Cap. 1 - UNA NOTTE
SENZA STELLE -
[Ti
agiti perché ami,
sanguini
perché sei stato ferito,
muori
perché hai vissuto.
Crea
il paradiso,
il
paradiso al posto dell’inferno]
Elisa
- Heaven out of hell -
***
L’aria
quel giorno era calda, afosa, pesante. Il sole brillava nel cielo e non
c’era una nuvola. Era estate, era la stagione del caldo
torrido e dei bagni nel fiume. La natura era rinata da poco con la
primavera, e l’estate stava dando il massimo della sua
bellezza. Si potevano sentire in sottofondo il rumore degli insetti che
cantavano o degli uccelli in volo. Il calpestio degli zoccoli dei
cavalli o la corsa veloce e rumorosa dei centauri. Delle verdi colline
coprivano il terreno e c’erano anche dei pini verde smeraldo
di quando in quando. Un sentiero di terra battuta ondeggiava muovendosi
attorno alle piante e ai pendii, il sentiero era una scia marroncina e
dei cespugli bassi lo affiancavano. Al di là del sentiero,
che lo costeggiava, un ruscello scorreva placido, le sue acque
brillavano sotto i raggi cocenti del sole. Lo spettacolo era talmente
bello da mozzare il fiato.
Nella calma
apparente però, qualcuno si stava muovendo silenziosamente
nel bosco, si acquattava e cercava di mimetizzarsi dietro ad un pino.
Il respiro era regolare, i movimenti erano controllati e attenti, un
sorrisino divertito le incorniciava il volto. Sentì un
fruscio e subito si appiattì contro l’albero, si
morsicchiò il labbro inferiore e pregò
mentalmente che non l’avesse sentita. Sgattaiolò
via dal tronco e andò ad cucciarsi dietro ad un cespuglio.
Si aprì un varco tra le foglie con le mani per sbirciare.
Aveva un occhio chiuso mentre l’altro era sbarrato, pronto ad
intravedere ogni più piccolo movimento. Il cipiglio era
innalzato, si stava divertendo un mondo a fare quel gioco.
Strisciò
nella terra e si spostò di parecchi metri. Cercò
di fare il più piano possibile ma non riuscì ad
evitare di far rumore scuotendo le foglie cadute o i sassolini che si
impigliavano nella sua divisa. Imprecò sottovoce e
proseguì. Intravide a pochi metri di distanza un grosso
albero con un grosso tronco. Guardò che ci fosse via libera
e con uno scatto si alzò in piedi e corse fino
all’albero. Il tutto senza creare rumore. Peccato che nella
corsa il respiro si era accelerato e il cuore martellava.
L’avrebbe sentita, lei stessa sentiva come il suo cuore
batteva nel petto e sembrava che stesse echeggiando in tutto il
sottobosco. Controllò a destra. Controllò a
sinistra. Aggirò il tronco per cambiare postazione e se lo
trovò davanti, il suo viso a pochi centimetri dal suo e un
sorrisino inquietante stampato in faccia.
Rebecca
balzò indietro dallo spavento e cacciò un urlo.
Gabriel scoppiò a ridere.
La ragazza
cominciò a correre e lui la rincorse. Scansava gli alberi e
saltava via i tronchi per terra, voltava continuamente la testa per
tenerlo d’occhio. Sperava di poterlo seminare ma lui era
troppo bravo e troppo veloce nella corsa.
In meno di
dieci secondi le fu addosso. Rebecca lanciò un altro urlo e
il ragazzo le prese il polso e la fece cadere. Una volta che si
ritrovò per terra tentò di sgusciare via e di
rialzarsi ma la forza di Gabriel la tenne ben piantata al suolo. Le
bloccò i polsi con le mani e le bloccò le gambe
racchiudendole tra le sue. Rebecca si agitò sotto di lui ma
non riuscì a toglierselo di dosso né tantomeno a
spostarlo. Il bacino del ragazzo spingeva contro il suo e lei rimaneva
a terra contro la sua volontà. Aveva iniziato a sudare
freddo e tutt’un tratto si sentiva esausta.
Sospirò frustrata e si accasciò, inerme. Uno
sorriso vittorioso si dipinse sul volto del ragazzo, scoprendo una fila
di denti bianchissimi e perfetti. Le fece l’occhiolino e lei
per tutta risposta gli mise il broncio. Gabriel scese a baciarle il
collo. La guardò esterrefatto quando sentì dei
mugolii uscirle dalla bocca aperta. Inarcò le sopracciglia e
lei scrollò le spalle come a dire: “che ci posso
fare se mi fai impazzire?”.
Gabriel si
alzò e le tese una mano per aiutarla a rialzarsi. Una volta
in piedi Rebecca si scrollò la divisa verde scuro e si
lisciò i capelli. Gabriel la guardava rapito. Lei gli
sorrise. Lo prese a braccetto e uscirono dal bosco uniti.
Si videro
arrivare incontro due marmocchi di quasi un anno. La bambina buttava la
testa da una parte all’altra cosicché i lunghi
capelli castani svolazzassero al vento, aveva due occhi verdi intensi e
caldi. Il bambino invece correva brandendo una spada di legno, i
capelli biondi erano color del grano e gli occhi grigi erano profondi e
glaciali. Rebecca sorrise e si piegò sulle ginocchia per
prendere al volo la bambina che si era gettata tra le sue braccia.
Gabriel teneva il bambino in braccio e rideva con lui su qualcosa che
si erano detti.
“Emma”
disse Rebecca. “Cosa fate qui da soli? Non sapete che
è pericoloso avventurarsi nel bosco? L’uomo
cattivo è sempre pronto a mangiarvi, è
là, in agguato che vi aspetta…”
Rebecca fece
il solletico alla bambina che cominciò a dimenarsi tra le
sue braccia. La guardò negli occhi e le toccò il
naso con una mano. “L’uomo cattivo?”
domandò divertita.
Rebecca
finse una faccia allarmata. “Emma, non hai mai sentito
parlare dell’uomo cattivo che mangia i bambini?” la
prese in giro.
Emma scosse
la testa divenendo improvvisamente seria. Il fratello la
rimproverò. “Emma, non credere a quello che ti
dice! Non esiste l’uomo cattivo, vero zio?” chiese
con l’aria da “so-tutto-io”.
Gabriel se
lo strinse a sé. “Certo che non esiste,
Ian” lanciò un’occhiata severa alla
ragazza vicino a lui. “La zia è molto brava a
raccontare storie inventate”
Emma si
divincolò dalle braccia della ragazza e scappò
via, seguita a ruota dal fratello che era sceso dalla schiena di
Gabriel. “Lo sapevo che non era vero!”
urlò Emma a Rebecca mentre lei e Ian si rincorrevano sulle
colline.
Rebecca la
guardò e le sventolò la mano. “State
attenti!” urlò a squarciagola perché la
sentissero. Poi i due bambini sparirono oltre un pendio.
Gabriel le
fu vicino e le circondò i fianchi. Rebecca alzò
lo sguardo su di lui. “Non è che sia pericoloso,
vero?” domandò preoccupata, lanciando occhiate
furtive nel punto dove Emma e Ian erano scomparsi.
“Non
si faranno niente, e poi guarda” disse, indicandole con un
dito le due figure dietro di loro.
Denali e
Rosalie li salutarono, si tenevano per mano.
“Avete
visto la mia prole?” domandò Denali con un sorriso
carico d’affetto.
“Sono
andati di là” Rebecca gli indicò il
punto esatto sulla collina.
Rosalie
alzò gli occhi al cielo ma non potè trattenersi
nel ridere. “Mi faranno morire di spavento quei due, non
stanno fermi un attimo. Non ho tutto il tempo, io, di starli
dietro”
Gabriel
battè una mano sulla spalla della sorella.
“Sorellina, immagino che sia dura tenere a bada due mocciosi
ma non puoi permetterli di andarsene in giro da soli”
La ragazza
incrociò le braccia al petto e fulminò il
fratello con gli occhi. “Mi stai dando della madre
irresponsabile?”
Denali, con
timore reverenziale, si avvicinò alla compagna e le
circondò le spalle per calmarla. “Andiamo, Rose.
Andiamo a prenderli”
Rosalie
sospirò e incrociò lo sguardo con il suo ragazzo.
Si diedero un leggero bacio a stampo (Gabriel sussultò e
fece una smorfia schifata) e poi se ne andarono.
Rebecca gli
si avvicinò e gli diede un leggero pizzicotto al gomito.
“Sbaglio o è questa sera che Bastian ha
organizzato una festa in paese?”
Gabriel era
distratto. “In realtà l’idea
è partita da Alan. Non che io ne sia
d’accordo…”
“A
te non va mai bene niente”
“Non
è vero. Dico solo che sarà una
seccatura”
Gli occhi
della ragazza cominciarono a luccicare, il suo sguardo era sognante.
“Ma come fai a dirlo? I vestiti, le danze, i cavalieri, le
dame, gli incontri…”
“Soprattutto
gli incontri, giusto?” sbottò il ragazzo
adombrandosi.
Lei gli fece
la linguaccia. “Guarda che prima che ti conoscessi io ero una giovane
fanciulla scapestrata e libera, che andava a feste e discoteche con le
amiche pazze”
Gabriel
incrociò le braccia al petto e le fece un sorrisino
beffardo. “Questo accadeva prima, ora che sei mia non ti
conviene far tanto la ragazza libera altrimenti ti toccherà
dormire fuori stanotte”
“Giù
le armi, guerriero” gli bisbigliò suadente
all’orecchio premendoglisi contro.
Gabriel fu
attraversato da una scarica elettrica che lo fece fremere.
Amava,
adorava quella ragazza.
La sua era
quasi una devozione divina. Era sacra, pura e buona.
***
Quando
Rosalie e Denali tornarono a casa i bambini erano stanchi e affamati.
Denali si lamentava a tavola del fatto che i suoi figli fossero troppo
vivaci e selvaggi, Rosalie lo ascoltava senza commentare, non la
pensava come lui. Per lei i suoi figli erano così
spensierati e allegri che si divertivano come meglio potevano,
ridevano, si rincorrevano e non stavano mai fermi. Erano felici, che
c’era di male in questo?
Rosalie
stava preparando la cena mentre Denali, seduto su una sedia, la
osservava.
“Potresti
anche darmi una mano, lo sai?” gli disse la ragazza
mescolando con disinvoltura il contenuto nella pentola.
Un forte
profumo di carne e minestra colpì il naso del ragazzo.
Si
alzò e le diede una pacca sul sedere. “Tesoro,
dovresti sapere quanto odio
far da mangiare”
“Per
favore, vai a chiamare i bambini, è quasi pronto”
disse, introducendo un dito nella pentola della minestra e portandoselo
alla bocca.
Denali si
avvicinò silenziosamente e le circondò i fianchi
con le braccia. “Sei incredibilmente bella in questo momento.
Come faccio ad andare dai bambini con te in questo stato? Non posso
certo lasciarti qui da sola” le sussurrò con il
fiato mozzato dal desiderio.
Gentilmente
Rosalie lo scansò. Denali si staccò, il suo
sguardo era un misto tra l’eccitato e il deluso.
“Ok, vado a prendere i tuoi figli”
Lasciò
la cucina con grandi falcate, salì al piano di sopra e
subito sentì degli urletti provenire dalla camera da letto
dei figli. Quando aprì la porta vide che Emma era sotterrata
dal peso di Ian e che questo le stava tirando i capelli fino a farla
gridare.
“Ian,
smettila subito!” tuonò la voce del padre. Il
bambino ebbe un fremito e scappò in fondo alla stanza a
nascondersi dietro la tenda.
Emma, al
suolo e piangente, tese le braccia con fare disperato verso il padre.
Con profonda commozione il ragazzo la prese in braccio e se la strinse
al petto, lanciando occhiate di fuoco al bambino che era ancora
nascosto infondo alla camera. Le accarezzò i lunghi capelli
castani così simili ai suoi, perforando gli occhi grigi di
Ian che erano uguali ai suoi per colore e intensità.
“Ian,
ti ho detto mille volte di non dare fastidio a tua sorella. Lo sai che
puoi farle male, lei è una signorina, non devi essere
cattivo con lei”
Ian fece il
beccuccio e si ciondolò sui piedi. “Non volevo,
lei mi ha chiamato brutto stupido”
Denali
guardò con aria sconvolta la sua piccola figlia adorata che
ora aveva trattenuto il fiato. “Emma, è vero
quello che dice?”
Il silenzio
della bambina parlò da sé. Il ragazzo
sospirò pesantemente. “Ragazzi, non vi voglio
sentir dire quelle parolacce”
“Ma
tu e la mamma lo fate!” lo rimbeccò il bambino.
“Sì,
ma io e la mamma siamo grandi e alcune cose che ci diciamo non stanno
bene che voi le ripetiate. Quando sarete grandi potrete fare e dire
quello che vorrete ma ora, finchè siete piccoli e sotto la
nostra custodia, non dovete azzardarvi ad essere maleducati. Dovete
volervi bene, capito?”
I due
bambini annuirono con pentimento.
Denali mise
già la bambina che ora si succhiava il pollice e la
guardò con amore. “Emma, vai e chiedi scusa a tuo
fratello” il suo sguardo era dolce e adorante. Le tolse il
dito dalla bocca e con una piccola spinta la mandò verso
Ian.
Emma
raggiunse Ian e lo abbracciò.
“Bravi
ragazzi, così vi voglio” disse il ragazzo con
orgoglio, gonfiando il petto. “Ora venite a mangiare, la
mamma ci aspetta”
Il ragazzo
si alzò in piedi e si sentì strattonare i
pantaloni sia da una parte che dall’altra. Alzò
gli occhi al cielo e con un braccio andò a prendere Ian
mentre con l’altro prese Emma. Se li caricò uno su
una spalla una sull’altra.
“Guarda
cosa mi tocca fare” brontolò Denali arrivando in
cucina con i figli in groppa che ridevano come matti.
La cena era
pronta così come anche la tavola.
Rosalie li
osservò divertita e lo aiutò prendendo Ian. Il
bambino, che adorava particolarmente la madre, le riempì il
volto di baci.
“Sapevi
a cosa andavi incontro facendo il padre” disse la ragazza una
volta che furono tutti e quattro a tavola.
Denali la
guardò intensamente. “Non potrei mai pentirmene,
tesoro”
***
Delia e
Kevin camminavano mano per la mano lungo le vie del villaggio.
Entrarono dentro una taverna e presero posto ad un tavolo. Una donna
prorompente di mezza età, volgare e grottesca, li
servì. Erano una di fronte all’altro e per un
po’ rimasero zitti. Delia lanciava sguardi carichi di
ostilità verso la donna della taverna e Kevin seguiva
interessato lo spostamento dei suoi occhi sulla sala. Non
c’erano molte persone, era quasi sera e tutti si stavano
sicuramente preparando per la serata di festa al villaggio.
“Che
donna vergognosa” si decise alla fine a parlare la ragazza.
“Non dovrebbero lasciare ad una donna del genere la gestione
di una taverna”
Kevin prese
il boccale di vino in mano e bevve un lungo sorso. “Glielo
lasciano gestire solo perché porta le api al miele, gli
uomini vengono per lei, intanto bevono e pagano, e i proprietari si
arricchiscono”
“Anche
a me avevano proposto di lavorare qui” disse Delia con
nonchalance.
Il ragazzo
sputò fuori in un getto quello che stava bevendo.
“Cosa?!” urlò sconvolto.
La ragazza,
imbarazzata, abbassò gli occhi. Tenne lo sguardo basso e si
contorse le mani sotto la tavola di legno.
“Che
cosa hai appena detto?” fece lui.
“Me
l’avevano chiesto. Dato che mio padre è il
proprietario della locanda pensavano che me le sarei cavata nel gestire
una taverna”
“E
beh certo! Basta muovere il sedere e far vedere le tette!”
esclamò Kevin completamente fuori di sé.
“Non
parlare così! E comunque ho rifiutato, non sono posti per
me”
“Dico
bene” brontolò.
“Dovresti
smetterla di essere così protettivo nei miei confronti,
Kevin. Sono grande e so risolvermela benissimo da sola quando mi
capitano situazioni simili”
“È
successo altre volte che qualcuno ti importunasse?”
domandò con tono incolore.
La ragazza
scrollò le spalle. “Mah, non mi sono state fatte
proposte indecenti o scandalose però…”
si bloccò nel vedere lo sguardo omicida del ragazzo.
Tossì. “Nessuno mi ha mai rotto le scatole. Sono
stata fortunata” concluse con un sorriso tirato.
La
verità era che quando aiutava suo padre col lavoro capitava
spesso che degli uomini la importunassero. Ma queste seccature non
andavano oltre a delle battute. Ma questo era meglio non dirlo a Kevin.
Delia sapeva, dopo la morte della compagna e della figlia, quanto lui
fosse possessivo con le persone che amava. Dopotutto non le dispiaceva.
La faceva sentire amata.
“E
comunque ora che vivi con me nessuno oserebbe venire a bussare a casa
nostra”
“Praticamente
ringhi ogni volta che uno sconosciuto bussa!”
“Io
mi preoccupo per te, amore. Non dire che non è vero,
sarò anche oppressivo ma lo faccio perché non
voglio che qualcuno ti dia fastidio. Mi irrito altrimenti. Ti lamenti
ora che sono geloso, aspetta di rimanere incinta, sarò
doppiamente geloso!”
Delia
sorrise. “Non sarebbe una cattiva idea”
“Quella
di rimanere incinta?”
“Sì”
“E
ammazzo tutti gli uomini che proveranno ad avvicinarsi a te o a mio
figlio”
“Ma
dimmi, parli tanto di me…hai conquistato qualche cuore
ultimamente?” lo minacciò facendosi avanti con il
corpo.
Kevin si
slacciò il primo bottone della camicia, gli era venuto
improvvisamente caldo. Cercò di assumere un’aria
spavalda. “Apparte il tuo nessuno”
Delia
socchiuse gli occhi fino a ridurli a due fessure.
“Chissà perché non la bevo”
Il ragazzo
buttò le mani in aria e cominciò a parlare come
una macchinetta. Le uniche, poche, parole che lei aveva capito erano
state: “non centro niente”, “non
è colpa mia se le donne mi adorano” e
“non ti ho mai tradita”.
Beh, questo
poteva bastare, no?
Delia lo
interruppe. “Kevin?”
“Sì”
rispose con uno stridulo acuto.
Gli occhi
della ragazza erano due pozzi di profonda dolcezza. “Ti
amo”
***
La piazza
era in fermento, la gente passava apposta lungo la via per poter
così sbirciare il lavoro che Bastian a Alan stavano facendo.
I due fratelli si sentivano continuamente osservati e più di
una volta Alan aveva perso la pazienza.
“Smettetela
di gironzolarci intorno! Stasera vedrete con i vostri occhi cosa vi
abbiamo preparato!” sbraitò ad un certo punto nel
vedere un gruppo di ragazze che si erano fermate e spettegolavano
eccitate sui preparativi. Queste se n’erano andate via
sconcertate e offese. Bastian se la rideva sotto i baffi, continuando a
tagliare la legna. Si asciugò la fronte sudata e
guardò il fratello ancora di schiena che lanciava sguardi
selvaggi nel punto in cui le ragazze erano sparite.
“Alan,
non è così che dovresti trattare la gente del mio
villaggio” lo rimproverò Bastian tirandosi dritto
per sgranchire la schiena a pezzi.
Alan
tornò ad aiutarlo piegandosi con noncuranza sul mucchio
della legna. Prese in mano il machete e spaccò una legna con
violenza. Bastian fece qualche passo indietro, intimorito.
Lo guardava
esitare. “Penso proprio che tu debba trovarti una donna con
cui sfogare i tuoi istinti animali, sai?”
Alan lo
guardò malissimo. “Lo sai che a me non serve la
compagnia di una donna”
Alan era
più giovane di Bastian ma comunque abbastanza grande da
dover mettere la testa apposto e fare l’uomo di famiglia.
Aveva quarantatrè anni.
Prese il
pezzo di legna e lo buttò nella catasta insieme agli altri
già tagliati.
Bastian
schioccò la lingua. “Comunque questo non ti
permette di essere così scortese”
Il fratello
roteò gli occhi, mise per terra il machete e si
pulì le mani sui pantaloni. Guardò il fratello
negli occhi, era un po’ più alto, più
bello e molto più affascinante. “A quanto pare il
mio carattere non è cambiato granchè durante gli
anni passati rinchiuso in una cella”
“Se
posso dirtelo sei diventato ancora più
insopportabile” rise Bastian.
Anche Alan
rise. “Forse hai ragione, mi serve una donna”
Bastian gli
diede una pacca sulla spalla e risero come due bambini. Poi Bastian
puntò lo sguardo verso la legna e quindi verso
l’impalcatura che stavano costruendo. Tornò serio
e pensieroso.
“È
da giorni che ci lavoriamo, speriamo solo di riuscire a finire per
questa sera”
Alan, che
non si scoraggiava mai, finse un’espressione terrorizzata.
“E se non dovessimo riuscirci?! Non voglio pensare alla
mandria di ragazzine che ci inseguirebbero a vita per averle rovinato
la serata del ballo! Dopotutto manderemo all’aria una notte
di rimorchi” disse con un sorriso furbetto.
“Ma
smettila” sbraitò il capo-villaggio. “Ce
la faremo, dobbiamo solo evitare di fare continue pause”
“Non
possiamo chiamare Rebecca?” domandò con occhi
vispi e allegri. “Quella ragazza è una forza della
natura, ci spezzerebbe tutta la legna in meno di venti secondi,
costruirebbe il palco con la magia in due minuti e tutti gli addobbi e
le luci gli farebbe in tre secondi. Senza contare che il tocco elegante
di una ragazza raffinata è perfetto per la serata del
rimorchio”
Bastian
scrollò la testa. In realtà ci aveva pensato
anche lui. “Rebecca è andata ad allenarsi con
Gabriel, come ogni pomeriggio”
“E
quando rientra? Potremmo chiamarla se è già a
casa”
“Non
so se è a casa, in ogni caso possiamo benissimo arrangiarci
da soli”
Alan
sospirò pesantemente. “Tu puoi arrangiarti da
solo, io sono sfinito. È tutto il giorno che taglio legna e
preparo addobbi. Insomma, sono pur sempre un uomo con una
dignità maschile! Che figura che faccio nel farmi vedere a
intagliare roselline e fiocchetti!”
“Finiscila
di lamentarti, è solo per una sera”
“Hai
detto che hai organizzato questa festa in paese per far divertire la
gente del villaggio. È tutto o c’è
dell’altro?” chiese l’uomo.
Bastian
prese un profondo respiro. “In parte è vero, in
parte l’ho fatto perché fra qualche giorno ho
intenzione di mandare gli uomini in una spedizione al di là
dei nostri territori. Pensavo di farli divertire prima di parlargli
della battaglia”
“Battaglia?
Spedizione? Vuoi mandarli in territorio nemico a morire?”
esclamò Alan confuso.
Bastian gli
fece cenno di abbassare la voce. “Dopo la morte di Dark
Threat i suoi seguaci sono scomparsi e fino a qualche tempo fa non
abbiamo più avuto notizie di loro. Però due
giorni fa mi è arrivata una lettera da parte di un nostro
villaggio alleato che vive nei territori una volta appartenuti a
Mortimer. Nella lettera che mi ha spedito il capo-villaggio
c’era scritto che a quanto pare i seguaci rimasti si sono
radunati formando un gruppo armato. Vanno ad attaccare i villaggi con
l’intenzione di riunire i territori di Dark Threat, terre che
sono andate perse dopo la sua scomparsa”
“Ma
non capisco, che senso avrebbe riprendersi tutti i territori dal
momento in cui il loro signore è morto? Loro di certo non
sono in grado di comandare”
Bastian
sembrava preoccupato per qualcosa. “Infatti, non sono in
grado di farlo. Quello che io temo è che lo stiano facendo a
nome di qualcuno” sussurrò gravemente.
Alan
spalancò gli occhi inorridito. “Vuoi dire a nome
di Mortimer? È impossibile, lui è morto! Rebecca
lo ha ucciso!”
“Non
penso sia Dark Threat il loro nuovo signore” disse.
“E
chi allora?” domandò il fratello con una nota di
panico nella voce.
“Io
credo che sia Atreius. Il nuovo erede”
Alan
barcollò indietro e dovette aggrapparsi ad una trave per non
cadere a terra. Le gambe gli tremavano, inarcò le
sopracciglia ed emise un gemito soffocato.
Dovette
sforzarsi molto per aprir bocca e parlare. “Gabriel non
ha…? Non l’ha ucciso?”
Bastian
scosse la testa. Gabriel gli aveva detto che l’aveva visto
lanciarsi dalla finestra del palazzo e cadere nel vuoto. Ma mai lui
aveva messo in dubbio il fatto che fosse ancora vivo, che fosse
riuscito a salvarsi dopo essere precipitato nel baratro del fossato.
Dopo un po’ aveva dimenticato la questione della presunta
morte di Atreius, ma successivamente alla lettura della lettera il
primo pensiero che aveva avuto era stato quello di un Atreius vivo e
potente che prendeva il posto del padre sul trono della casata. Sarebbe
stata l’unica spiegazione plausibile, Atreius era
l’unico uomo che poteva prendere quella
responsabilità. Conosceva il padre ed era stato addestrato
da lui, perciò era logico che avrebbe ereditato tutto dopo
la sua morte.
Se Gabriel
ne fosse venuto a conoscenza sicuramente si sarebbe infuriato, e non
solo per un fatto personale (non aveva ancora digerito la relazione che
c’era stata tra Rebecca e Atreius), ma anche per un fatto di
odio. Gabriel odiava Atreius, non sarebbe stato contento di saperlo
ancora vivo. Anche perché avrebbe significato che lui aveva
perso.
“Non
devi farne parola con nessuno Alan, mi raccomando” lo
avvisò Bastian. “Non finchè non ne
siamo sicuri al cento per cento”
Alan, che
sembrava aver ripreso un po’ di colorito, annuii.
“E quindi tu vuoi mandare un esercito a sterminare i seguaci
di Mortimer in modo da fermare la loro conquista?”
“In
questo momento i seguaci si sono fermati tutti nel villaggio di Numbia,
pare che dopo averlo conquistato e saccheggiato si stiano prendendo un
momento di pausa e riposo. Se mando in tempo un esercito nel villaggio
riusciremo ad ucciderli cogliendoli di sorpresa. Il capo-villaggio,
Hedger, mi ha assicurato il loro aiuto. Numbia è il
villaggio più vicino al castello di Mortimer, potrei
scoprire più facilmente chi sta dietro a questa guerra, se
è Atreius o qualcun altro”
“Intendevi
dirmelo o no? Se è un no immagino che tu mi volessi a
casa”
“Infatti
l’idea di portarti con me non mi eccitava granchè,
dopo quello che ti è successo non vedevo di buon occhio la
tua presenza nel campo di battaglia”
“Non
devi preoccuparti per me, io vengo”
Bastian
tirò su col naso e lasciò cadere le braccia lungo
i fianchi, afflitto e vinto.
“Chi
intendi portare nella spedizione?” naturalmente intendeva
dire chi voleva portare di “speciale”.
“Di
sicuro Rebecca, poi chiederò anche a Gabriel”
“E
pensi che accetteranno?”
“Lei
sì. Lui non so”
***
Dopo la
morte di Dark Threat il castello non era stato ristrutturato,
né tantomeno ripulito. Da fuori sembrava vecchio di secoli,
dentro invece la maggior parte delle stanze, dei corridoio erano stati
distrutti e grossi massi caduti dal soffitto ostruivano i passaggi. La
sala del trono era rimasta uguale nell’arco di parecchi mesi.
Era passato quasi un anno, quasi perché in realtà
erano alcuni mesi. La presenza di Dark Threat sembrava non volersene
andare dal castello, dalla sua casa. Nonostante fosse morto era come se
continuasse a vivere in quelle mura, in quelle sale, in quei corridoi.
Il peso della sua scomparsa gravava sui suoi uomini. Il più
rilassato e tranquillo di tutti rimaneva comunque il figlio. Vezzen, il
fidato servo di Mortimer, aveva affrontato la morte del suo padrone
richiudendosi in un oscuro silenzio, serviva e riveriva
l’erede ma non era più la creatura che era prima.
Non era più fidata, non era più riconoscente
né entusiasta di servire il Male. Ricopriva Atreius di
piaceri e attenzioni ma non appena se ne andava dalla sua camera
digrignava i denti e stringeva i pugni.
Atreius
stava architettando qualcosa, ne era sicuro, anche se non sapeva cosa.
Ogni qual volta che lo faceva chiamare compariva sul suo volto un
odioso sorrisino maligno. Era accerchiato da una congrega di generali e
maghi che lo aiutavano nel suo compito di governare e conquistare.
Atreius parlava sempre molto con i maghi della sua congrega, prestando
meno attenzione ai generali. Vezzen non capiva il perché.
Non capiva come mai Atreius mettesse in secondo piano la guerra e le
tattiche di conquista, privilegiando la compagnia di tre maghi oscuri.
A che potevano servirli?
Ormai stava
scendendo la sera, era quasi buio quando Vezzen fu chiamato dal suo
signore. Lo raggiunse di corsa nella sua stanza. Le sue gambe basse e
tozze lo facevano rallentare, non riusciva ad arrivare prima che il
ragazzo si arrabbiasse per il suo ritardo. Bussò tre volte
alla porta della sua camera da letto e aspettò con magra
consolazione che lui rispondesse e gli permettesse di entrare.
L’ultima volta che era entrato senza bussare gli aveva
ustionato tutte e dieci le dita della mani.
Guardò
le sue mani fasciate da una bianca garza e lo sentì chiamare
il suo nome.
Entrò
un po’ titubante, chiuse la porta dietro di sé e
si portò qualche passò avanti. Si
ciondolò sui piedi, in attesa. “Comandi,
signore?”
Atreius era
di spalle e guardava fuori dall’enorme finestrone. Era il
tramonto, momento ideale per le creature della notte che aspettavano
con bramosia il calare delle tenebre. Il mantello gli copriva il corpo,
il cappuccio la testa.
Si
voltò molto lentamente. A Vezzen mancò il
respiro. Era, se possibile dirlo, diventato ancora più bello
dalla morte di Dark Threat. La magia che aveva sviluppato (nonostante
rimanesse comunque limitato dato che era un Nim e non un angelo) gli
aveva reso i lineamenti del viso molto più raffinati ed
eleganti. Sembrava un principe, ad un felino leggiadro e sadico. Era il
Male che rendeva le persone capaci di diventare talmente tanto belle da
possedere una bellezza inquietante e allo stesso tempo affascinante.
Si era
cacciatori, non prede.
Quando
Atreius parlò la sua voce venne fuori calma e melodiosa.
Faceva davvero paura il suo innaturale controllo. “Questa
notte non devo essere per nulla al mondo disturbato, sono stato
chiaro?” tuonò.
“Certo”
deglutì Vezzen.
Non
prometteva nulla di buono.
“Stanotte
avverrà qualcosa di molto importante, mio caro amico.
Nessuno, e dico, nessuno deve entrare nella mia camera”
Vezzen era
indeciso se parlare o meno. “Signore, se non sono
inopportuno, posso sapere che intendete fare?”
Atreius lo
squadrò da cima a fondo con uno sguardo affilato e duro.
“Sei inopportuno” sibilò. “Lo
verrai a sapere, lo verrete a sapere tutti quanti quando
verrà il momento giusto. Ma per ora ti basti sapere che
potrei diventare molto cattivo se qualcuno dovesse entrare o mi dovesse
disturbare”
“Stia
tranquillo, Signore. Io non lo permetterò”
“Ora
vai e non farti vedere fino a domani mattina” disse il
ragazzo e con un cenno della mano lo congedò.
Vezzen si
trascinò fino alla porta e poi sparì dalla stanza
lasciando dietro di sé il rumore della serratura che si
richiudeva.
Atreius
tornò ad ammirare il tramonto dalla finestra ad arco, il
respiro lento e regolare, il petto che si abbassava e si alzava quasi
impercettibilmente. Non era più il ragazzo impulsivo e
bellicoso di una volta, ora era quello che si poteva definire
“un re”.
Sorrise.
Da una porta
segreta dietro di lui comparvero tre figure incappucciate. Erano i tre
maghi della congrega.
“Ho
sentito il vostro odore quando ancora stavate salendo le
scale” disse il ragazzo non voltandosi.
I tre maghi
si lanciarono tra di loro delle occhiate preoccupate e disorientate.
“Ci
avete fatto chiamare per cosa, nostro signore?”
domandò uno dei tre, quello in mezzo.
“Dovreste
sapere il motivo per cui vi ho fatti chiamare”
Altre
occhiate terrorizzate.
“Ho
intenzione di eseguire con voi il rito questa notte”
Atreius
potè benissimo sentire l’agitazione e la tensione
materializzarsi nei loro corpi. Questi smisero per un attimo di
respirare e il primo che parlò aveva la voce rauca ed
esitante.
“Ma
signore, così presto? Dopotutto è un rito molto
difficile da eseguire”
“Non
voglio sentire storie, signori. Questa notte avverrà la
svolta per tutto il regno della magia e non voglio più
aspettare, sono impaziente di concludere i miei piani”
“Potremmo
sapere almeno a chi intende indirizzare lo spirito?”
Un ghigno
terrificante comparve sul volto pallido e perfetto del ragazzo.
“All’angelo. Rebecca, o Aidel, dipende da come la
chiamate voi. Comunque è lei che voglio”
***
Gabriel
picchiò la fronte altre tre volte contro la porta del bagno.
I palmi erano aperti e una mano di tanto in tanto tentava di aprire la
porta sperando di non trovarla ancora chiusa a chiave. Sentiva dei
rumori provenire dal bagno e tentava di capire che stesse facendo di
così importante da non permettergli di entrare a vederla.
“Rebecca?”
la chiamò con stanchezza. “Mi vuoi
aprire?”
Da
quant’era appoggiato lì, alla porta del bagno a
chiamarla?
Si
tirò su le maniche dello smoking. “Guarda che
facciamo tardi” era seccato.
Sentì
la sua voce che gli rispondeva dal bagno, tranquilla e felice.
“Ma come? Non sapevi che i vip arrivano sempre in ritardo per
poter così attirare l’attenzione di
tutti?”
Gabriel
sbuffò. “Non mi interessa attirare
l’attenzione di nessuno, voglio solo andare a quella
maledetta festa in modo da tornare a casa prima”
La porta del
bagno si aprì tutt’un colpo e per poco Gabriel non
cadde in avanti. Barcollò sul posto e si ritrovò
il volto della ragazza a pochi centimetri dal suo. Tutto ciò
che vedeva erano i suoi occhi truccati di marrone, la sua pelle chiara
e pulita e le sue labbra carnose tinte da un rossetto color albicocca.
Per un attimo il suo cervello non connesse. Poi lei lo baciò
sulla bocca con un bacio a stampo, veloce e leggero, probabilmente non
voleva che il rossetto scomparisse.
“Sei
bellissimo” gli disse con occhi dolci e orgogliosi.
Il
mio ragazzo.
Gabriel non
aveva più fiato in corpo, faticò a ritrovare
l’ossigeno. “Anche tu”
Rebecca
sorrise e alzò gli occhi al cielo. Le sue ciglia erano
lunghissime e nere, definite dal mascara che rendevano il suo sguardo
ancora più magnetico. “Ma se non mi hai neppure
guardata”
Gabriel
lasciò scorrere gli occhi sul suo corpo e man mano che
scendeva con la visuale la bocca si apriva sempre di più.
Rebecca
indossava un vestito color avorio che le arrivava leggero a sbalzi fino
alle ginocchia. Le spalline erano spesse e ripiegate fra loro a formare
delle pieghe, legate poi all’altezza del seno da dei nastri
marroni. La scollatura era abbastanza generosa ed era a V. Il vestito
nel busto era attillato e dalla vita in giù scivolava ampio,
la vita era fermata da un nastro marrone che richiamava quelli delle
spalline. I capelli erano sciolti ed erano tutti a boccoli, dei ricci
morbidi e luminosi che risaltavano il suo colore cioccolato. Ai piedi
indossava dei sandali dorati, aperti e che risalivano alla greca con
dei lacci fino a metà polpaccio. La sua pelle era
così perfetta che con quel vestito così candido e
puro la faceva sembrare una ninfa.
Anzi, una
dea.
La
mia ragazza.
“Sono
contenta che ti piaccia” sorrise, visibilmente compiaciuta
dal modo in cui il suo ragazzo la stava guardando.
Gabriel
sbattè le palpebre un paio di volte prima di riprendere
conoscenza. Per un attimo non ci aveva più capito niente.
Era disarmante la sua bellezza, niente a che vedere con la
volgarità o la semplicità, era talmente elegante
e raffinata che pareva essere fatta di luce.
Era
fortunato ad averla, era stato davvero fortunato che una ragazza unica
come lei avesse scelto lui come il suo compagno. Che avesse scelto lui
per donare il suo cuore. Naturalmente era troppo tardi per tornare
indietro, era diventato troppo possessivo e geloso nei riguardi di
tutti e vederla in quelle condizioni lo fece avvampare.
Avrebbe
dovuto tenerla d’occhio quella sera. Non avrebbe tollerato
nessun tipo di approccio da parte di nessuno.
Maledizione,
era davvero arrivato a quei livelli di amore?
Come si
poteva volere così tanto per sé una persona?
Tanto che ti sentivi soffocare se c’era qualcun altro che
respirava la vostra stessa aria?
Cercò
di sorridere anche se il groppo che aveva in gola gli faceva sentire un
macigno sul petto. “Mi piaci, dico davvero. Sei
stupenda”
Rebecca
aggrottò la fronte, vedeva molta sofferenza nel volto
combattuto del ragazzo. “C’è qualcosa
che non va, Gabriel?” mormorò vedendolo
così triste.
“Sei
così bella che mi fai male”
Rebecca
serrò la bocca e assunse un’aria confusa.
“Ti faccio male? Che stai dicendo?”
Gabriel le
prese una mano e se la portò al cuore. “Mi fai
male qui”
I loro
sguardi si incatenarono e i loro occhi erano talmente colmi di affetto
e sentimento che rimasero parecchi secondi uno di fronte
all’altra senza parlare né muoversi, leggendosi
fin dentro l’anima. Rebecca appariva spaventata mentre
Gabriel era tutto un dolore straziante che lo faceva bruciare.
Dio, quanto
l’amava.
Poi lui
parlò. “Dobbiamo proprio andare questa sera alla
festa?” la sua voce era bassa e roca.
“Che
cosa ti spaventa?” domandò la ragazza che pendeva
dalle sue labbra.
Gabriel si
lasciò andare ad una risata isterica. Lei non rideva. Lui si
staccò da lei, fece dei passi indietro e la fissò
da lontano, il suo volto era nascosto nella semioscurità
della casa. La luce del bagno dietro Rebecca la faceva invece
risplendere.
“Ho
paura persino dell’aria che respiri!”
urlò Gabriel che continuava a ridere nonostante fosse
arrabbiato. “Ho qualcosa di sbagliato? È sbagliato
che io sia così possessivo al punto da diventare
paranoico?!”
“Gabriel,
non è colpa tua” sussurrò Rebecca
completamente sconvolta dinnanzi il suo patimento. “Non
è sbagliato amare troppo una persona”
“Non
mi lasciare” sussurrò con voce rotta.
Rebecca
gemette e gli corse incontro. Lo abbracciò con rabbia, lo
tenne stretto e nascose il volto nel suo petto, sperava che lui non la
vedesse piangere. Sentiva il suo corpo inerme, fermo, pietrificato, non
rispondeva al suo abbraccio, sembrava morto, fissava il soffitto e i
suoi occhi azzurri erano vuoti, inespressivi.
Lei lo
scorlò con forza. “Che diavolo blateri?! Non ti
potrei mai lasciare, mai! Non voglio più sentire questi
discorsi! Ti amo, sei tutta la mia vita, sei il mio migliore amico, la
mia unica famiglia! Come potrei andarmene? Perché mi dici
questo?!”
“Perché
sento che tu te ne andrai”
Rebecca
singultò e per poco non si soffocò con il suo
stesso pianto. Smise di scrollarlo e sbarrò gli occhi a
dismisura.
Da qualche
giorno strani incubi invadevano i suoi sogni, le sue notti, il suo
riposo. Da qualche giorno le era crollato addosso un bruttissimo
presentimento, come un senso di perdita, di distacco. Come se si
sentisse in procinto di partire. La sensazione atroce di un imminente
addio. Era una sensazione strana, vera, palpabile. Rebecca non aveva
mai fatto parola dei suoi sogni a Gabriel, sogni nei quali si vedeva
con due occhi rossi mentre gli ringhiava contro. Sogni nei quali il
letto in cui dormiva non era il suo, e Gabriel non era accanto a lei.
Aveva cercato di non darci peso, di non pensarci su, dopotutto erano
solo incubi. Brutti presagi. Ma ora che anche Gabriel sentiva quella
sua stessa sensazione…come spiegarla? Cosa dire?
Un freddo
glaciale la invase. Sciolse l’abbraccio e con il volto
segnato dalle lacrime se ne andò senza guardarsi indietro,
senza prestare attenzione alla figura del ragazzo che era rimasto a
braccia aperte nel corridoio, silenzioso, confuso, sconvolto.
È
così che inizia la fine?
Con uno
scontro che pian piano ti allontana sempre di più.
***
Gabriel
aprì l’uscio della porta per andare alla festa,
non appena l’aprì un vento gelido lo invase e lo
fece rabbrividire. Aveva sentito Rebecca uscire prima di lui,
probabilmente era già arrivata alla festa. Un moto di
sconsolazione lo attanagliò quando pensò che
poteva aspettarlo, in modo da fare la strada insieme, per essere
insieme.
Sospirò
e si strinse nel suo smoking blu scuro impeccabile. Dire che era
bellissimo era poco. Si lasciò trascinare
dall’aria fredda mentre percorreva a piedi da solo la strada.
Mise le mani dentro le tasche e cercò di farsi caldo
nascondendo la faccia nell’interno del colletto della
camicia.
Era
più buio del solito, notò.
Alzò
gli occhi in alto e rimase basito quando vide che il cielo era nero,
completamente scuro. Non c’era neppure una stella che
brillava. Soltanto tre volte negli ultimi tempi era accaduto che le
stelle mancassero di risplendere. La prima, quando Rebecca era
arrivata. La seconda, quando Rebecca era stata crocifissa. Terza,
quando Mortimer era morto.
E pensare
che le stelle non brillavano quando accadeva qualcosa di veramente
terribile.
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