotimento quasi simultaneo delle loro teste. I
Blast, escluso “il Re”, volevano urgentemente una
maschera per potersi mescolare tra la folla senza subire scherni.
Il rumore metallico dello “scacciapensieri” appeso
alla porta d’ingresso del locale non fu interessante e
nessuno gli diede peso. Diversa attenzione, invece, avrebbe suscitato
chi aveva fatto sì che venissero prodotte quelle vibrazioni.
Di sicuro era una parrucca, fin troppo lisci e plumbei erano i capelli
che le ricadevano sulle spalle esili. Gli uomini - ma anche le donne,
in fondo - voltarono le loro nuche per assistere a quella fascinosa
bizzarria: una giovane, sulla ventina, elegantemente indossava un body
violaceo, senza maniche e piuttosto sgambato, due autoreggenti
bianchissimi, quasi avessero luce propria. Si fece strada tra gli
avventori, accompagnata dal ticchettio delle sue scarpe, e raggiunse il
bancone, sinuosamente.
Dal canto suo, Nobu ebbe una percezione alterata del
frammento di realtà che si era appena concretizzato. Vide
una splendida fanciulla, di cui poteva solo fantasticare i tratti
somatici poiché vista di spalle, che, ancheggiando
provocante, scuoteva a destra e a manca il morbido batuffolo di cotone,
cucito in direzione del coccige, mentre un movimento a sé
stante sbatacchiava le protuberanze che le partivano dalla cime della
testa.
Nobu, in poche parole, si figurò una coniglietta di Playboy,
con tutti i suoi annessi e connessi. È difficile stabilire
se la colpa sia davvero del tasso alcolico nel suo sangue o se per sua
natura, Terashima è portato a modellare gli eventi
dipingendoli di rosa confetto. In balia continua delle illusioni,
perché più dolci ed accattivanti.
« Posso lasciare questo? » la vocina soave
(così come pervenne a Nobu) della ragazza precedette il
gesto di porgere a Koichi Sato, dietro il suo bancone come sempre, un
volantino dai colori sgargianti. Il barista non fece una piega e
annuì col capo. Poteva lasciarlo lì. Le sue
manine bianche sfiorarono ancora quel foglio stampato e lo riposero sul
piano ligneo. Portò poi le sue iridi cenere sul quadrante
del suo orologio da polso, distrattamente. Le palpebre, pesantemente
truccate, si spalancarono come finestre al mattino.
«Uh! È tardi! È tardissimo!Grazie
Koichi Sato.» proferì rapidamente, mentre a
passetti accelerati ritornava verso l’uscita del pub.
L’occhio e la percezione. Argomento affascinante. Fino a che
punto vediamo e da quando iniziamo a credere di vedere?
La chioma fluente ondeggiò e il suo collo
effettuò una torsione. Verso di lui, che per
l’intera durata dell’avvenente presenza nel locale
era rimasto con la bocca semiaperta e lo sguardo pietrificato. Fu in
quell’istante, quando le loro pupille si incontrarono, che
lei riunì le ciglia dell’occhio sinistro,
ammiccando in sua direzione.
Era un invito. O meglio, sembrava un invito. Ma non aspettò
che quella dubbia sfumatura lo facesse desistere. Non aveva parlato,
eppure era come se avesse detto: “Prendimi”.
Si poteva avvertire quel “tic”, quando gli
ingranaggi della materia grigia di Nobu si incepparono. Da quel momento
in poi, nella sua scatola cranica la ragione fu spodestata e si
dichiarò l’anarchia. Seguì i precetti
di altri organi. Il cuore, se siete romantici.
Saltò dalla sedia su cui si era esibito e si
fiondò rapido verso il barista, mentre della bella
coniglietta restava solo una scia di profumo, molto inteso ed
invadente. Afferrò di filato quel volantino, pensando che
era come se stesse toccando la sua mano.
« Ma dove stai andando? » La domanda di Nana si
perse tra i fiumi di parole che attraversano il locale, tra
l’interno e l’esterno, e non ricevette altra
risposta, se non il placido il tintinnio dello scacciapensieri.
I suoi occhi castani si trasformarono in radar. Dov’era
finita? Doveva raggiungerla, doveva dirle qualcosa, doveva accarezzare
la sua pelle, doveva scoprire di che colore era i suoi capelli, doveva
chiederle se le piaceva il sushi, doveva portarla ad uno dei suoi
concerti, doveva conoscerla, innanzitutto. Doveva.
Il naso che si spostava da destra a sinistra indicava anche la
direzione che prendeva il suo volto, confuso, sconvolto, con il palato
stuzzicato.
« Attento a non cacciarti nei guai, biondino. » Una
sagoma minuta appena fuori il Jackson Hole restava con la schiena
contro il muro. L’ombra dell’insegna ne copriva
metà corpo, ma era intuitivo che fosse una ragazza.
« Dici a me? » una smorfia di
perplessità si avventò sul suo viso. Da quando la
gente elargisce consigli gratuiti ad uno sconosciuto? E soprattutto,
perché?
« Chi cerca l’irraggiungibile, trova solo i suoi
limiti. » ignorò le precedenti parole del ragazzo,
ma, continuandogli a parlare, in un certo senso, gli aveva risposto
affermativamente. Ed in un modo assai misterioso.
Nobu fessurizzò lo sguardo. Stava cercando di trovare un
significato a quella frase o voleva fulminarla. Entrambe egualmente
possibili. Scuotendo la testa (quasi a compatirla), portò le
pupille su quel volantino che era diventato una sorta di prova del
misfatto. Ora, bisognava scovare l’assassino. Era la
pubblicità dell’inaugurazione di un nuovo locale.
Si soffermò sull’indirizzo, ma non gli sovvenne
nulla in mente. Non conosceva quella zona di Tokyo, avrebbe dovuto
farsi dare qualche indicazione per raggiungere il posto.
« Ehi, sai per caso dove ...? » Sfumò il
quesito, prima ancora di completarlo, perché, quando si
voltò, della fanciulla-guru non c’era
più traccia. Ragazze di oggi, pensò, sempre di
corsa.
« Oddio, inizio a pensare come mia nonna ... »
fatto decisamente inquietante, se riferito ad un ventenne.
Discostando da sé quei pensieri poco alla moda, si
disegnò una mappa mentale della capitale nipponica. Strade,
incroci, piazze, una cartina topografica che prendeva forma nella sua
testa. Ovviamente non aveva il senso dell’orientamento,
quindi si fece guidare dal più rigoroso metodo scientifico:
il caso.
« Mmh ... Quella strada non l’ho mai presa. Bah,
speriamo ... » infilò le mani nelle tasche e si
avviò per quella via.
In effetti, non l’aveva mai imboccata e a breve lui stesso
avrebbe chiarito il motivo. Era abbastanza isolata, ma non desolata.
Alti lampioni dalla luce giallastra la illuminavano in gran parte. Ma
un elemento colpiva più di ogni altra cosa. La musica,
ritmica, prepotente, avvolgente e pimpante. Con l’orecchio
affinato del musicista ebbe modo di riconoscere che era una samba. Per
alcuni minuti, le sue labbra si piegarono in un conciso sorriso, quasi
compiaciuto. Del resto, erano sempre state le note le sue compagne di
vita. Ascoltarle, in una qualsiasi forma, non poteva che fargli
piacere. E passeggiava fischiettando il motivetto latino. Quel
gongolarsi sarebbe terminato da lì a poco.
Risate fragorose dal fondo della via. Impertinenti ed esagerate. Al
solo sentirle si immaginava la bocca sguaiata di chi le produceva.
Avvenne tutto come nei film, in cui l’identità dei
personaggi viene svelata man mano che questi si avvicinano alla
telecamera.
Primo fotogramma: due ‘cose’ in movimento, distinte
tra loro, ma non identificate.
Secondo fotogramma: due individui che andavano da quella parte,che era
la parte di Nobu.
Terzo fotogramma: due donne che camminavano in modo
‘strano’ e indossavano vestiti piuttosto
luccicanti.
A questo punto il biondo aguzzò la vista. C’era
qualche particolare che non tornava.
« O mio dio ... » fu quanto si limitò a
borbottare quando comprese il suo futuro prossimo.
Ultimo fotogramma: due trans, addobbati ed imbellettati come ballerine
del carnevale di Rio de Janeiro, con tanto di copricapi piumati e
frange di pailette, giungevano danzando frenetici.
« Dança o carnaval!» urlava
uno dei due, come un invasato.
«Arriba!» rispondeva l’altro, con grande
entusiasmo, reggendo un grosso stereo.
Non fece in tempo Nobu a svignarsela e fu travolto da quella baraonda
brasiliana.
« Uh! Bel giovanotto! Come mai tutto solo? La tua
ragazza ti ha dato buca?» Wanda, detta “la
Matta”, si accostò al ragazzo, prendendolo sotto
braccio.
«Te la facciamo dimenticare noi la tua bella!
» lo invogliò Zulmira, “la
Capricciosa”, scuotendo il suo silicone a pochi centimetri
dal volto di Nobu, sempre più imbarazzato.
La sua bella.
Per un attimo aveva dimenticato perché era lì e
per un attimo si era reso conto della gigantesca idiozia che stava
commettendo. Rincorrere una donna sconosciuta, intravista in un pub nel
brio dell’ebbrezza. Assolutamente stupido. Cosa cercava? Il
colpo di fulmine? L’amore? Sarebbe dovuto tornare a casa e
smetterla di comportarsi da perfetto adolescente, pervaso di ormoni.
«Cos’è quel muso lungo, bellezza? A
Carnevale nessuno può essere triste!» disse Wanda,
con una punta di rimprovero.
«Carnevale? Ma se siamo ad Ottobre! »
inarcò un sopracciglio, piuttosto confuso.
L’altra (o l’altro?) si
azzeccò a lui, mettendosi al suo fianco, dalla parte opposta
a Wanda.
« Mio caro piccolo coriandolino di miele ... È
sempre Carnevale! » lo affermò con tono giocoso,
ma sicuro di sé. Tirò fuori dalla borsetta una
trombetta di carta e vi soffiò dentro.
Questi (o queste?) due erano totalmente suonate. Ormai ne aveva la
certezza. Fu così che iniziò a divincolarsi dalla
loro presa.
«Mi spiace, ma io devo proprio andare via... »
«Ma no, resta con noi!» Lo strattonavano,
ognuna dalla sua parte.
«Davvero non posso... » insisteva,
spingendole il più possibile lontano da sé.
Un dejavu. Un flash che gli trapassò gli occhi.
Attraversò uno di quegli incroci. Ancora una volta,
percepì la scena rallentata, anche se in realtà
avvenne con maggiore velocità. Ma sono quisquiglie,
ciò che conta è l’oggetto. Le sue
labbra giungessero alla sua vista prima del resto del corpo. Quel
rossetto fucsia era un segno distintivo da chilometri di distanza.
Forse eccessivamente eccentrico, ma nel complesso era perfettamente
intonato. La sua bella si dimostrò bella per la seconda
volta, nella stessa sera. Svanì, poi, con la stessa
velocità della prima volta.
“Prendimi.” Echeggiava questa provocazione mai
pronunciata,se non dal suo intimo desiderio. Fu quest’ultimo
a fargli riprendere coraggio. Strattonò i due trans e se li
staccò di dosso, avviandosi a grandi falcate verso la fine
strada.
Solo, tremendamente solo, seguito solo dalla sua ombra proiettata
sull’asfalto grazie all’illuminazione, che man mano
che la via si esauriva, diveniva sempre più fioco. Di tanto
in tanto sollevava lo sguardo verso il cielo. Troppo nuvoloso per
trovare le stelle. Non c’era niente ad accompagnare il suo
cammino sperduto. Ah già, la sua ombra. Un’ altra
illusione.
. . .
«E
così sei arrivato fin qui ... »
Bruce interruppe il
racconto con il suo vocione rauco.
Nobu, rannicchiato a mo’ di riccio, fissava il marciapiede in
quella notte vuota ed abbandonata a sé stessa.
Annuì appena con il capo, anche se quella di Bruce non era
una domanda, dato che era palese. Stirò la schiena e
poggiò la testa contro un muro di mattoni in cotto.
Stranamente dal nulla gli tornarono in mente le parole della strana
ragazza-ombra. “Chi cerca l’irraggiungibile, trova
solo i suoi limiti”. Un modo originale e sofisticato per
ricordargli che nella vita chi troppo vuole, come si vuol dire, nulla
stringe. Una lezione che stava imparando lì, su quel
marciapiede, con il nauseabondo odore di Smoke che lo fiancheggiava.
Lanciò un’occhiata al suo compare e
iniziò a pensare che in un futuro non molto lontano si
sarebbe potuto ritrovare in quelle stesse condizioni, magari proprio a
causa del suo scarso senso di responsabilità.
«Ma sei proprio sicuro di non aver visto passare una ragazza
travestita da coniglio da queste parti?» La mente elabora
milioni di soluzioni plausibili, vie di fuga ed arrangiamenti. Ma
l’ossessione è più forte di essi, li
sconfigge e cerca ancora un’ ultima possibilità.
«Sì.»
Annoiato, seccato da quel ragazzino, che puzzava di latte e di tartufo
che si era perduto per una sciacquetta qualunque e stava riversando le
sue noie su di lui. Nel frattempo, si accese un’altra
sigaretta. Tabacco, stavolta. Fumò intensamente, quasi
sperasse che assieme alla cenere si dissipassero le relative
preoccupazioni.
«E di questo
locale? Ne hai mai sentito parlare?» proferì
mentre gli allungava quel volantino, oramai ridotto ad uno straccio,
talmente era stropicciato.
Bruce spostò il tabacco verso la mano mancina per poter
reggere il foglio con l’altra mano, che a lui parve
più comoda. Inarcò entrambe le sopracciglia e
avvicinò parecchio il volto al testo. Qualche decimo di
vista gli mancava di certo. Esaminò attentamente la
pubblicità, poi riportò la schiena contro il
muro. Tirò la seconda boccata dalla sigaretta, porgendo al
biondo il pezzo di carta lucida.
«Sì.»
Uomo di molte parole, no? Tuonò quel monosillabo nei timpani
di Nobu, che a momenti voleva rimproverarlo per aver tirato fuori una
simile informazione così in ritardo. Ma non voleva
distruggere quella sensazione: la speranza, la sensazione di non essere
folle, o per lo meno, non completamente.
«Lo
conosci? Me lo sai indicare?» Dalla voce traspariva una certa
eccitazione, che, però, non colpì Smoke al punto
tale da esserne coinvolto. Ne rimase indifferente e si
limitò a dargli la sua maledetta indicazione, puntando
l’indice verso un vicolo poco più in là.
«Grazie!»
Si rimise in piedi in fretta, diede un paio di colpetti ai pantaloni
per scrollare di dosso un po’ di polvere e renderlo quanto
meno presentabile. Nel delirio che lo travolse si fiondò sul
vagabondo e lo strizzò per bene con un caloroso abbraccio,
che lo lasciò più che di stucco.
I suoi passi verso quella stradina divennero una corsetta ansiosa. Non
voleva più aspettare, anche se erano solo trascorse alcune
ore quando l’aveva intravista da Koichi Sato.
Il vicolo si
rivelò cieco e in un angolo appartato era situato quello che
appariva un night club. The Heart Queen. La regina di cuori. Il nome
prometteva bene. Giunse alle porte del night e vi entrò
senza pensarci su troppo.
Bel posto, solito locale per serate tra una birra ed un po’
di musica dal vivo. Sul palcoscenico era pronti gli strumenti per una
band, che evidentemente si sarebbe esibita da lì a poco.
Prese posto a sedere ad uno dei tavolini sotto il palco, ordinando una
bionda alla spine alla cameriera che gli passò di fianco.
Particolare curioso che notò mentre attendeva la bevanda fu
il sottobicchiere. Una carta da gioco, un fante di cuori per la
precisione. E scrutando velocemente gli altri tavoli si accorse che era
una consuetudine del locale usare questi originali sottobicchieri.
Proprio il fante di cuori. Un po’ gli somigliava. Capelli
biondi, sguardo rivolto altrove, verso una foglia, mentre
dall’altra parte, proprio dietro la sua nuca,
un’ascia lo attende impaziente. Macabra, ma molto chiara.
Si ridestò da questi pensieri quando udì una voce
tossire al microfono, per accertarsi che fosse funzionante.
«Eh ehm
...» il microfono fece un breve fischio prima di funzionare
regolarmente. Nobu sollevò lo sguardo per farsi
un’idea di si stava per esibire.
Un donnone, un armadio a quattro ante, con una cresta nera che le
partiva dalla nuca, quattro piercing per orecchio, gilet borchiato, ma
con un enorme cuore a metà petto. Le ricordava Nana, solo
molto, molto, molto più massiccia. Non sapeva il chitarrista
che l’intero locale era stato dedicato alla sua figura. Lo
avevano aperto per permetterle di esibirsi, poi gli affari sono andati
bene, soprattutto grazie ai privè. Era lei la regina di
cuori, anche se tutti avevano iniziato a chiamarla “la regina
di picche”, visto che gli uomini da sempre le avevano
rifilato la celeberrima, in senso negativo, carta da gioco.
Un accordo sordo di chitarra ruppe il silenzio, mentre il distorsore ne
amplificò le vibrazioni.
«YEAAAAAH!»
La voce
della “regina” era paragonabile a quella di un
bufalo. E l’espressione facciale di Nobu confermò
questa teoria. La band si sistemò al suo posto con gli
strumenti e la musica rimbalzò tra le parenti. Era uno
strazio, suoni goffi e stonati che pretendevano di essere una canzona
punk rock. Oltremodo oltraggioso. Cominciò a cercare con lo
sguardo distrazioni alternative e si imbatté in un ometto
che stava a qualche tavolo di distanza ed ascoltava il bufalo con occhi
sognanti. Eccolo il suo “Re di cuori”, ma
perché lei non lo degnava nemmeno di un misero sguardo?
Ancora quel fantasma. Perché lo perseguitava? Era una
punizione? Magari mandata dal Grande Demone Celeste, sotto suggerimento
di Hachi. Mentre compativa il piccoletto, si intrufolò nel
suo campo visivo come un messaggio subliminare. Fuggevole,
imprendibile, ma ancora affascinante, forse ancor di più
proprio per questo.
«Eh no!
Adesso non mi scappi ancora!»
Dichiarò
guerra al suo nemico. Peccato che lo avesse sentito solo lui.
Scattò in piedi e fece un rapido slalom tra gli avventori
che affollavano il night. Doveva prenderla, doveva averla, doveva
essere sua.
Fermati un attimo, piccolo coniglietto. Lasciati prendere. Non lo hai
capito che sei diventata la sua ossessione? Tese il braccio, lo
allungò finchè gli fosse possibile. Poi
sentì una pelle che non era la sua. Tra le dita, stringeva
il suo esile polso. Trattenne il respiro, mentre poteva solo vederne la
schiena. Quella portò il solo viso in sua direzione,
torcendo il collo.
Nobu schiuse le labbra. Cosa le avrebbe detto? Cosa si dice in questi
casi? “Piacere, mi chiamo Nobu Terashima. Tu non mi conosci,
ma io ti amo.” No, non funziona. Come minimo, lo avrebbe
scambiato per un maniaco. Recitarle una poesia? Sì, certo, e
poi avrebbe duello con il suo rivale, sguainando la spada. Cosa si dice
quando hai ottenuto ciò che desideravi?
«Ciao.»
Tristemente banale e fuori luogo. Aveva perso il dono della parola e
non relazionava molto con la realtà. L’aveva
cercata per tutta la sera, si era imbattuto nei personaggi
più bislacchi che avesse mai visto, ed ora che finalmente
poteva dichiararle tutto ciò che sentiva (o credeva di
provare), aveva avuto la geniale idea di salutarla, semplicemente.
Bella mossa.
Le sue iridi pece vennero nascoste dalle palpebre e la sua bocca
divenne un triangolo ridente. Lei rideva, rumorosamente per giunta. Non
era proprio la reazione che si aspettava, tant’è
vero che si ingarbugliò in un’espressione
sorpresa.
«Paga,
pelatone! Paga!»
La voce di Nana
risuonò fino alle sue orecchie. Fu così
rimbombante che si voltò all’improvviso e la vide
accompagnata da Yasu.
«Ho vinto io
e devi pagare.» insisteva, sbattendo il dorso della mano
destra sul palmo della mano sinistra, come a batter cassa.
Yasu scosse la testa sconsolato ma sapeva di aver perso e che avrebbe
dovuto sborsare quei seimila Yen1 pattuiti, in contanti
ovviamente.
«Potrei
sapere cosa significa tutto questo?» Nobu spazientito
chiedeva le spiegazioni, che gli sembravano dovute.
«Io ed il
pelatone abbiamo scommesso che ti saresti innamorato della prima
ragazza che ti avessimo messo davanti. Così Kaori si
è gentilmente offerta per dimostrare la mia teoria: sei
l’eterno innamorato.»
Iin modo esaustivo, ma
non puntuale Nana sfatò gli avvenimenti delle precedenti
ore. Tutto truccato, tutto organizzato. Era la vittima di un piano ben
stabilito. Un campo minato di illusioni.
Avrebbe voluto urlare qualcosa come: “Come ti permetti di
trattarmi così?” ; oppure :“Sono forse
un giocattolo?”; e ancora: “Con chi credi di aver a
che fare? Con un bambino?” Invece non disse nulla. Gli
regalò le spalle ed uscì dal locale amareggiato.
«Mi
dispiace dovertelo dire» un timbro vocale già
conosciuto lo attendeva all’aperto. «Ma io te lo
avevo detto di stare attento a non cacciarti nei guai.»
Quella ragazza, ora la
vedeva bene, era di bassa statura ed aveva i capelli castani che le
arrivano sulle spalle. Per certi versi, somigliava ad Hachi, per altri
era profondamente diversa.
Si affiancò a lei, crucciato, come un cane bastonato. In
fondo sapeva che Nana non aveva torto del tutto, o non aveva torto per
niente. Era un illuso, con la continua tendenza
all’idealizzazione. Che razza di uomo poteva mai diventare?
«Credi che
l’amore sia solo illusione?» sibilò
appena il biondo, rivolto alla giovane, di cui non sapeva nulla, ma
pareva che lei, al contrario, avesse inteso completamente chi era Nobu
Terashima.
«No.
O almeno, non necessariamente. » non si aspettava una tale
risposta. Per questo, ascoltò con molta attenzione il resto
del responso.
«Credo
piuttosto che l’illusione sia amore. Amore verso qualcosa che
non ci appare falso, ma in realtà lo è. E quando
lo scopriamo, ci sentiamo privati di una parte di noi. Come avessimo
perso un amante.» Alla fine del concetto, lasciò
una buona dose di secondi di pausa, che permise a Nobu di comprendere
che non aveva altro da aggiungere.
«Scusa, ti
faccio certe domande assurde e non so nemmeno il tuo nome.»
si passò una mano dietro la nuca, sintomo di un certo
imbarazzo.
«Kinoko.»
poi aggiunse: «Sono la PR di questo locale.» come
se questa informazione fosse rilevante ad identificarla.
Nobu fece roteare le pupille, pensando di aver compreso anche
l’ultimo intrigo.
«Quindi
anche tu fai parte della scommessa ... » La sua fu
un’affermazione. Era ovvio che anche lei era parte di quella
sceneggiata. Altrimenti non si spiegherebbe la presenza sempre nel
momento più opportuno.
«Quale
scommessa?» spalancò i suoi occhioni mogano e
serrò le labbra, disegnandosi un faccino angelico ed
assolutamente innocente, quale era per davvero.
Il giovane mosse rapidamente i bulbi oculari, con fare sospetto.
«Hai
visto? Il cielo è sgombro di nubi.»
Cambiò argomento per sviare l’attenzione su di
sé e su quanto aveva detto.
Infilò le mani nelle tasche e restò con Kinoko a
contemplare la volta stellata.
La notte era
nel suo pieno fulgore e qualunque parola era di troppo. Così
si limitò a far vagare i suoi pensieri, liberi e sciolti.
Se le fiabe esistono,
devono sempre seguire il solito schema?
Se esistono i principi e le principesse, ci si deve obbligatoriamente
invaghire di loro?
E se Grimilde avesse
ammiccato al cacciatore? Se la sirenetta avesse preferito una balena?
Posò un
braccio sulle spalle di Kinoko, nel silenzio sonoro che colorava il
buio.
E se Alice si fosse
innamorata dello Stregatto?
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Note: [1]
6000¥ sono circa 50€.
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