A Giovanna
in
imbarazzante ritardo,
ma
con molto affetto.
Tanti
auguri!
MEMORABILIA
“And those
were days of roses”
(Tom Waits)
Christopher,
nella sua stanza piena di librerie e teche colme di oggetti,
sollevò gli occhi dal solitario che stava facendo, e si
alzò in piedi per ricevere la donna appena arrivata.
La
guardò intensamente. I capelli nerissimi di una volta erano
diventati un taglio severo color sale e pepe, ma gli occhi erano acuti
come aghi e la figura ancora snella, sempre vestita con abiti
all’ultima moda. –Ti trovo bene-, disse infine.
Lei si
avvicinò per baciarlo sulla guancia.
-Ti trovo bene
anch’io.
Lui sorrise.
Aveva quasi vent’anni più di lei, e ora si vedeva
benissimo.
-Sei una
bugiarda, ma ti ringrazio. Bevi qualcosa?
-Il solito-.
Si guardò intorno. –Mio dio, questa stanza
è un mausoleo, mio caro. Non posso crederci. Sono eccitata
come una ragazzina.
-Un mausoleo.
Ma sentiti. Io la chiamerei più una stanza di memorabilia.
Lei gli si
avvicinò, poi vide le carte sul tavolino vicino a una
finestra, illuminate dalla luce, e scoppiò a ridere.
-Ancora quella
mania dei solitari? Si direbbe che il mazzo di carte sia sempre lo
stesso, dopo tutti questi anni.
Lui sorrise,
mentre le preparava un whisky.
-È
sempre lo stesso. Negli anni ho perso una carta, per il resto
è rimasto intatto, anche se un po’ingiallito. Come
me-, disse, porgendole il bicchiere con un gesto elegante.
-Come riesci a
giocare senza una carta?
-Si tratta del
due di picche. Metto il tre sull’asso.
-Un uomo pieno
di risorse-, sorrise lei. Poi alzò il bicchiere.
Gli era stata
presentata da un collega. Occhi e capelli neri, elegante e dritta come
una spada, con una strana luce annidata negli angoli del sorriso. A
malapena ventenne, italiana, studentessa di archeologia, era scappata
in America a causa del fascismo. –Le dittature mi vanno
strette-, aveva detto, senza peli sulla lingua.
-Rosa
Miani… forse conoscevo un Miani?-. Il nome non gli era
nuovo. Lei sorrise.
-Il mio
trisavolo, Giovanni Miani, fu sul punto di scoprire le sorgenti del
Nilo. Venne battuto sul tempo da due inglesi.
-Dannati
inglesi.
-Gli indigeni
lo chiamavano il leone bianco. Prima di ripartire portò a
casa una sacerdotessa e due coccodrilli.
-Notevole. E
lei?
-Io devo
ancora partire. Le serve un’assistente, mi dicono.
Cristopher non
le aveva dato molto credito, all’inizio. Poi le aveva dato
una possibilità, perché beveva whisky liscio.
Magari è stupido, si disse, ma se una donna non ha paura del
whisky, forse non ha paura di nulla.
Rosa si era
dimostrata preparata, pratica, curiosa. Ottima sportiva, tiratrice in
gamba, intelligenza veloce. Era donna e giovane, ma Cristopher si
ricordava di lady Evelyn Carnarvon, in Egitto, nella tomba di
Tutankhamon. Erano già passati più di dieci anni.
Ci pensava
mentre Rosa esaminava il piccolo scarabeo azzurro che le aveva dato. Le
aveva detto solo che veniva da una tomba egiziana.
-Non capisco
questa iscrizione-, aveva detto lei. –Non ho mai visto questo
tipo di scrittura.
Cristopher
sorrise. Bingo. –Se
è una scrittura. Non assomiglia a niente di noto.
Naturalmente potrebbe essere un caso, se non fosse che ho trovato il
medesimo stile all’interno di una maschera proveniente da una
nave fenicia. Nulla di strano, i commerci nel Mediterraneo erano
normalissimi. Ma poi ho ritrovato questo.- Le mise in mano un piccolo
oggetto che sembrava un uccello stilizzato, antichissimo, con delle
incisioni sopra simili a strani ideogrammi. -In Brasile.
Rosa lo
guardò con le sopracciglia aggrottate, cercando di capire
dove volesse arrivare.
-E, proprio
poco prima di conoscerla, mi è arrivata notizia di un tempio
in India in cui pare ci siano oggetti con le medesime caratteristiche.
Naturalmente dovrei vederli, per verificare.
-Qual
è la sua ipotesi?
-Ci sono
troppi pochi rinvenimenti per poter fare un’ipotesi. Ancora
non ne ho parlato alla comunità scientifica. Ma, con tutte
le dovute cautele, si può parlare di una civiltà
antichissima, probabilmente già estinta o sul punto di
estinguersi quando le antiche civiltà stavano sorgendo, e
abbastanza vasta da diffondersi in tutto il mondo. Se non la
civiltà stessa, quantomeno i suoi lasciti.
-Una cosa tipo
Atlantide?
-È
così che la chiamo, Rosa. Atlantide. Naturalmente non so se
è l’Atlantide di cui parla Platone, se
è qualche altra civiltà leggendaria o se
è qualcosa di completamente diverso. Ma in qualche modo
dovrò pure chiamarla, almeno con me stesso.
-Cos’è
un nome? Una rosa, anche con altro nome, avrebbe lo stesso profumo. Si
va in India?
-Ho amato
molto, dopo di te.
Lui la
fissò, senza sapere bene cosa dire. Quindi le fece segno di
accomodarsi, ma lei preferì continuare a guardare nelle
bacheche. Lui si risedette al tavolino e si mise a mischiare il mazzo
di carte. –Ne sono contento-, disse infine.
-Si pensa
sempre che sia inguaribile, all’inizio. Una ferita che fa
troppo male. Invece poi passa. Passano intere civiltà,
figuriamoci gli amori. All’inizio no, naturalmente. Avevo
qualche uomo, ma non andavano mai bene, non erano abbastanza
intelligenti, abbastanza impavidi, abbastanza affascinanti. Non erano
te. Poi è arrivato lui.
-Ed era
così? Intelligente, impavido, affascinante?
Lei sorrise,
contemplando il contenuto di una bacheca come se si trovasse in un
museo.
-No. O meglio,
sì, ma a modo suo. Intelligente e affascinante in un modo
diverso da te. Anche impavido: non so se si sarebbe buttato in canoa
sulle rapide del Nilo, ma non ha mai avuto paura di amarmi.
Christopher
mise giù la prima fila di carte. Gli tremava leggermente la
mano.
-A proposito
di coraggio, come fai ad avere ancora questo?
Rosa non aveva
mai avuto paura dei templi, prima.
O delle tombe,
o dei palazzi, o di qualunque altra cosa. Ne apprezzava la strana
densità dell’aria, come se le preghiere dei fedeli
vi si fossero condensate dentro. A volte ne aveva soggezione, altre si
sentiva serena, a prescindere dal dio che vi si venerava.
Eppure era in
India e quello era il suo primo incarico vero e lei stringeva un kriss
nelle mani ed era terrorizzata. E la lama del kriss aveva sangue
rappreso, sangue antico, talmente antico da essere nulla di
più che un’ossidazione marroncina. E sangue nuovo,
che veniva da un taglio delle sue mani, o di quelle del professor
Lockwood, o forse era sangue mescolato assieme, il loro più
quello di chissà chi, chissà quando.
-Rosa, mi dia
il pugnale.
Il tono era
deciso e fermo. Il professore la scrutava dietro i suoi occhiali tondi,
un taglio sulla guancia, gli occhi chiari nel viso sporco di polvere
antica. Gli tese il kriss, le braccia rigide.
Lui glielo
tolse dalle mani piano, un dito dopo l’altro.
Le sembrava
che, mano a mano che le dita non erano più a contatto del
pugnale, anche il terrore si allontanasse da lei, un pezzo ala volta.
Le marionette
ghignanti, che si muovevano assieme alle loro ombre enormi.
I demoni con
la pelle blu e le bocche spalancate.
L’aria
stantia, fumosa, che colpiva alla testa e ai sensi e moltiplicava i
riflessi dei mille ornamenti luccicanti delle statue.
La statua nera
dalle otto braccia, ognuna delle quali brandiva un’arma. I
suoi occhi rossi, gli occhi rossi dei teschi che la adornavano.
Il professore
che esaminava la statua. –Il kriss, Rosa. È quello
che stavamo cercando!
La lingua che
si muoveva, o forse no, forse era quell’aria, ma si scagliava
contro il professor Lockwood come una lama, e lui si scansava, ma la
sua guancia sanguinava davvero.
E poi la danza
scomposta e turbinante di quella statua nera, e delle marionette, e
delle teste mozzate che ghignavano e ridevano, e ogni braccio brandiva
un’arma, e Rosa sparava ma la statua continuava a danzare e
deviava i suoi proiettili con la lingua e con le armi.
-Tu non
esisti! Sei solo un mostro creato dalla mia mente!-, aveva urlato il
professore, e Rosa aveva pensato che era pazzo, che sarebbe morto
divorato da quella bocca rossa piena di denti e lei con lui. Ma le si
era avventato contro, e tranciato due delle braccia. In un impeto di
coraggio, o di follia, le aveva strappato il pugnale da una delle mani,
ma la statua l’aveva scagliato lontano. Rosa le aveva
lanciato qualcosa per distrarla, e poi si era accorta che era un
teschio.
-Il pugnale!
Era a terra.
Il professore si era rialzato e teneva a bada la statua. Rosa si
liberò di un demone dalla pelle blu e afferrò il
kriss dalla parte della lama, tagliandosi. Gridò, ma lo
tenne.
Poi la fuga
fuori dal tempio che gli crollava intorno, sotto la danza folle della
statua nera.
Il ricordo
delle guide locali, che non avevano voluto accompagnarli, qualunque
ricompensa gli venisse offerta.
Infine la
salvezza.
Non sapeva se
era una specie di maledizione del kriss, Rosa non aveva mai creduto
alle maledizioni. O se era solo il professor Lockwood, così
deciso nel togliere delicatamente le sue dita serrate dal manico del
pugnale. La sua camicia era quasi a brandelli, una manica praticamente
penzoloni; Rosa si ritrovò a fissargli il braccio, la linea
dei muscoli che non aveva immaginato così, vedendolo col
completo.
Forse il
tempio era davvero maledetto. Forse, se ci sono dèi che
usano le frecce, altri usano il kriss.
Rosa
osservò le dita del professore che sfioravano il pugnale,
poi con un fazzoletto lo ripulivano dal sangue più fresco ,
il loro, mischiato insieme sulla lama. Incise nell’acciaio
c’erano delle parole, forse ancora più antiche del
pugnale e del tempio stesso, rese evidenti dal sangue che vi era
raggrumato dentro. Parole in una lingua strana, in una scrittura mai
studiata prima.
-Se la sente
di fare uno schizzo del kriss, esattamente com’è
ora, Rosa?
Lei finalmente
riuscì a sorridere, e fu come cacciare via da sé
gli ultimi rimasugli di terrore. Prese fogli e matita.
-Abbiamo
rischiato la vita, professor Lockwood. Credo che sia giunto il momento
di darci del tu.
Rosa, come
quando era ragazza, era diretta e decisa. Invecchiando, lo era
diventata ancora di più, considerò Christopher.
Non gli chiedeva il permesso di aprire le sue vetrinette, di esaminare
gli oggetti; e lui non si sentiva di negarglielo, perché
quegli oggetti erano anche suoi, le appartenevano tanto quanto
appartenevano a lui. Non li aveva mai rivendicati, ma non significava
che vi avesse rinunciato.
Sfiorò
con le dita un delicato manoscritto medievale, miniato in oro. Aveva
quel modo, Rosa, di sfiorare con le dita anche la sua pelle, una volta,
quando ancora era un uomo, non un vecchio con la pelle della
consistenza di quella pergamena. Avrebbe desiderato sentirlo di nuovo,
il tocco sensuale di quelle mani.
Per cacciarsi
quei pensieri dalla testa, le parlò.
-Ne abbiamo
passati di pericoli.
Una cosa
banale. Come parlare del tempo o delle mezze stagioni, ma lei sorrise.
-Eccome. Ti
ricordi la fabbrica?
Lui le
indicò un mobile di mogano con le ante chiuse, facendole
segno di aprirlo.
-Come potrei
dimenticarmi la fabbrica?
-Ripetimi come
c’è finito questo qui dentro.
Se Rosa avesse
dovuto fare un paragone, la cosa che ci andava più vicino
era il meccanismo di Antikythera. Solo che questo era pulito,
funzionante, e se ne stava in mezzo a una vecchia fabbrica abbandonata,
dentro quella che sembrava una caldaia. L’aria era caldissima
e soffocante, nelle vasche il metallo rimaneva incandescente nonostante
lo stato di degrado della zona.
-È
il meccanismo che tiene in moto la fabbrica, anche adesso. Forse chi
l’ha trovato è riuscito a farlo funzionare, ma
senza capire cos’aveva nelle mani.
Christopher si
era messo spessi guanti di cuoio e un paio di occhiali da saldatore. Si
avvicinò al meccanismo.
-Qui ci sono
delle scritte.
-Saranno le
istruzioni.
-Forse.
Guarda, ci sono gli stessi simboli del kriss.
-Pericolo?
Attenzione? Oggetto maledetto?
Rosa
sorrideva, mentre faceva sul taccuino uno schizzo del meccanismo. Si
avvicinò per vedere la scritta, il caldo le aveva
appiccicato la camicia alla pelle, lucida di sudore. Christopher si
impose di guardare l’oggetto.
-Non sembra
assicurato particolarmente bene, si dovrebbe riuscire a rimuovere con
facilità.
Lui
sussultò.
-Non so, Rosa.
Non possiamo prevedere cosa succederà, se lo togliamo.
Probabilmente dovremmo studiarlo meglio, capire in che modo continua a
mandare energia alla fabbrica…
-Sì,
e intanto che noi lo studiamo qualcuno realizza che una cosa del genere
potrebbe portare profitti altissimi, e addio meccanismo di Atlantide.
-Qui
dev’essere successo qualcosa, se la fabbrica è
stata abbandonata. Non mi sembra che porti questi gran profitti.
-E tu spiegalo
a tutti quelli che diranno “sciocchezze, io starò
attento”. Compreso il Governo, s’intende.
-Non sono
tutti come il tuo Duce, Rosa.
Lei lo
guardò con le sopracciglia alzate, come se avesse a che fare
con un bambino. –O a noi o a loro, lo sai.
Lui
sospirò. –E va bene. Hai ragione. Allungami quegli
stracci, qui scotta.
Armeggiò
un poco, e il meccanismo venne via. Lo appoggiarono sugli stracci, Rosa
fece degli altri schizzi. Improvvisamente, sentirono il rumore di uno
scoppio provenire da qualche parte dietro di loro.
Si guardarono
in faccia.
-Corri!
Rosa fece
appena in tempo a mettere il meccanismo nella bisaccia, che Cristopher
la trascinò via. La fabbrica si stava incendiando
velocemente, l’aria stava diventando irrespirabile e pezzi
dei tubi cominciavano già a cadere dal soffitto.
Arrivarono
all’uscita, in un inferno di caldo e rumore di esplosioni.
Lui la lanciò fuori dalla porta, ma un’esplosione
più forte delle altre risuonò nelle orecchie di
Rosa, che poi non sentì più nulla.
L’aveva
rivisto solo giorni dopo, in ospedale. Lei se l’era cavata
con poco, qualche ustione. A lui era andata parecchio peggio.
-Sembri una
mummia-. Rosa cercava di ricacciare indietro le lacrime.
-Magari. Di
sicuro le mummie questo prurito non l’hanno mai dovuto
sopportare-. Cristopher sorrise. –Almeno ce l’hai
tu il meccanismo?
Lei
cercò di accarezzarlo, ma all’ultimo momento si
tirò indietro per paura di fargli male.
-Ma certo.
Figurati se dopo tutto quello lo lasciavo ad altri-. Si interruppe.
–Avevi ragione tu. Dovevamo lasciarlo dov’era.
-Penso
funzionasse come un accumulatore di energia. Doveva esserci da qualche
parte un impianto di raffreddamento, togliendo il meccanismo noi
abbiamo fatto surriscaldare qualche macchinario, ed ha preso fuoco
tutto.
-Sono stata
una stupida, tu hai rischiato la vita solo perché io ho
insistito, e non riesco a non pensarci ogni momento!
Lui le prese
la mano. Due grosse lacrime rotolarono giù dalle guance di
Rosa.
-Non mi hai
puntato una pistola alla tempia. Sono i rischi del mestiere, no? Oh,
buongiorno, cara. Benvenuta.
Christopher le
aveva lasciato la mano. Rosa si girò di scatto: sulla soglia
della stanza c’era una signora alta, dagli occhi chiari, che
evitava di guardarla come se non volesse nemmeno prendere in
considerazione la sua esistenza nel suo stesso universo.
-Buongiorno,
Cristopher. Se la prossima volta muori, non farmelo dire da lei.
Rosa scosse la
testa, le mani che tormentavano i manici della borsetta.
–Signora, mi creda, sono davvero dispiaciuta, io non volevo
che…
-Credo che
adesso, Cristopher, tu debba riposare. Non è
d’accordo anche lei, signorina?
Rosa
riuscì a farfugliare un assenso, prima di andarsene dalla
stanza.
-Mio dio, il
maledetto meccanismo! Beh, l’hai ripulito proprio bene.
È in ottimo stato. A proposito… come sta tua
moglie?
-Bene,
suppongo. Ho divorziato una decina di anni fa.
Lei si
girò a guardarlo con un sopracciglio sollevato.
-L’ho
lasciata io. Ti ricordi quando dicevo che non c’era amore tra
noi, e la trovavo una donna incredibilmente noiosa? Forse pensavi che
mentissi.
-Oh, no, mai
pensato. Sono assolutamente certa che lo fosse.
Lui sorrise.
-Ecco, diciamo
che a un certo punto è diventata davvero troppo noiosa. I
figli erano grandi e cominciavo a scavare sempre meno e scrivere sempre
di più. A un certo punto ho capito che per scrivere i libri
e tenere le mie lezioni non servivano i suoi finanziamenti.
Naturalmente si è tenuta quasi tutto, è giusto,
apparteneva tutto a lei; vivo con i diritti d’autore e le mie
conferenze. Ma non sono mai stato un grande amante del lusso.
Rosa sorrise.
Il silenzio era spezzato solo dal suono leggero delle carte, e dai
tacchi di Rosa che camminava per la stanza. A un certo punto si
fermò davanti ad una bella scatola di legno, che conteneva
una pietra bianca, levigata. Rise.
-Non ci credo,
hai ancora questa?
I vapori del
lago Usori rendevano ovattata l’atmosfera. Erano
là per via di una donna, una donna con i capelli neri
diversi dai suoi, che aveva detto loro che il marito aveva trovato uno
strano oggetto sulle sponde di quel lago, e se all’onorevole
professore poteva interessare comprarlo. All’onorevole
professore era interessato parecchio, visto che si trattava di un
frammento di una listarella d’avorio con tre kanji che non
era affatto kanji, così aveva ricompensato la donna ed erano
partiti. Rosa aveva amato moltissimo la vertiginosa Tokyo, ma sentiva
che quel silenzio le piaceva. Cristopher era rimasto a parlare con uno
dei monaci, lei passeggiava lungo la distesa di rocce e pozze sulfuree
che circondava il lago.
Fu
lì che la vide per la prima volta.
La donna, che
sembrava tremolare in mezzo alla foschia del lago, le fece un lieve
inchino e le andò incontro; aveva un sorriso placido come la
luna. Forse era una delle sacerdotesse, pensò Rosa.
Come a voler
confermare questa ipotesi, la donna le mise in mano un rosario
buddista, sempre sorridendo. Rosa aveva l’impressione che
quella donna fosse antica, che quegli occhi vedessero lei e tutto il
resto del mondo, contemporaneamente; accettò il rosario con
un inchino, ringraziando in giapponese. – Nenzu
o kazoete
-, le disse la donna, chiudendole le dita intorno ai grani con tocco
delicato. Rosa annuì, senza avere capito.
-Con chi
parli?-, le chiese improvvisamente Cristopher. Lei sussultò;
vide con la coda dell’occhio la donna che scompariva dietro
una roccia. Per un momento le era sembrato che non avesse un solo paio
di braccia, ma ne avesse infinite, e in ogni mano portasse un dono.
Scosse la testa, forse erano i vapori delle pozze di zolfo che la
ingannavano.
-C’era
una sacerdotessa. Mi ha dato questo e mi ha detto nenzu
o kazoete.
-Conta le
perle. Chissà come mai.
Rosa lo
scoprì poche ore dopo.
La barca che
avevano preso approdò sull’altra sponda del lago,
placida. I due scesero sulla riva.
E a quel punto
il paesaggio cambiò.
I vapori del
lago cominciarono a farsi roventi. Le pozze erano diventate fornaci in
cui uomini e donne nude erano costretti a entrare, bruciando
terribilmente. Persone con la pelle coperta da orribili ustioni
venivano segate in due da demoni con la pelle blu, armati di seghe
arrugginite; altri venivano impalati su tridenti e messi su pozze
ardenti di fiamme, altri venivano costretti a combattere su lastre di
metallo arroventate, con grandi mazze, sempre pungolati dai demoni. Non
si erano ancora accorti di loro, ma presto li avrebbero visti, e allora
di sicuro le loro grida si sarebbero mescolate a quelle degli altri
uomini e donne, sarebbero stati spogliati, bruciati, divorati
vivi…
Rosa,
terrorizzata, si ritrovò tra le mani il rosario che le aveva
dato la donna misteriosa. “Conta le perle”.
Cominciò
a sgranarlo tra le dita, contando a voce alta. Una, due,
tre… pensò che il rosario era piccolo, le perle
sarebbero finite in fretta, e invece no. Le vennero in mente i monaci
che scandivano i sutra con una melodia quasi ipnotica, si
concentrò sui numeri, escluse tutto il resto, il calore, le
fiamme, i demoni, e contò, contò, un numero dopo
l’altro, un grano dopo l’altro.
Quando non
sentì più caldo, aprì gli occhi. Era
sulla sponda del lago, i sassi le pungevano le ginocchia, Christopher
era di fianco a lei, e gridava. La donna che gli aveva venduto la
piastra d’avorio, quella con i capelli neri diversi dai suoi,
gli era sopra e lo guardava, protendendo le braccia verso di lui.
-Ferma!-,
gridò Rosa, afferrando Christopher e tirandolo verso di
sé. Lui si agitò, allontanandola.
La donna con i
capelli neri diversi dai suoi la fissò. Fece una specie di
ringhio. Il volto trasfigurò in una bianca maschera di
mostro, i capelli come corde nere che le volavano intorno.
-Lascialo a
me-, sibilò, -lui non ti amerà mai abbastanza,
lasciami prendere la mia vendetta, fammelo trascinare
all’inferno!
Le parole
dello spirito le risuonavano direttamente in testa, come concetti,
più che come parole. Le fecero male, perché erano
vere.
Non per questo
Rosa era disposta a mollarlo a uno spirito demoniaco; dopotutto, Chris
una moglie ce l’aveva già.
Strinse il
rosario che le aveva dato la donna, continuando a contare i grani.
Christopher era ancora a terra, urlava, cercava di allontanare cose
invisibili. Lo spirito urlava, cercando di distrarla.
-Chris. Stammi
a sentire. Sei qui con me. Ascoltami.
Lui
roteò gli occhi, si voltò verso di lei. Lo
spirito gli si scagliò contro.
-Ti chiami
Christopher Lockwood. Sei un professore. Sei un archeologo.
Ogni perla tra
le dita, un frammento della sua identità. Lo spirito
sembrava non potersi avvicinare, i sassolini del lago le vorticavano
intorno, graffiandola. Ma continuava a parlare nella sua testa,
dicendole quanto fosse vile, incapace di amare, quanto
l’avrebbe fatta soffrire. Rosa non cedette. Ogni perla, un
pezzo di lui. –Siamo venuti insieme in Giappone. Cerchiamo
tracce di quella che chiami Atlantide. Io sono Rosa. Io ti amo.
Come quando ci
si risveglia dagli incubi, Christopher gridò
un’ultima volta e si rizzò a sedere, sudato, con
gli occhi aperti. Lo spirito emise un grido straziante, che li
assordò, poi si dissolse in frantumi. Quando Christopher e
Rosa aprirono gli occhi, c’era solo il cadavere mezzo
decomposto di una donna, i capelli neri e lunghissimi ancora attaccati
al cranio.
Rosa
tentò di stringere il rosario, ma non ci riuscì.
Non aveva niente tra le mani.
Quando
Christopher tentava di ripensare all’accaduto, ricordava solo
i suoi incubi e poi la voce di Rosa che lo svegliava, proprio come
quando si fa un brutto sogno. E, esattamente come in quel frangente, in
pochi minuti si era dimenticato sia il sogno che le parole di Rosa. Le
aveva raccontato che secondo la leggenda quel lago conduceva al mondo
dei morti. In seguito avevano scoperto che la donna dai capelli neri
diversi da quelli di Rosa, era stata uccisa dal suo amante parecchi
anni prima. La listarella d’avorio non era che una banale
pietra levigata, simile a mille altre pietre del lago; -Probabilmente,
ognuno ci vede quello che si aspetta di vederci-, aveva considerato
Christopher.
-Probabilmente
ora che lo spirito della vendetta si è dissolto,
potrà riposare in pace-, aveva detto Rosa.
Avrebbe visto
di nuovo, invece, la misteriosa sacerdotessa che le aveva salvato la
vita con il suo rosario: moltiplicata per mille in un tempio,
sorriderle placidamente in centinaia di rappresentazioni,
misericordiosa, un dono in ognuna delle sue migliaia di mani, gli occhi
anche dietro la testa, per prendersi cura di tutta
l’umanità.
-La tengo per
ricordarmi dei miei errori. Quello è stato letteralmente un
buco nell’acqua.
Rosa
ridacchiò.
-E questa
è stata una battuta proprio pessima.
-Non posso
darti torto-. Poi divenne serio. –Mi sei stata
indispensabile. Non so quanto ci sarebbe stato, in questa stanza, senza
il tuo aiuto.
C’era
tutto il mondo, in quella stanza. Un mattone inciso proveniente dalla
Grande Muraglia cinese. Un’anfora dall’antica
Grecia, con strani dèi raffigurati sopra, iconograficamente
simili ma diversi a come venivano di solito rappresentati. Una mano
mummificata proveniente dai ghiacci della Norvegia, con uno strano
tatuaggio sul dorso.
Lei
annuì. –Anche tu. Eravamo un’ottima
squadra. Non credo che avrei fatto con nessun altro tutto quello che ho
fatto con te.
Lui tacque. Si
tolse gli occhiali, per fissarla meglio.
-Eravamo
più di una squadra. Eri la mia ancora e la mia legge morale.
Eri la mia rosa dei venti.
La loro guida
si chiamava Zelio.
Era un indios
magro e nervoso, che del suo popolo aveva conservato le conoscenze e i
segreti della foresta, e dagli occidentali aveva imparato la logica del
profitto. Era stato lui a condurli in quel villaggio non segnato su
nessuna mappa, in una zona in cui la foresta non era conosciuta ai
discendenti dei conquistadores; era stato lui a descrivergli la statua
che quel villaggio venerava, il loro dio, che non era né un
serpente né un uccello variopinto, ma un idolo umanoide,
misterioso e ieratico. Gli indigeni li avevano accolti con una lieve
diffidenza iniziale, ma tutto sommato senza troppi problemi; rimanevano
perplessi davanti alla loro pelle chiara e agli oggetti che non avevano
mai visto, ma non erano ostili. A pensare che li stavano per derubare
del loro Dio, a Rosa si era stretto il cuore; ma Zelio, che vedeva solo
la ricompensa che gli sarebbe spettata a fine missione, le aveva detto
che gli dèi non esistono, e che quella statua sarebbe
servita di più a loro. Non che Zelio avesse idea di cosa
dovessero farci; sapeva solo che procurare arte indigena agli
occidentali pagava, e pagava bene. Rosa aveva pensato di parlarne con
Christopher, ma poi aveva preferito farci l’amore.
Avevano
litigato, quella volta. Lui aveva di nuovo detto che era una storia che
doveva finire, che lei era giovane e bella, che quello che provava per
lui era sbagliato. –Non è quello che provo per te.
È quello che non provo per nessun altro oltre a te-, gli
aveva risposto lei. E il suo bel discorso sul dio era finito nel
dimenticatoio.
Della bambina,
l’avevano scoperto il giorno successivo.
La statua
veniva custodita in un tempio poco lontano dal villaggio, su
un’altura, ed esposta ai fedeli soltanto una volta in un
anno. Nel tempio c’era il sacerdote, e un paio di persone che
si occupavano di lei. La piccola dea.
Da quando
nasceva, veniva chiusa nel santuario, accudita da gente che non le
poteva rivolgere la parola e nemmeno troppi sguardi; solo al Sacerdote
spettava il compito di comunicare con lei. Una volta all’anno
veniva portata al villaggio, assieme alla statua, per essere adorata
dal suo popolo. All’arrivo delle prime mestruazioni veniva
sacrificata, e cercata una nuova dea. Rosa, che si sentiva schiacciata
dalla situazione, ne aveva parlato con Cristopher.
-Non possiamo
interferire. Sono le loro usanze; a noi sembrano terribili, ma non
possiamo giudicare col nostro metro il loro sistema di valori.
-È
questa la scusa che ti dai? Sei un maestro, tu, nel mentire a te
stesso. Se portiamo via la statua la bambina probabilmente
verrà uccisa.
-E se non la
portiamo via, la bambina verrà uccisa lo stesso, tra qualche
anno. Non c’è una via d’uscita, Rosa.
Non so cosa fare.
-Sì
che c’è. C’è sempre una via
d’uscita, solo che a volte è stretta.
Lui la
fissò intensamente. –Scordatelo. Quella bambina
non è mai uscita da lì, crede di essere una dea.
Cosa pensi che le succederà, se la portiamo via?
Rosa fece una
risata amara. –Non so. Magari muore?
-Ci
penserò. Ma tu ti rimetterai alla mia decisione. Sei la mia
assistente, questi sono i casi in cui non devi dimenticarlo.
Rosa
alzò un sopracciglio. –Come vuoi-, gli disse.
La notte dopo
andarono al santuario. Era stato quasi più difficile uscire
silenziosamente dal villaggio, che arrivarci. Misero fuori
combattimento con facilità il Sacerdote e le due persone che
accudivano la dea bambina. C’erano un paio di trappole, quasi
banali per loro.
E poi una
radura, con in mezzo un grande albero, e una nicchia scavata nel
tronco, decorata da una grata di liane intrecciate con piume colorate.
E c’era la piccola dea. Era una bambina strana, lo sguardo
stupefatto che guastava appena la generale impressione di
ieraticità che emanava. Rivolse loro una domanda. Il tono
era di comando.
La ignorarono.
Fu Zelio ad avvicinarsi per primo all’idolo, rompendo la
delicata gabbia che lo celava. La bambina rise nel vederlo avvicinarsi
alla statua, e disse qualcosa che suonava come un ammonimento.
-Aspetta!
Nel sentire la
voce di Cristopher, l’uomo si fermò.
-Vorrei fare
uno schizzo del ritrovamento. E potrebbe esserci una trappola anche qui.
-Sciocchezze.
Qui c’è l’interdetto del Gran Sacerdote.
Non ci sono trappole perché nessuno oserebbe venire qui, di
quegli uomini!
Zelio
afferrò la statua, e la bambina scoppiò a ridere,
come se si aspettasse qualcosa. Sembrò smarrita quando non
successe nulla e l’indios lanciò il dio a
Christopher.
La guardarono.
Christopher fissò l’idolo che teneva in mano.
Zelio gli faceva segno di affrettarsi.
-Sarebbe
facile. È fatta. Dobbiamo solo andarcene.
Rosa lo
fissò. Aveva gli occhi come l’ossidiana, nella
notte.
- Non
scegliere quello che è facile. Scegli quello che vale la
pena.
Zelio aveva
imprecato quando si erano portati via la bambina, imbavagliandola
perché non gridasse. Li avrebbe rallentati, aveva detto, la
bambina sarebbe morta nella jungla; l’avevano lasciato
parlare.
-Ti
aumenterò il compenso-, aveva detto Christopher. Zelio era
sembrato convinto.
Poi
c’erano stati quei giorni nella jungla; era vero, la bambina
li aveva rallentati, gli indigeni del villaggio erano decisi a
riprendersi quello che gli apparteneva e conoscevano la foresta meglio
di loro. Un paio di volte erano riusciti a sfuggirgli per un soffio.
Finché una notte Rosa era stata svegliata da un rumore di
colluttazione; aveva afferrato la pistola, ma non c’entravano
gli indigeni. Christopher aveva colpito Zelio in faccia, dal labbro
inferiore spaccato usciva un rivolo di sangue. Christopher aveva il
gilet tranciato da un taglio: Zelio brandiva il machete con cui si
faceva strada tra la vegetazione.
-Fermo o sparo!
Nel vedersi
sotto tiro, la guida si bloccò.
-Voleva
uccidere la bambina. E prendersi la statuetta, presumo!
-Ci faremo
ammazzare, così. Perderete entrambe! Io non ho intenzione di
morire con voi, e se volete arrivare al fiume avete bisogno di me.
-Allora inizia
a camminare. Senza fare scherzi.
-Uccidete la
ragazzina. O fatelo fare a me, se siete troppo bravi per sporcarvi le
mani… ci rallenta. Non ci arriveremo mai al fiume, con lei.
-O ci
arriviamo tutti, o non ci arriverà nessuno. Tantomeno tu. Ti
suggerisco di impegnarti, Zelio.
Lui
aggrottò il volto in un’espressione di rabbia. Poi
sembrò quietarsi.
-Va bene, come
dite voi.
Rosa
abbassò la pistola. Fu a quel punto che Zelio, velocissimo,
afferrò la bambina e la frappose tra lui e Rosa, il machete
puntato alla gola.
-Volete la
bambina? Bene, ve la lascio. Auguri. Datemi la statua, se tenete
così tanto alla sua pelle.
Rosa aveva
risollevato la pistola, ma non si azzardava a sparare.
Guardò Christopher. –Dagliela-, le disse lui.
Anni dopo
avrebbe ricordato che la bambina era placida, come se nulla di quanto
le accadesse attorno potesse veramente ferirla. Era davvero convinta di
essere una dea.
Prese la
statuetta e gliela lanciò. Non aveva nemmeno avuto il tempo
di fare qualche disegno.
Zelio
lasciò cadere il machete per afferrare al volo
l’idolo senza mollare la bambina. E fu a quel punto che
Christopher, veloce come un gatto, si tuffò sul machete e
glielo piantò nel fianco.
Si ritrovarono
col fiato grosso a fissare Zelio che faceva bolle di sangue dalla bocca.
-Che dire?
Ottimo lavoro…
-Non mi ha
lasciato scelta.
-Sì
che te l’ha lasciata-. Rosa gli diede un bacio rapido, sulla
bocca. Lui sospirò.
-Non sappiamo
dove siamo.
-Abbiamo una
bussola. Dobbiamo solo arrivare al fiume.
-Quella volta
ho pensato di morire. Quando ho visto il fiume e
l’idrovolante quasi non ci credevo.
Accarezzò
la statuetta, illuminata da una lampadina, che se ne stava impassibile
al suo posto d’onore.
-La piccola
Dea. Mi manda sue notizie, di tanto in tanto. Come sta?
Rosa sorrise,
orgogliosa come una madre.
-È
al suo terzo matrimonio. Viaggia il mondo. Non ha mai smesso di essere
stramba. E credo che nel profondo sia ancora convinta di essere sul
serio una dea… o perlomeno, nessuno degli uomini che
l’ha amata ha fatto un minimo sforzo per farle credere il
contrario.
-È
merito tuo. Una tua creatura.
-Ho anche un
figlio mio, sai.
Lui tacque per
un momento. Fece una serie di mosse particolarmente fortunate.
-Lo so. Era in
una delle foto che Dea mi aveva mandato, anni fa. Erano su un elefante.
-Si adorano.
Dea e mio figlio, non l’elefante.
-Non mi dire.
Sai, una volta mi scrisse che era contenta di non aver maledetto noi
due.
Rosa lo
fissò con sguardo interrogativo.
-Quando quella
guida ha toccato la statuetta, lei gli aveva lanciato una maledizione.
-L’hai
pugnalato con un machete. Non la chiamerei proprio maledizione.
-Le
maledizioni si compiono con i mezzi che hanno, Rosa.
Tu
sei stata il mezzo per la mia, le volle dire. Ma
non ci riuscì.
Una rosa
è una rosa è una rosa.
Rosa nel porto
di Marsiglia, con una rosa rossa nei capelli e un vestito
dall’aria spagnola.
Rosa e i suoi
occhi giovani e bistrati e i capelli legati stretti da quella rosa, e
lui che cercava di pensare al marinaio, al racconto che gli aveva
fatto, a separare il grano dal loglio e lasciar perdere tutte le rose
del mondo.
Rosa con un
bicchiere in mano a fare girare la testa all’orchestra
scalcagnata, ad attirarsi i commenti dei marinai e catalizzare gli
sguardi, la nuca impudica e le labbra rosse sul bocchino nero, e
Marsiglia faceva a gara per accenderle la sigaretta.
Il marinaio
che gli aveva raccontato quella storia, delle rovine che si potevano
vedere solo quando vento e mare erano fermi, e delle sirene con i denti
da squalo che ci nuotavano sopra in cerchio per divorare chi si fosse
voluto avvicinare, gli disse: –La tua donna è di
quelle pericolose. Ha gli occhi del diavolo.
Rosa e gli
occhi neri, le ciglia nere che sbatteva, ma lo guardava, si faceva
versare un bicchiere da un uomo e raccogliere lo scialle da un altro,
ma lo guardava, e gli occhi neri erano liquidi di alcool e ancora
più neri.
-Non
è la mia donna, è la mia assistente.
Il marinaio,
che aveva raccontato del povero Andrè morto di scorbuto e
fatto a pezzi e lanciato alle sirene-squalo, per distrarle, mentre lui
e un altro si calavano tra le rovine per depredarne le ricchezze, lo
guardò con compassione. –Non le sfuggirai mai.
Potrai andare nel posto più lontano del mondo, e ce
l’avrai ancora dentro.
L’orchestra
suonava un tango. Suonava un tango e lo suonava per lei. Rosa ballava
il tango tra le braccia degli altri, la schiena lunga, le gambe
nervose, la rosa rossa così rossa in quei capelli di
ossidiana.
Organizzare
una nave. Trovare l’isola di cui parlava il marinaio, sempre
che esistesse. Il marinaio che aveva riportato in superficie un
pettinino di corallo finemente lavorato, prima che una delle sirene si
portasse via la sua gamba dal ginocchio in giù,
nell’acqua rossa di sangue di quello che era con lui.
Rosa e le dita
di un altro che le accarezzavano il volto, mentre lui accarezzava il
pettinino.
Si era alzato.
Aveva pagato quello che aveva bevuto il marinaio. -È tardi,
torniamo in albergo-, aveva detto a Rosa, tra le proteste degli uomini
che erano con lei.
Rosa era
giovane e aveva gli occhi del diavolo e non poteva sfuggirle.
La sua bocca
sapeva di vino e ubriacava come vino, e aveva fatto l’amore
con lei in un vicolo stretto, le mani appoggiate all’intonaco
che si sgretolava, il viso affondato nella sua rosa rossa e nei capelli
e negli occhi neri di Rosa.
Poi si era
pentito e lei gli aveva detto di non ricominciare, ed erano andati a
cercare l’isola del marinaio.
Mise
giù le carte.
-Non ho mai
smesso di pensarti. Non c’è stata
nessun’altra, dopo di te. Non fare quella faccia, non ti sto
dicendo che mi sono chiuso in convento; ma sei il mio più
grande pentimento e il mio unico rimpianto.
-Mi fa piacere
sentirtelo dire.
-Goditela,
è la tua rivincita. Ti ho rifiutato quando potevo averti, e
ora posso solo rievocare vecchi ricordi e sentirti parlare
dell’uomo che ami. Mi sta bene.
-Mi hai dato
un terrificante due di picche. Magari è ora che te lo
restituisca.
-Immagino che
arrivi per tutti quel momento-, commentò Christopher in tono
amaro.
Lei prese la
sua borsa, e con calma aprì il portafoglio.
Ne estrasse
una carta, gliela mostrò tenendola tra due dita e poi gliela
fece scivolare sul tavolino, come facevano i croupier tanti anni prima.
Era il due di picche.
-L’ho
tenuto tutti questi anni. Come monito all’inizio, poi
semplicemente non sono mai riuscita a disfarmene. Negli ultimi tempi ci
ho pensato in continuazione.
Christopher
guardava la carta consunta. Era stata manipolata, il tempo
l’aveva ingiallita. Come quelle del suo mazzo.
La mise in
mezzo al mazzo e cominciò a mescolare le carte,
meccanicamente.
-Mio marito
è morto quattro anni fa. L’ho pianto molto. Poi ho
ricominciato a viaggiare, mi faceva impazzire stare ferma, senza di
lui. Sono riuscita a vedere alcuni graffiti dell’Ayers Rock,
mi ci ha portato un vecchio sacerdote tatuato. E ho notato questo.
Gli
allungò una fotografia.
Era forse una
delle frasi (se era una frase) più lunga che avesse visto,
nella lingua di Atlantide. Si alzò, confrontò
alcuni simboli con quelli incisi in una lamina d’oro, in un
teschio scolpito a forma di calice. Guardò Rosa, che
sorrideva con quel sorrisetto trionfante che faceva dopo aver fatto
l’amore, il sorriso che diceva che aveva vinto ancora lei,
era in trappola, catturato, di nuovo.
-È
ora che ripartiamo, noi due. Siamo stati fermi troppo a lungo.
-Lo vuoi fare
davvero.
Non era una
domanda. Si accorse persino lui di quanto era suonata elettrizzata
quell’affermazione. Lei annuì.
-Spaventato?
-Terrorizzato.
Mortificato. Pietrificato. Disorientato. Da te.
Rosa sorrise.
-Come sempre,
mio caro.
Note: Questa storia è
stata scritta per il compleanno di vannagio… arriva in netto
ritardo, ma spero che la festeggiata la possa apprezzare comunque!
In secondo luogo, per
trovare ispirazione ho partecipato al contest “Quanti
punti vuoi?”
indetto da DonnieTZ sul forum di Efp. Prevedeva di scegliere una serie
di prompt su cui costruire la storia; se siete curiosi, i prompt che ho
utilizzato sono nel topic del contest, qui specifico solo, per amor di
correttezza, che le frasi “Non scegliere quello che
è facile. Scegli quello che vale la pena.”,
“Non è quello che provo per te, è
quello che non provo per nessuno oltre a te.” E
“Spaventato?” “Terrorizzato. Mortificato.
Pietrificato. Disorientato. Da te.” sono, appunto,
prompt-citazioni e non farina del mio sacco.
Note sulla storia, in
ordine di apparizione:
La citazione iniziale
è dalla canzone “Martha” di Tom Waits,
che potete ascoltare qui. Parla di un uomo avanti
negli anni che ricontatta un vecchio amore. L’ho trovata
perfetta.
Giovanni Miani
è una figura storica esistita davvero. Al Museo di Storia
Naturale di Venezia si possono visionare molti dei reperti ritrovati da
lui, compresa la sacerdotessa e i coccodrilli (mummificati). Guardatelo
in faccia qui, perché
è notevole.
Anche lady Evelyn
Carnarvon è esistita, era pure gnocca, ed ha assistito alla
scoperta della tomba di Tutankhamon. Tra l’altro è
stata la prima a infilarsi nell’anticamera, la fortunella.
Tutto il pezzo in
India, con il “tempio maledetto” e la statua di
Kalì (il cui nome significa “la nera”)
è ovviamente uno smaccato omaggio a Indiana Jones, compresa
la camicia stracciata del professore che rivela il bicipitino sexy.
D’altra parte avevo un archeologo avventuroso, era un omaggio
dovuto.
Il lago Usori esiste
davvero, in Giappone, e secondo la credenza popolare è
davvero una soglia che conduce all’aldilà,
passando dall’inferno buddhista. Mi piacerebbe molto
visitarlo, prima o poi.
La donna
misericordiosa è Kannon, venerata in moltissimi templi in
Giappone. Viene rappresentata con molte braccia e occhi anche dietro
alla testa, per potere vedere e dare aiuto a tutto il mondo.
C’è davvero un tempio in cui è
moltiplicata per mille: si tratta del Sanjusangen-do a Kyoto, in cui
c’è una
sala con mille e uno statue di Kannon. Un colpo d’occhio
notevole, ve lo assicuro.
Il pezzo della dea
bambina lo devo a OttoNoveTre, che mi ha ceduto una sua
idea.
E ora, i
ringraziamenti: la già citata OttoNoveTre, non solo per
l’idea ma per avermi supportato, sopportato, aiutato a
plottare questa storia, betato, incoraggiato, tradotto la frase
giapponese e tutto il resto, e la giudiciA del contest, per avermi dato
qualcosa su cui avevo voglia di scrivere, e non importa come
andrà, ho già vinto.
E naturalmente
ringrazio tutti quelli che hanno letto e apprezzato questa storia, che
si palesino o meno: grazie a tutti!
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