La falena, il rimpianto di Dark Magician (/viewuser.php?uid=1004)
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La falena giaceva immobile, inclinata
su un fianco, la lancia che le trapassava il torace da parte a parte.
La punta riluceva nell’aria secca, intrisa di sangue scuro.
Il ragazzo mosse un passo incerto
indietro, premendo con più forza la mano sulla ferita sul fianco.
Sangue e sudore gli appiccicavano la divisa alla schiena e alle
gambe.
I moncherini delle ali bruciavano, le
scaglie sfrigolavano e si accartocciavano all’interno delle fiamme
azzurre. Si era liberato così tanto Chroma da rendere ogni respiro
un’agonia, avrebbero di certo continuato a bruciare per ore ed ore,
anche dopo aver consumato la carcassa.
La sciarpa bruciacchiata stretta
nell’altra mano, il ragazzo ruotò su se stesso e si allontanò con
passi lenti, trascinandosi sotto il sole cocente.
Non sapeva fin dove sarebbe riuscito ad
arrivare, ma non vedeva altre vie. Tanto valeva scoprirlo, quindi.
*
Attina aprì appena la porta della
camera e sbirciò all’interno per qualche secondo, prima di
spalancarla ed entrare. La zia era tornata al capezzale del ragazzo,
che pareva ancora molto svenuto.
«Come sta?», le chiese, scivolandole
accanto mentre lei esaminava le ferite sul viso del ragazzo.
Non riusciva a capire se era solo
perché zia Anita gli aveva pulito la faccia, ma sembravano molto
meno gravi di quando l’avevano trovato, un paio d’ore prima.
«E’ impressionante»,
rispose Anita. Scostò un ciuffo di capelli bianchi dalla fronte del
ragazzo e seguì con le dita un segno rossastro sulla fronte «Questa
si è completamente rimarginata. Avevo sentito parlare dell’assurda
capacità di guarigione degli Aviatori, ma non credevo… se guarisce
a questa velocità, non oso immaginare come dovesse essere la ferita
sul fianco. È un miracolo che sia ancora vivo».
Anita prese uno strofinaccio da sopra
il comodino e si pulì le mani «Appena farà mattina passerò dai
Vigilanti, prima di andare a lavoro. Lo staranno cercando».
«Non avevo mai visto un Aviatore»,
mormorò Attina. Passò le dita fra i lunghi capelli del ragazzo,
cercando di sbrogliarli. Una volta
lavati e pettinati dovevano essere meravigliosi, avrebbe tanto voluto
riempirli di treccine.
«Dev’essere uno di quelli che hanno
sorvolato la città ieri, temo non abbiano fatto una bella fine. Ma
tu che ci fai ancora alzata? Vai a letto, è anche troppo tardi».
«E se dovesse svegliarsi?».
«Rimarrò qui io, così nel caso-».
Attina corrugò la fronte «Ma zia, tu
devi lavorare! Lo guardo io, tanto domani non ho scuola. Ti preeego»
Attina strinse i pugni e arricciò le labbra, nel tentativo di
ottenere quell’espressione da bambina adorabile che di solito
stendeva gli adulti.
Peccato solo che zia Anita stesse
diventando immune – ma non appena diventata adolescente avrebbe di
certo trovato un’altra faccetta carina con cui sostituirla. Era
troppo comoda per farne a meno, specie con quel fesso del figlio del
fornaio.
«Attina…», mormorò Anita, poi si
portò una mano alla fronte e sospirò «Sono troppo stanca per
discutere. Fai come vuoi, ma nel caso dovesse svegliarsi o peggiorare
chiamami subito».
Attina le rivolse un sorriso
larghissimo «Buonanotte. Mi porteresti il signor Tuffo, prima?».
La zia le rispose con un sospiro e si
diresse nella stanza accanto, per poi tornare con il coniglio di
peluche in mano. Attina lo prese e la ringraziò con un altro
sorriso.
Mentre Anita controllava un’ultima
volta le condizioni del ragazzo, Attina si sedette sulla poltroncina
accanto al letto e vi rimase tranquilla, senza muovere un muscolo,
ciucciando una delle orecchie del coniglio. Seguì vigile ogni
movimento della zia e i suoi passi lungo il corridoio, non appena fu
uscita dalla stanza, fino a che non sentì chiudersi la porta
dell’altra camera da letto.
Solo allora mise di lato il coniglio e
balzò in piedi, e tempo mezzo secondo aveva già cacciato le mani
fra i vestiti del ragazzo, appoggiati su una seggiolina in un angolo.
Sollevò il cappello da aviatore e lo rimirò – ne aveva sempre
adorato la foggia, specie quelle buffe estremità che sembravano
quasi le orecchie di un cane. C’erano schizzi di roba scura
sull’esterno – il sangue di una falena, forse? – ma l’interno
era più o meno pulito, quindi se lo mise in testa e continuò a
frugare.
Fu la sciarpa rossa, in particolare, ad
attirare la sua attenzione. Quando aveva trovato il ragazzo, mezzo
svenuto e delirante in un fosso, lui la teneva stretta saldamente in
una mano, e gliel’avevano dovuta togliere con la forza. Aveva
continuato a stringerla anche privo di sensi, addirittura.
«Sarà un pegno d’amore», borbottò.
Rivoltante.
La distese per tutta la lunghezza che
le sue braccine corte le permettevano. Era strappata e bruciacchiata
in diversi punti, ma con un po’ d’impegno la poteva sistemare.
Magari poteva offrire al ragazzo un servizio di rattoppamento in
cambio di curiosità su quei mostri schifosi che lui e i suoi
colleghi uccidevano per lavoro, dato che alla radio non dicevano mai
molto.
Il fatto che l’abilità nel cucire le
mancasse in toto era poi un dettaglio secondario, tanto se ne sarebbe
accorto solo dopo aver parlato.
Ad un’estremità della sciarpa erano
ricamate – in un modo molto elegante e femminile, a ben vedere,
quindi l’idea del pegno d’amore non era forse così balzana –
delle iniziali, “DvL”. La “v” doveva essere un “von”,
tipico di certi cognomi della gente del sud. Che regione poteva
essere? Hensberg, forse, o Latvnia. Non che ne conoscesse molte
altre, delle regioni del sud, dato che la geografia non gliela
insegnava nessuno.
DvonL poteva essere il nome della
donzella in questione, quindi.
Fissando la sciarpa con un accenno di
disgusto, Attina la poggiò sullo schienale della sedia e passò ad
esaminare la cintura. Sulla fibbia c’era la farfalla trafitta da
una lancia simbolo degli Aviatori, mentre all’interno era incisa
una serie di sigle e numeri che non capiva; le uniche due parole con
un’alternanza di vocali e consonanti di senso compiuto erano
“Adrien Descartes”, e se tanto le dava tanto – le maiuscole
erano un buon indizio – doveva trattarsi del nome del ragazzo.
O magari era un altro pegno d’amore.
Nel resto della divisa poi non trovò
niente di interessante; c’era solo altra robaccia scura, specie
sulle maniche, e sangue del ragazzo. A parte uno squarcio sul fianco
sinistro però non era troppo rovinata, la si poteva indossare
ancora.
O rivendere, nel malaugurato caso il
ragazzo non superasse la notte – era importante tenere il lato
pratico sempre in considerazione, in fondo lei e la zia si erano
distrutte la schiena per trascinarlo fino a casa. Chissà se la
fibbia e i bottoni erano d’argento?
Il ragazzo emise un gemito, e Attina
gli trotterellò a fianco. Gli posò una mano sulla fronte e la sentì
tiepida – niente febbre, almeno. Era ancora pallido come un
cadavere, ma secondo la zia era un miracolo che non lo fosse proprio,
un cadavere, con tutto il sangue che doveva aver perso. E respirava
in maniera tranquilla, quasi fosse addormentato e basta.
Attina sollevò la mano e gli fissò la
fronte, perplessa. Qualcosa non le tornava, ma non sapeva proprio-
oh, giusto, la ferita. Quando zia Anita era uscita era un segno
rosso, poco più di un graffio, ora non c’era proprio niente.
«Rivoltante», borbottò, cacciando
fuori la lingua. Aveva sentito una voce, anni prima, secondo cui gli
Aviatori erano più vicini alle falene che agli uomini, ma credeva
fosse un’esagerazione.
A quanto pareva, proprio no.
Riprese in braccio il coniglio e gli
mordicchiò un orecchio. Doveva chiedere alla zia di lavarlo,
cominciava ad avere un sapore stran-
«Quello è il mio capello?».
Attina si voltò lentamente, l’orecchio
del coniglio ancora fra i denti, e ricambiò spiritata lo sguardo del
ragazzo. Tacque alcuni istanti, poi borbottò «Tanto ora mica ti
serve».
*
«Adrien Descartes è disperso».
«Sta scherzando, signore?», chiese
Dietrich. Il Capitano Werner lo fissò gelido da dietro la scrivania,
oltre le dita intrecciate all’altezza del naso.
«No, dai» Dietrich scosse la testa,
sforzandosi almeno di rimanere sull’attenti. Gli veniva da
vomitare.
«La
falena viola si è rivelata più intelligente del previsto», riprese
il Capitano «Ha distrutto il biplano di Leroy e Durand nel giro di
pochi minuti, e la squadra di recupero ha trovato i resti di quello
di Descartes e Faraday poco lontano. L'unico cadavere mancante è
quello di Descartes, quindi deve essere riuscito a lanciarsi prima
dell’impatto, ma la sua posizione è ancora un mistero. Nella zona
si è liberata una tale quantità di Chroma da rendere impossibile
localizzare la sua lancia».
«Di certo ha raggiunto la falena per
ucciderla», disse Dietrich, un flebile sorriso speranzoso sul viso.
La sentiva proprio, la speranza, sgambettargli fiduciosa nel petto,
mentre il terrore le artigliava la schiena e cercava di trascinarla
giù con sé.
«Dev’essere ancora lì».
«Magari fosse così semplice»,
sospirò Werner, passandosi una mano sulla bocca «La squadra di
recupero non riesce a localizzare nemmeno il Cuore della falena,
quindi non abbiamo conferma alcuna che Descartes l’abbia terminata.
Potrebbe essere oscurato dal Chroma, oppure la falena potrebbe
essersi rigenerata ed allontanata, non abbiamo la certezza che
fossero riusciti a distruggerle le ali. O ancora, qualcuno potrebbe
aver rubato e schermato il Cuore, gli Dei soli sanno quanti
dispositivi schermanti vengano contrabbandati ogni anni. La squadra
di recupero sta battendo la zona palmo a palmo».
Werner fece una pausa, con aria assorta
«Il motivo per cui lei è qui, von Leibniz, è che mi vedo costretto
a cancellarle la settimana di licenza. Con Leroy, Durand e Faraday
morti, mezzo corpo degli Aviatori in missione e l’altra metà in
riposo forzato, ho la necessità di mandarla in supporto alla squadra
di recupero. Se la falena è ancora viva non si sarà allontanata
molto, e va terminata fintanto che è indebolita».
«Sissignore», disse Dietrich,
chinando il capo. Sentiva la bocca secchissima.
«Hangar 6, ha trenta minuti per
prepararsi. Può andare».
Dietrich si batté il pugno destro sul
petto e abbandonò la stanza, per poi incamminarsi con passo svelto
verso i dormitori.
Descartes disperso. Se qualcuno
l'avesse buttato lì anche solo per scherzo gli avrebbe riso in
faccia.
Descartes disperso.
Descartes.
Entrò nella stanza e richiuse la porta
con tanta forza da farla tremare.
La sciarpa di Descartes era ancora dove
l’aveva lasciata lui stesso il giorno prima, buttata in quella
discarica a cielo aperto che era la sua metà di camera. Dietrich la
prese e la soppesò per un istante, prima di gettarsela stizzito
attorno al collo.
Quel cretino. Era un fottutissimo
genio, secondo solo a Coombs che beh, lui era un capitolo a parte,
eppure continuava a cacciarsi nei guai come la più sprovveduta delle
reclute.
Dei, per prima cosa gliele avrebbe
suonate. Perché era escluso, proprio alla radice, che fosse morto.
Probabilmente si era perso in mezzo al nulla come un idiota –
perché quello proprio non era in grado di star fermo cinque minuti –
e stava continuando a girare a caso.
Dietrich afferrò lo zaino, già pronto
per questo tipo di missioni lampo, e si affrettò verso la pista di
volo.
Un’estremità della sciarpa gli
scivolò giù da una spalla e se la ributtò dietro con un gesto
secco.
Non ricordava più molto bene da quanto
tempo la facessero, questa cosa delle sciarpe, perché era convinto
che fosse piuttosto recente, ma gli sembrava di farla da una vita.
Avevano iniziato un giorno in cui quel
demente di Descartes stava lanciando ogni cosa per la camera,
disperato perché non riusciva a concepire una missione senza la sua
sciarpina portafortuna ommieideicomefaròsenza e non la trovava da
nessuna parte, e a Dietrich era venuto così spontaneo lanciargli la
propria che non immaginava sarebbe diventata un’abitudine
scambiarsele. Quelle promesse poco virili della serie “non morirò
finché non te l'avrò restituita!” le aveva poi inaugurate
Descartes, tutta farina del suo sacco, che più melodrammatiche
diventavano le cose più si divertiva.
Per una cosa gli faceva comodo, però.
Non appena l’avesse ritrovato, avrebbe potuto incanalare tutta la
preoccupazione e l’ansia in una scusa patetica come “sai,
rivolevo la sciarpa”, oltre a sfogarsi con un coppino di quelli
forti, da sverniciargli la testa.
*
«Oh, Attina, Dei del cielo!», esclamò
Anita, raccogliendo i capelli in uno chignon «Perché non mi hai
detto che si era svegliato?».
Attina sputò l’orecchio del coniglio
«Non volevo disturbarti. Tanto sta bene, mica c’è fretta».
Descartes accennò un timido sorriso.
«Oh Dei» Anita si aggiustò alcuni
ciuffi ribelli e si avvicinò al letto «Non dovrei nemmeno più
stupirmi. Qual è il tuo nome, giovanotto?».
«Si chiama Descartes, ha detto»,
rispose per lui Attina «Che a pensarci credevo fosse il cognome».
«E’ il cognome», precisò
Descartes.
Attina corrugò la fronte «E’ una
cosa da squilibrati».
«Attina, per carità, taci», sbuffò
Anita. Sentì con una mano la fronte di Descartes e lo esaminò con
attenzione, togliendo le fasciature dalle ferite che gli aveva
medicato il giorno prima.
Attina si sporse per osservare, e come
immaginava erano guarite tutte. Tutte, dalla prima all’ultima –
solo quella sul fianco rimaneva nel dubbio, si vedeva sangue
macchiare i bendaggi.
«Riesci a metterti a sedere?», gli
chiese Anita, ma Descartes le rispose con un altro timido sorriso.
«Mi spiace, signora. Temo di avere
appena la forza per sollevare un braccio».
«C’entra il Chroma, vero? Dovrebbe
bastarti un po’ di riposo, in tal caso. Se l’hai usato per
curarti non-».
«Che cos’è?», la interruppe
Attina, ma Anita proseguì senza degnarla di attenzione.
«-Non mi stupisce che tu ti senta a
pezzi. Ma non preoccuparti, presto riceverai cure più specifiche,
giusto il tempo di avvertire i Vigilanti».
Gli occhi di Descartes si allargarono
tanto da sembrare due piattini da tè.
«No, la prego. Non…» si portò con
una lentezza snervante – come se gli costasse una fatica immane –
una mano alla fronte e se la massaggiò «Non voglio che sappiano che
sono ancora vivo».
«Sei un ricercato?», esclamò Attina.
La prospettiva la eccitava, aveva spesso fantasticato di fuggire a
scoprire il mondo con un delinquente.
A ripensarci, forse era per quello che
la maestra aveva voluto vedere zia Anita dopo il tema “cosa farò
da grande”.
Descartes scosse appena la testa «Io…
i miei ricordi sono ancora un po’ confusi, ma ci sono cose…!».
«Cose...?», chiese Anita. Assottigliò
gli occhi nella sua tipica aria sospettosa alla “so che hai fatto
qualcosa, confessa” – e spesso ci prendeva pure, eh, ma Descartes
sembrava sinceramente sconvolto.
«Cose...?», disse anche Attina, tanto
per mettere pressione.
«Ho… credo di aver visto cose che
non avrei mai dovuto vedere. Davvero. Non… la prego, voglio fuggire
altrove. Non credo che avrò un’altra occasione. La scongiuro».
«Mi piacciono gli uomini che
supplicano», disse Attina «Dai, zia, al massimo se non ti fidi lo
leghiamo al letto. Mi sono allenata un sacco con Antonio, faccio dei
bei nodi».
Anita corrugò la fronte. Chissà che
le passava per la testa, sembrava terribilmente combattuta.
«Non approfondisco ora», disse alla
fine, sciogliendosi in un sospiro «Solo perché non ho tempo. Dubito
che sarai in grado di muovere anche un solo passo prima che io torni,
quindi non credo tu possa fuggire con i gioielli di famiglia o dare
fuoco alla casa».
«Perché non hai detto “fare del
male alla mia adorata bambina”, eh?», puntualizzò Attina «C’è
un sacco di gente che farebbe la fila per rapirmi».
«Mi farebbero solo un favore»,
rispose Anita. Cambiò rapidamente la fasciatura alla ferita sul
fianco, disinfettandola con attenzione. Sanguinava ancora, ma in
maniera molto più lieve del giorno prima, e Attina non aveva dubbi
che entro un giorno al massimo si sarebbe richiusa come tutte le
altre. Una particina della sua mente sperava gli rimanesse almeno la
cicatrice – così, perché un po’ lo augurava sempre a tutti.
«Attina, mi raccomando», le ripeté
Anita «Non scocciarlo tutto il giorno. Tienilo d’occhio ma con la
bocca chiusa, per carità».
«Questa tua mancanza di fiducia nei
miei confronti mi ferisce», disse Attina, assumendo la migliore aria
affranta nel suo repertorio.
«Mi chiedo perché io continui a
sprecar fiato in questo modo», sospirò Anita, e afferrate giacca,
borsa e ombrello uscì di casa. Attina rimase sull’uscio a
salutarla finché non la vide sparire dalla visuale, poi tornò
dentro e trotterellò per un po’ nel piccolo salotto – aveva
appoggiato il signor Tuffo da qualche parte, ma non ricordava dove.
Tornò nella camera della zia, ma niente, non era nemmeno sulla
poltroncina.
«Hai visto il signor Tuffo?», chiese
a Descartes. Lui socchiuse gli occhi e piegò la testa di lato.
«Il coniglio? Non credevo potesse
passare inosservato».
«E’ che è bravo a nascondersi, sai.
L’altro giorno l’ho perso di vista cinque minuti e l’ho
ritrovato nel frigorifero».
«E chi ce l’ha messo, nel
frigorifero?».
Attina si passò una mano sul mento «E’
una bella domanda. A volte non so se sono più fuori io oppure la
zia».
Perché insomma, di non essere a
postissimo l’aveva sempre saputo, ma pure zia Anita a volte non
scherzava.
«Mi è parsa piuttosto nella norma»,
disse Descartes – e quello che aveva lasciato sottinteso era un “al
contrario di te” che, doveva ammetterlo, poteva anche starci.
«Aspetta di vederla arrabbiata, poi
cambierai idea», ridacchiò Attina. Si sedette sulla poltroncina e
portò le gambe al petto, stando ben attenta che la gonna non le
scivolasse indietro, sulle cosce.
«Non capisco, cos’hai visto di così
sconvolgente da preferire fuggire e farti passare per morto? Non hai
una famiglia, degli amici? La fidanzata della sciarpa?».
Descartes si portò una mano alla
fronte – di nuovo, una posa così tragica che neanche un attore di
teatro! – e sospirò.
«Non è facile da spiegare e non posso
dirti niente, sappi solo che-» si interruppe e la guardò crucciato
«La cosa? La fidanzata della- oh no, no, hai frainteso. Non ho una
fidanzata».
Guardò un attimo in alto con sguardo
vacuo, come se cercasse di far mente locale, ed aggiunse: «Credo.
No, no, non ce l’ho sicuro. La sciarpa è… di un amico».
Un altro sguardo vacuo, questa volta
diretto verso la sciarpa rossa, ancora poggiata sullo schienale della
seggiolina.
«E tu fai cose così femminili con i
tuoi amici?», ridacchiò Attina «Accipicchia. Domani ti faccio una
coroncina di fiori».
Descartes sospirò «Mi fa male la
testa. Non… non ricordo molto bene» per un attimo il suo viso si
corrucciò, poi si distese in un sorriso «Ma temo di sì. È molto
grave?».
«No, anzi», disse Attina «Mi
solleva. Le cose fra fidanzatini mi disgustano, piuttosto preferisco
questa vaga omosessualità latente, dev’essere comune in certi
ambienti. Leggevo così. Mi piace leggere. Hai notato quanto riesco a
parlar colto? Non sbaglio un verbo».
«Quanti anni hai, Attina?», le chiese
Descartes. Si voltò poi a fissare la pioggia che batteva contro la
finestra – chissà a che stava pensando.
«Dodici fra qualche settimana. È
frustrante, perché sono moolto più colta e intelligente di tutti i
marmocchi qua attorno, ma a scuola mi tocca ricamare. Non che mi
importi tanto, eh, mio padre mi ha già dato tutte le conoscenze che
mi servono per perseguire il mio sogno».
«Il tuo sogno?».
Attina annuì «Quando sarò adulta
gestirò un bordello. Ho già tutto nella testa! Mi mancano giusto
due cosette, l’età e i capitali». Secondo motivo per cui la
maestra aveva voluto vedere zia Anita, tra l’altro.
Descartes tornò a fissarla e corrugò
la fronte.
«Ma perché mi guardate tutti così?»,
borbottò Attina «Mica voglio lavorarci, voglio dirigerlo! È
redditizio».
«E che conoscenze ti avrebbe dato tuo
padre?», chiese Descartes. Suonava quasi preoccupato.
«Eh? Oh, no, non pensare male. Mi ha
solo fatto leggere tante cose. Era un insegnante, sai?».
«Era?».
Attina strinse la gonna all’altezza
delle cosce.
«Sai com’è, non è che vivo con zia
Anita perché sono in vacanza».
«Oh», disse solo Descartes, e tacque.
Attina si massaggiò le cosce a lungo.
Aveva tanta voglia di mordere l’orecchio del signor Tuffo, perché
spariva sempre nei momenti più inopportuni?
Il rumore di qualcosa che batteva
contro la finestra la fece sobbalzare.
Alzò lo sguardo e scorse chiaramente,
fra la pioggia scrosciante, quella sagoma scura che aveva già visto
migliaia e migliaia di volte.
Di nuovo la figura batté contro il
vetro, e Attina raggiunse la finestra sbuffando scocciata.
«Vattene via», sibilò, tirando le
tende.
«Con chi parli?», le chiese Descartes
«C’è qualcuno?».
«Lascia stare, non-» Attina si
interruppe. Sentiva il ticchettio delle gocce d’acqua che battevano
sulle assi del pavimento.
Prese un respiro profondo e si voltò
verso Descartes, che la fissava perplesso e non poteva vedere la
mamma in piedi accanto a lui. La mamma gocciolava acqua e sangue, che
colavano dal viso distorto e dal corpo livido avvolto in vestiti
stracciati. Gli occhi ruotarono dentro le orbite infossate e
ricambiarono lo sguardo di Attina, mentre la bocca sillabava parole
che – grazie agli Dei – se non altro in quel momento le era
concesso non sentire.
«Attina?», la richiamò Descartes, e
un attimo dopo la mamma non c’era più.
«Attina, va tutto bene?».
Attina si strofinò le tempie,
strizzando gli occhi. Possibile che fosse il tempaccio fuori, ma era
già la seconda volta che vedeva la mamma, quella settimana.
Zia Anita non sarebbe stata felice di
sapere che le allucinazioni cominciavano di nuovo a peggiorare.
*
Cazzo, quanto avrebbe voluto un
ombrello.
«Quindi questa è…» Dietrich lasciò
in sospeso la frase e colpì con la punta del piede quel mucchio –
anzi, era più un pastone – di roba bruciata che gli si parava
dinnanzi.
«La falena, sì. Ciò che ne resta»,
gli rispose l’uomo accanto a lui. Aveva la giacca nera degli
scienziati e la postura di un avvoltoio, due caratteristiche che
glielo misero subito in antipatia.
E aveva un ombrello. Nero, ovviamente,
come l’uccellaccio che era.
Tre cose, quindi.
«Grande», borbottò Dietrich. Allentò
la sincronizzazione con la lancia e portò l’altra mano a
sostenerla, quando tornò al suo peso naturale.
Era d’una scomodità immane, ma
pulirla era sempre una rottura infinita e già affondava nel fango
fino al polpaccio, non gli pareva il caso di poggiarla per terra.
Figuriamoci poi smontarla e rimetterla nella sacca.
«Non è rimasto molto. Descartes?».
Lo scienziato si strinse nelle spalle
«Per quel che vediamo, potrebbe anche essere qui in mezzo».
«Eh? È… è carbonizzato?», chiese
Dietrich, gli occhi sgranati, e di nuovo lo scienziato strinse le
spalle.
«Oh, andiamo, le sue fiamme non… non
potrebbero carbonizzare un corpo, no? E poi… i denti rimangono, no?
E i bottoni della giacca! Le fiamme di Descartes non-».
«Se vuole cercare i bottoni è libero
di farlo», rispose lo scienziato, indicando con una mano la distesa
di fango e resti carbonizzati tutt’attorno a loro «Non è una
priorità, al momento».
Fanculo.
«La priorità è il Cuore, immagino.
Dov’è?».
«Appunto».
Dietrich sgranò di nuovo gli occhi
«Quindi l’hanno davvero rubato? Ci sono tracce?».
«Difficile che siano rimaste. Nemmeno
una scia, nemmeno una» lo scienziato strinse i denti, e una profonda
ruga gli tagliò a metà la fronte «Dovevano essere ben preparati,
visto come lo hanno mascherato efficacemente. Chissà cosa pensano di
farne, quegli scarti della società».
«E se-», disse Dietrich, ma si
interruppe. Per un attimo aveva valutato la possibilità che
Descartes si fosse portato via il Cuore da solo – non che ne avesse
motivo, ma quello lì era imprevedibile. Però aveva visto un Cuore
di falena, una volta, e gli avevano detto che era troppo pesante
perché una persona riuscisse a portarlo via da sola. Oltre a essere
una roba super pericolosa, da farti venire un cancro fulminante alle
mani dopo averlo toccato senza guanti isolanti.
Inoltre già il contatto con la
minuscola scheggia di Chroma cristallizzato dentro la lancia dava
problemi ai portatori di Chroma, almeno finché non venivano
sincronizzati, figurarsi una quantità immensa come un Cuore appena
formato. Quindi, anche se fosse stato possibile, Descartes non se ne
sarebbe comunque andato molto lontano.
«Quel Descartes potrebbe anche essere
in combutta con coloro che hanno trafugato il Cuore», disse lo
scienziato. Dietrich ne dubitava, ma se questo voleva dire che
l’avrebbero cercato con maggior enfasi, beh, ben veniva.
Che diamine, però. Passavano ore e
ore, dal primo istante in accademia fino al diploma e poi ad ogni
missione, a ripetere loro quanto erano importanti per lo stato,
quanto il loro apporto fosse fondamentale nella lotta alle falene e
come senza di loro sarebbe stato tutto drasticamente diverso…! E
poi quando morivano o scomparivano pareva quasi gli facessero un
favore, a tutta ‘sta gente del governo.
«Ma qualcuno si sta almeno
preoccupando di cercarlo, Descartes?», sibilò a denti stretti, e lo
scienziato annuì appena.
«In tal caso mi unirò a loro. Tanto
dovrei essere in ferie, io» e poi lui e Descartes si erano già
sincronizzati una volta, aggiunse mentalmente, quindi avrebbe potuto
percepirlo un minimo.
Non lo disse ad alta voce giusto
perché, quando si parlava di due piloti sincronizzati, gli
scienziati pensavano sempre al sesso e non a cose più comuni e meno
imbarazzanti, tipo una banale rianimazione con respirazione bocca a
bocca. In genere cercava di non far sapere questo dettaglio in giro,
si vergognava troppo all’idea che qualcuno avrebbe potuto
fraintendere – e quel cretino di Descartes era solo il suo migliore
amico, niente di più.
Dietrich si allontanò dallo scienziato
e si riparò sotto la tenda che era stata montata poco più in là,
fuori da quell’ammasso fangoso in cui coltivavano chissà cosa.
Sfilò la sacca dallo zaino e vi cacciò
dentro la lancia, dopo averla accuratamente smontata; lasciò poi
tutto lì e tornò sotto la pioggia battente, nel campo, a
percorrerlo a passi lenti alla ricerca di qualsiasi traccia residua
di Descartes. Poteva esserci qualche segno così lieve che gli
strumenti non avevano percepito, doveva esserci.
Descartes non
poteva essere davvero morto così, contro una falena. Non lui, lui
era uno di quelli speciali.
A
ripensarci, c'erano venti centimetri di fango e una pioggia
insistente anche quel giorno, la prima volta in cui Descartes aveva
usato le fiamme.
Quanti anni erano passati, ormai? Sei,
forse sette. Era difficile da quantificare, quelle giornate di vita
militare erano talmente uguali le une alle altre che potevano essere
passati dieci, cento o mille anni e nei suoi ricordi non avrebbe
fatto differenza.
C’era quell’istruttore, al tempo,
quel sergente fuori di testa con un nome pieno di k, una cosa tipo
“Kanikken”, che godeva come un matto a vederli strisciare nel
fango o scavare buche o cose del genere, sempre sotto la pioggia
gelata di Latvnia e sempre mezzi nudi. E come si divertiva poi ad
umiliare Descartes, che con le sue braccine deboli faceva a malapena
venti flessioni prima di crollare a terra. Ricordava le facce
stravolte dei suoi commilitoni come se le avesse avute davanti in
quell'istante, e un brivido gli corse sulle braccia mentre la risata
isterica di Descartes gli rimbombava nel cervello.
Era stato solo un istante; Descartes si
era alzato dal fango e un secondo dopo il sergente non aveva più un
braccio, così, di punto in bianco, e tutto attorno c'erano residui
di quelle fiammelle azzurre.
E la gioia dei loro superiori! Aveva
del paradossale, gli saliva l'angoscia a ripensarci.
La lancia di Descartes era poggiata su
un tavolo da campo. Si era curvata talmente tanto da formare un
semicerchio, ed era tutta corrosa e perdeva pezzi solo a guardarla.
Dietrich si aggiustò la sciarpa
attorno al collo.
Descartes amava quella lancia, la
puliva e curava come un genitore con un figlio – cosa paradossale,
viste le condizioni medie della sua metà di camera. Di certo gli si
era spezzato il cuore, ad abbandonarla.
Strano non se la fosse portata dietro.
*
Il ragazzetto biondo stava
dondolando sulla sedia da qualcosa come venti minuti, e la faceva
battere al suolo con una ritmicità snervante.
«Che cazzo», sbottò Dietrich, e
di certo anche gli altri sei ragazzi nella stanza la pensavano allo
stesso modo «Vuoi darci un taglio? Hai rotto».
Il ragazzetto si bloccò e lo fissò
con lo stesso sguardo smarrito di un bimbo di tre anni.
«Scusa», borbottò, portando le
ginocchia al petto «Scusa. Scusa. Scusate».
«Guarda che non sei l’unico ad
essere nervoso, eh», disse Dietrich, soffiando via da un occhio una
ciocca di capelli neri. Il ragazzetto annuì ed attaccò a grattarsi
una guancia.
O scarnificarsi, forse, visto che
dopo mezzo minuto era già diventata d’un rosso acceso.
«Ma stai fermo un attimo!», sbottò
Dietrich. Gli diede uno schiaffo alla mano e il ragazzetto lo guardò
di nuovo smarrito.
«Mi avevano detto che ce n’era
uno matto, quest’anno», commentò uno degli altri ragazzi.
Dietrich sbuffò e scosse la testa.
«Io sono Dietrich von Leibniz,
comunque».
Il ragazzetto batté le palpebre,
gli occhi sgranati come due piattini da tè «Descartes. Adrien.
Adrien è il nome, ma non mi piace. Era il nome di mio nonno. Che
schifo. Non chiamarmi Adrien, i vecchi mi fanno ribrezzo».
«Va bene, va bene, come vuoi»
Dietrich si allontanò appena, discretamente «Ti chiamerò
Descartes, allora».
Il ragazzetto gli rivolse un largo
sorriso, e Dietrich cercò di ricambiare – in realtà l’unica
cosa che avrebbe voluto cambiare era il posto, e preferibilmente con
il ragazzo all’altro capo della stanza.
Il ragazzetto sembrava uno di quelli
che uccidono le vittime in ordine, quindi, per sicurezza…
*
«Non dovresti mangiare prima di cena,
ti rovini l’appetito».
Attina guardò storto
Descartes e leccò i residui di sale dalle dita «Cos’è, scoppi di
istinto materno o ti sei fatto plagiare da zia?».
Già aveva un mal di testa atroce, in
più zia tardava, il signor Tuffo non era da nessuna parte e ancora
non aveva smesso di diluviare. Qualche seme di zucca poteva
concederselo.
«Mi annoiooo», piagnucolò,
affacciandosi alla finestra in punta di piedi.
«Potresti andare a casa dei tuoi
amichetti», disse Descartes – suonava tanto come un “ti prego,
levati di torno”, e aveva un che di comprensibile.
Attina rise «Amichetti, come no. Gli
altri bambini mi danno ai nervi, specie quegli spericolati che mi
mandano quei bigliettini insulsi, quelli “ti vuoi mettere con
me???? Sì o no”».
«Spericolati?».
«Eh, dev’essere proprio il gusto del
pericolo che li attrae, non me lo spiego altrimenti. Più li
maltratto più insistono. Comunque cascano male».
Attina sospirò e lisciò i codini,
guardando verso l’alto con aria sognante.
«A me piacciono con la barba. Il tipo
virile, con gli addominali scolpiti. Il tuo opposto, non so se mi
spiego».
«Ne conosco uno che farebbe al caso
tuo, allora», rise Descartes.
«Un tuo collega? Ah, il fidanzatino
della sciarpa, magari?».
Descartes rise di nuovo e annuì.
«Ma voi Aviatori avete tutti i peli
bianchi», borbottò Attina «E’ orrendo, sono come quelli dei
vecchi!».
«Stranamente la barba di Dietrich è
rimasta nera, se può interessarti», rispose Descartes, e il suo
viso si rabbuiò un attimo. Si massaggiò una tempia, la fronte
corrucciata.
«Mi sta scoppiando la testa, credo che
dormirò un altro po’. Attina, mi faresti un favore?».
«Dipende, ma ribadisco che non sei per
niente il mio tipo».
Descartes le rivolse un sorriso…
delicato, ecco. Non avrebbe saputo definirlo in altro modo. Le
ricordò il modo di sorridere della mamma, e la cosa le strinse il
cuore – perché se proprio doveva vederla nelle allucinazioni, era
ingiusto che non fosse dolce e solare com’era sempre stata.
«La sciarpa. Me la daresti?».
Attina si voltò verso la seggiolina.
«Ma è lurida!».
«Non importa. Ne ho bisogno».
Con uno sguardo scettico, Attina la
prese e gliela lanciò. Due volte, perché alla prima cadde per terra
prima del letto.
«Non ci credo che siete solo amici,
dai», borbottò, mentre Descartes si avvolgeva la sciarpa attorno al
collo «Questo è così… bleah. Da vomito».
«Giuro che non è come sembra», rise
Descartes, e si fece subito serio «I… miei ricordi sono in una
tale confusione, ora, che a malapena ricordo chi sono. Questa
sciarpa…».
Descartes sollevò l’estremità con
le iniziali e la osservò con un’aria strana. Aveva quello sguardo
spiritato, con gli occhi a piattino di tè, e tutto il suo viso
sembrava quello di un animale sofferente.
Non che ne avesse visti tanti, di
animali sofferenti, ma era proprio l’impressione che le dava.
«… E’, come dire… è come se
fosse l’unico punto fermo in mezzo a tutto», continuò Descartes,
e pareva parlare più che altro con se stesso. Assottigliò gli occhi
e poi li allargò di nuovo, come colto da una rivelazione.
«E’ quel rimpianto», disse, e
Attina lo guardò interrogativa.
«Che rimpianto?».
Descartes si lasciò sprofondare fra i
cuscini e portò una mano alla fronte.
«Spero che si assesti tutto nel giro
di pochi giorni», sospirò – senza risponderle, lo stronzo «E’
tutto così… oh, Dei, così diviso fra ciò che
voglio, ciò
che è meglio e quel rimpianto. Non ci capisco più niente».
«Oh Dei lo dico io, mamma mia»,
sbottò Attina «Ti prego, non un’altra parola, per carità. Anzi,
guarda, ti porto pure la radio così ti puoi gustare la soap opera
delle otto, che mi sembri molto il tipo».
Sospirò e scosse la testa «Quanto sei
donna anche di testa, veramente. Quando si dice che l’aspetto non
mente…!».
Uscì scuotendo nuovamente il capo,
accompagnata dall’ennesima risata di Descartes – che c’avesse
tanto da ridere poi lo sapeva solo lui, eh, già che a livello
mentale pareva in una situazione piuttosto tragica.
Percorse il breve corridoio, e giunta
in salotto trovò il signor Tuffo ad osservarla dallo schienale del
divano.
«L’Aviatore è come noi. L’hai
notato?», le disse.
«Se intendi dire che non ragiona in
modo molto virile sì, l’ho notato», borbottò, sollevandolo per
un orecchio. Si batté poi una mano in fronte.
Mai rispondere alle allucinazioni, mai,
specie al signor Tuffo.
«E’ come noi».
«È simile a noi».
«Lo senti?».
«L’hai sentito?».
«Chiediglielo».
«Digli tutto».
«Lui sa».
Attina lanciò il peluche all’altro
capo della stanza. Voleva coprirsi le orecchie, ma sapeva già che
non sarebbe servito a nulla.
«Oh, dacci un taglio. Cos’è che
dovrei sentire?».
Però in effetti qualcosa c’era.
Quando lei e la zia avevano trascinato Descartes fuori da quel fosso,
la sera prima, per un attimo, un istante brevissimo, un che di strano
l’aveva avvertito.
La stessa sensazione che, a pensarci,
aveva provato la prima volta che la zia l’aveva abbracciata. Una
sorta di “mi sento a casa, mi sento bene” – qualcosa di
dannatamente familiare e nuovo al tempo stesso.
«Dei, finalmente sono a casa!»,
esclamò zia Anita spalancando la porta. Scrollò l’ombrello e lo
lasciò all’ingresso «Il tram era talmente pieno di gente…!
Sarai affamata».
Attina cercò di sintetizzare la
situazione in un’unica occhiata e la cosa dovette venirle piuttosto
bene, dato che Anita rimase immobile, una mano sulla maniglia e la
porta ancora aperta.
«Non dirmi che è successo di nuovo».
«Due volte», confermò Attina «La
mamma e poi Tuffo. È un brutto segno, vero?».
Anita chiuse la porta e le si chinò
davanti. Le prese il viso fra le mani e le carezzò le guance,
sorridendole incoraggiante.
«Non preoccuparti, tesoro, non
preoccuparti. Passerà».
«Non ti credo», sbottò Attina.
Anita continuò a sorridere – ma non
rispose, e questo era già una conferma sufficiente.
«E tu dove dormi?», biascicò Attina,
strofinandosi un occhio. Anita le rimboccò le coperte e le baciò la
fronte.
«Sul divano, tesoro».
Attina annuì, le palpebre pesantissime
«E’ comodo il divano. Se vedo di nuovo mamma ti chiamo?».
«Ovviamente. Buonanotte».
«Buonanotte, zia».
Anita le sorrise ed uscì dalla stanza,
chiudendo la porta dietro di sé. Entrò poi nell’altra camera,
dove Descartes stava mangiucchiando la cena, e si sedette sulla
poltroncina.
Aveva uno sguardo duro, e Descartes
ricambiò con un’occhiata perplessa.
«Ora noi due chiariamo la faccenda»,
disse Anita, raddrizzando la schiena ed incrociando le braccia «Non
ce l’ho con voi Aviatori, sono quelli del governo in generale a non
piacermi».
«Si figuri a me. Attina è una
portatrice, giusto?».
Anita sgranò gli occhi e serrò le
labbra.
«Come l’hai…», sibilò, e
Descartes si strinse nelle spalle.
«A pelle. E credo che oggi pomeriggio
abbia avuto un’allucinazione», disse, portandosi alle labbra una
cucchiaiata di zuppa «Non ricordo bene, ma credo di esserci passato
io stesso».
Rimase qualche istante col cucchiaio
poggiato alla bocca, lo sguardo perso nel vuoto, poi corrugò la
fronte.
«Non è illegale che non sia
stata segnalata alle autorità?».
«Sarebbe illegale se io sapessi che è
una portatrice e lo nascondessi di proposito», sbottò Anita,
stirando un sorriso che gocciolava veleno «Ma Attina è solo una
bambina sotto shock».
«Chiaramente», annuì Descartes
«Sotto shock».
Anita strinse gli occhi «Lo sai che
cosa fanno alle bambine portatrici?», gli chiese, e Descartes scosse
la testa «Niente, ecco cosa. Lasciano che le psicosi peggiorino e le
chiudono nei manicomi, a farsi divorare il cervello dal Chroma. Mio
marito era psichiatra, ha visto scene…! Siete fortunati, voi
maschietti, che se non altro avete la strada spianata
nell’Aviazione».
«E’ un mondo orribile, quello»,
sospirò Descartes «Così… doloroso».
Schioccò le dita e a mezz’aria si
formò una fiammella blu, che cominciò a volteggiare sul dorso del
suo indice senza però ferirlo.
Anita si guardò attorno, soffermandosi
sui vestiti nell’angolo, poi tornò a fissarlo.
«Non hai bisogno di sincronizzarti,
quindi».
Descartes sorrise e rivolse la mano
verso l’alto, e la fiammella prese a danzargli sul palmo.
«Le allucinazioni peggioreranno con
l’età», disse, chiudendo la mano a pugno «E tempo qualche anno
arriveranno gli attacchi psicotici. Prima o poi qualcuno se ne
accorgerà».
Anita sospirò e si massaggiò le
tempie «Lo so, maledizione, lo so. Se almeno ci fos- aspetta. Tu hai
detto di esserci passato».
«Credo. Gliel’ho già detto, tutti i
miei ricordi sono piuttosto confusi».
«Fa’ uno sforzo. Ti hanno dato dei
farmaci, per caso? O usato delle tecniche particolari? Qualsiasi
cosa».
«Non lo so, mi dispiace. Ma non appena
la confusione sarà passata, le assicuro-».
«Sappi che è l’unico motivo per cui
non ti ho ancora denunciato ai Vigilanti», lo interruppe Anita. Si
alzò in piedi e lisciò le pieghe del vestito, ostentando un sorriso
che non rifletteva per niente il suo stato d’animo «Non avrò mai
un’occasione migliore di questa per parlare con qualcuno
dell’ambiente senza destare sospetti. Ti nasconderò finché non ti
sarai ripreso e non mi avrai detto qualcosa di
utile. Mi
sembra uno scambio accettabile».
«Non avrei potuto chiederle di
meglio», rispose Descartes, un misto di sollievo e gratitudine sul
viso «Io… grazie. Farò il possibile per ripagarla. Ma Attina…?».
«Non farne parola con lei. Meno gente
sa, meglio è. E soprattutto, se non sa del Chroma non le verrà la
tentazione di parlarne in giro».
«Non fa una piega».
Anita raccolse i vestiti di Descartes
dalla seggiolina, poi indicò la sciarpa.
«Dammi anche quella. Ti lavo tutto».
«Non emette un odore gradevole, in
effetti», osservò Descartes, fissandone un’estremità. Con un
gemito quasi di dolore se la sfilò e la porse ad Anita, corrucciando
il viso in un’espressione sofferente.
«Qual è il problema con questa
sciarpa, me lo spieghi?», sbottò Anita, sollevandosela davanti agli
occhi. Solo in quel momento notò le iniziali.
«E’ una cosa molto… è un pegno»,
disse Descartes.
«Un pegno?».
«D’amicizia, d’amicizia», si
affrettò ad aggiungere, agitando le mani «E’ l’unica cosa a cui
ci si può aggrappare, sa. Io e un… amico ce le scambiavamo prima
di andare in missione».
Anita sospirò, e la sua espressione
rigida si addolcì appena.
«Una promessa del tipo “torna tutto
intero e riportamela”?», gli chiese.
«Vorrei tanto restituirgliela», annuì
Descartes «Ma non posso. Non posso proprio».
«Potresti sempre spedirgliela, almeno
non si preoccuperebbe».
Descartes sorrise triste «Credo che lo
farei preoccupare ancora di più, invece».
«Come ti pare. Ora riposati», disse
Anita, e per la prima volta gli rivolse un ghignetto divertito
«Attina non ha scuola, domani mattina. E si sveglia presto».
«Suona come una minaccia».
«Lo è, lo è. E quando c’è
qualcosa di nuovo e stimolante si sveglia ancora prima».
Descartes mangiò un’altra
cucchiaiata di zuppa, poi poggiò il piatto quasi vuoto sul comodino.
«Vuole davvero bene a quella bambina»,
disse, mentre Anita tirava fuori da una cesta di vimini altri vestiti
sporchi «Era la figlia di…?».
«Non siamo imparentate», rispose
Anita con aria indifferente «L’ho adottata ».
Descartes rimase a lungo disteso al
buio, in silenzio, gli occhi sbarrati e la testa che gli scoppiava.
Non c’era verso.
Con una fatica immane si tirò su a
sedere e piegò le ginocchia quel che gli bastava per potervi
poggiare contro la fronte.
Non sapeva veramente cosa fare, dove
andare, ed in più quel rimpianto gli era rimasto conficcato in mezzo
al petto e non faceva che aumentare col passare delle ore.
Lo straziava – e quella sciarpa
voleva restituirla davvero, nonostante lo capisse benissimo che
poteva aver senso solo fino a un certo punto.
*
Che Descartes avesse qualche
problema con lo specchio, da quando gli erano ricresciuti i capelli,
era palese. Le occhiate da schizzato che lanciava al proprio riflesso
non lasciavano adito a dubbi, e una volta Dietrich l’aveva pure
visto sputarci sopra il dentifricio, pur di non vedersi.
In quel momento però sembrava stare
peggio del solito. Stringeva il bordo del lungo lavandino talmente
forte da farsi sbiancare le nocche, le braccia che gli tremavano, e
aveva una di quelle sue espressioni spiritate, con gli occhi larghi
larghi, che non presagivano mai nulla di buono.
Dietrich finì di lavarsi i denti
senza staccargli gli occhi di dosso nemmeno per un istante.
«Descartes», lo chiamò piano.
Ed era in quella posizione da due
minuti almeno, Dei santissimi.
«Descartes», ripeté.
«Li odio», sibilò Descartes,
senza distogliere lo sguardo «Dei, li odio. Come quelli dei vecchi.
Sono come quelli dei vecchi».
Si voltò e fissò Dietrich con la
stessa espressione da serial killer.
«Anche i vostri sono come
quelli dei vecchi».
Dietrich si guardò allo specchio.
Certo, non era stato piacevole quando tutti i peli erano caduti, dopo
il primo ciclo di sincronizzazione, ma il fatto che fossero
ricresciuti lo rendeva così felice che anche il loro colore assurdo
passava in secondo piano.
«Se porti pazienza, fra un po’ li
potrai tingere, credo», disse, tornando a fissare Descartes.
Non l’avesse mai fatto. Dentro di
sé sentì che non avrebbe mai più dormito la notte.
«Non si tingono», sibilò
Descartes. Ogni parola gli uscì intrisa di rabbia, odio e chissà
quali altre emozioni negative. Parevano stilettate, e Dietrich si
trovò a rabbrividire.
«Non si tingono, non si tingono. Mi
fanno schifo. Mi fanno schifo» e le ultime parole le vomitò quasi.
«Mi fanno schifo», ripeté più
volte a denti stretti. Si portò le mani alla testa, e stringendo i
capelli fra le dita cominciò a strapparli con gesti secchi.
«Des, ehi!».
Dietrich gli scivolò rapido alle
spalle. Gli afferrò con forza i polsi e glieli tirò indietro,
intrecciandogli le braccia sul busto a mo’ di camicia di forza.
«Su, su, calmati, non è grave, non
è grave», gli sussurrò, cercando di cullarlo come aveva letto.
Descartes cercò di divincolarsi, strattonando i polsi imprigionati,
ma Dietrich mantenne salda la presa e lo intrappolò meglio che poté
contro il lavandino.
«Mi fanno schifo», continuò a
ripetere Descartes per un tempo che sembrò non finire mai. Poi
d’improvviso smise di agitarsi e si chinò sul lavandino,
sputacchiando saliva rossastra.
«Mi sono morso la lingua»,
borbottò. Dietrich sospirò e lo lasciò andare.
«Checcazzo, Des, sei impegnativo».
Descartes rimase chino, portando le
mani a sostenersi mentre riprendeva fiato. Aprì l’acqua e si
sciacquò la faccia con gesti lenti.
«Grazie», sussurrò e Dietrich gli
batté una mano sulla spalla.
«Figurati. Però stai migliorando,
eh, è un po’ che non cerchi di mordermi».
Descartes ridacchiò timidamente
«Sai, le allucinazioni quasi non ci sono più. Forse con il prossimo
ciclo di sincronizzazioni migliorerà anche questo».
Alzò appena lo sguardo, ma lo
riabbassò subito e si coprì gli occhi con le mani.
«Credo che mi raderò a zero»,
sospirò «Se solo non fossero così… così da vecchi…!».
«’Cazzo ti hanno fatto i vecchi
da traumatizzarti tanto? Se c’è un motivo sensato, cosa che-».
«Sono orrendi», sussurrò
Descartes, interrompendolo «E quelle mani. Quando ti toccano…!».
Lasciò la frase in sospeso, e
Dietrich sentì una palpebra vibrargli.
«Non voglio sapere altro. No, no,
grazie. Preferisco rimanere nel dubbio. Ma sei certo che ci sia solo
il Chroma sotto e non qualcos’altro? Qualcosa di curabile, chessò,
con qualche seduta dall’analista».
Descartes ridacchiò e si voltò,
dando le spalle allo specchio. Guardò poi Dietrich con quella sua
aria da animaletto indifeso e si mordicchiò un labbro.
«Aiutami a radermi», lo pregò.
Incrociò le braccia, artigliandosele, le mani che gli tremavano.
«Oggi non mi sento bene, e se il
sergente si accorge di quanto mi danno fastidio i capelli mi
obbligherà a specchiarmi tutto il tempo, ne sono certo. Non… non
voglio dargli altri appigli. Non voglio finire in manicomio come mia
sorella».
«Stai tranquillo» Dietrich gli
sorrise incoraggiante «Sistemiamo i capelli, ora, così intanto è
una preoccupazione in meno».
Descartes lo ringraziò e gli
sorrise di rimando.
Le fiamme blu erano un toccasana per
Descartes. Dietrich lo osservava in silenzio, mentre con urla
liberatorie Descartes arrostiva manichini su manichini, e glielo
leggeva proprio sul viso.
Quando Descartes ritirava le fiamme
e gli sorrideva eccitato, emanava leggerezza.
«Dei, Dietrich! È così
piacevole!».
E ne aveva guadagnato in
autocontrollo. Al massimo ora, nei momenti di nervosismo, si grattava
la guancia a sangue – ma non succedeva nemmeno più così spesso.
Certo, era ben lungi dall’atteggiarsi come una persona normale, ma
Dietrich aveva ben presente i primi tempi e oh, indubbiamente, non
c’era neanche da paragonarli.
*
«Vvvvon Leibniz», lo apostrofò il
dottor Tesla, prolungando il “von” in modo molto viscido «Mi è
stata assegnata questa spinosa questione, come ben potrà immaginare
vedendomi qui».
Dei, dei, quel tizio non gli dava i
brividi, di più. Quella parlata, poi, da malintenzionato alvjano –
cioè, non che ad Alvjan fossero tutti malintenzionati, più che
altro lo erano tutti quelli con cui aveva avuto a che fare. E il
fatto che quel tizio fosse uno dei membri prominenti della sezione
scientifica peggiorava la cosa.
Tesla si aggiustò gli occhiali da sole
ed intrecciò le mani dietro la schiena, osservandosi pensoso la
punta degli stivali.
«Oh, cielo, sono indecenti», commentò
«Dovrò farli pulire. Von Leibniz!».
Dietrich sussultò e scattò
sull’attenti, battendosi un pugno sul petto.
«Von Leibniz, per quale motivo pensa
che il suo aiuto possa essere fondamentale in questa faccenda? Non mi
risulta che lei abbia la preparazione necessaria per questo tipo di
operazioni».
«Se Descartes è ancora vivo posso
aiutare a trovarlo. Potrebbe essere nei pressi del cuore», rispose
Dietrich, perdendo sicurezza ad ogni parola.
Tesla lo fissò poco convinto.
«… Sono in ferie e voi siete a corto
di uomini?», aggiunse Dietrich con un bisbiglio, e Tesla gettò
indietro la testa in una risata sguaiata. Congiunse le mani, avvolte
in guanti neri come il resto del suo abbigliamento, e intrecciò le
dita all’altezza del ventre.
«Ottime motivazioni, von Leibniz,
ottime motivazioni. Non se lo sentirà dire spesso ma non posso darle
torto, non dispongo di molto personale, al momento. E dire che poi se
la prenderanno con noi, se il Cuore non salta fuori. Quanto, quanto
mi rattrista pensare a quel povero Cuore là fuori, tutto solo,
attorniato da gente ignorante che non ha la benché minima idea di
come trattarlo! Sento il cuore bruciare per la rabbia».
Sospirò e scosse la testa afflitto,
per poi esclamare un “In ogni caso!” che fece di nuovo sobbalzare
Dietrich.
«Le affiderò un settore, von
Leibniz», disse, impugnando un righello. Si avvicinò alla mappa
alle sue spalle ed indicò una zona colorata di blu «Questo potrebbe
andar bene. Sarà accompagnato da due Vigilanti, sa, per sicurezza.
Tenti una sincronizzazione casuale, di tanto in tanto. Anche se il
Cuore è schermato, la schermatura potrebbe avere qualche
imprecisione per cui non si sa mai. Tutto chiaro, von Leibniz?»
Dei, per carità, smettila di
pronunciare il mio nome. Gli dava i brividi, gli dava.
«A dire il vero, signor Tesla, ho già
tentato qualche sincronizzazione ed è stato… strano», disse
Dietrich, toccandosi la gola d’istinto «E’ stato quasi…
soffocante. Come se-».
«Rumore di fondo, lo chiamiamo noi»,
lo interruppe Tesla «Immagino che lei non sia mai stato a Cordata, è
dall’incidente che quella zona è sommersa dal
rumore di
fondo. Niente a che vedere con questa situazione, sia ben chiaro,
sarebbe come paragonare l’oceano alla mia vasca da bagno. Vede, von
Leibniz, i miei amplificatori a valvole se non raggiungono la
perfezione la sfiorano, e questo fottutissimo – mi perdoni il
termine – rumore di fondo distorce le mie registrazioni. Stiamo
approntando un sistema per avere una registrazione multipolare, in
modo da valutare eventuali differenze, ma ci vorrà tempo. Troppo
tempo. E quest’aerea è così vasta, e ovviamente il consiglio non
aspetta altro che una scusa per tagliarmi i fondi. I fondi, von
Leibniz, capisce? I fondi! A me! Che risparmio addirittura sui guanti
isolanti da mesi per rientrare nei bilanci! Le
sembra
corretto, eh, von Leibniz?».
Dietrich corrugò la fronte «…No?».
Quanto lo odiava, Dei misericordiosi.
Sembrava quasi prenderci gusto nel dire cose a vanvera.
Tesla lo fissò in silenzio a lungo.
Troppo a lungo, in effetti.
«… Signore?», borbottò Dietrich.
«Mi sono dimenticato cosa stavo
dicendo. Comunque!» Tesla girò sui tacchi e guardò la mappa, poi
ruotò di nuovo e si diresse all’altro capo della stanza, verso la
scrivania. C’erano così tanti fogli buttati a caso che sembrava
fosse esplosa un’armata di dizionari.
«Dunque dunque dunque…» Tesla li
frugò un po’ tutti e alla fine estrasse una mappa, che porse a
Dietrich con un sorriso. Sorriso inquietantissimo, anche perché gli
occhi sottili degli alvjani aggiungevano sempre un che di infido.
«Può cominciare domattina. Mi
raccomando, prima passi qui dai Vigilanti, in modo che le possa
venire assegnato qualcuno in supporto. Von Leibniz! Conto molto su di
lei! No, non è vero, sto scherzando, ma non disdegno mai le cose
gratis».
Dietrich gli lanciò un’occhiata di
traverso, ma Tesla parve non notarla.
«Però lo ammetto», continuò,
abbassando il tono di voce – ora avrebbe urlato qualcosa, sicuro,
perché quello se ogni tre frasi una non la urlava non stava bene
«Queste storie d’amicizia, di totale abnegazione e – seppur gaia
– virilità le adoro. Se sono a lieto fine, però. Trovi il suo
amico, von Leibniz, e poi cavalcate assieme verso il tramonto! Su
cavalli diversi, ovviamente».
«Posso ritirarmi?», borbottò
Dietrich, e Tesla rise.
«Vada, vada, si riposi. Domani
camminerà a lungo», disse. Si batté una mano sul petto e anche
Dietrich fece lo stesso, scattando sull’attenti. Poi Tesla tornò a
frugare fra le carte alla scrivania e Dietrich uscì, lasciandosi
andare in un sospiro di sollievo non appena si sentì a distanza di
sicurezza.
«Quando un Cuore scompare così non è
mai un buon segno, Base», disse Tesla, scorrendo una lista di dati
delle rilevazioni di quel giorno «Ma dissolto non si è dissolto,
troppo poco rumore di fondo».
Il suo assistente gli porse un’altra
cartelletta e lo fissò interrogativo.
«Potrebbero averlo rubato davvero, ma
la falena era talmente fuori traiettoria…! Imprevedibile.
Dovrebbero avere avuto una fortuna sfacciata. Ah, la fortuna!
Talvolta la dea Enora sa essere fin troppo misericordiosa».
Basil si mise le altre cartellette
sotto al braccio per avere le mani libere, e le mosse a formare la
frase “Ti credevo ateo”.
«Appunto. Quindi!», esclamò Tesla,
sollevando l’indice «… Quindi non lo so. C’è qualcosa che non
mi quadra, e gli “oppositori” del governo ormai sono più che
altro una leggenda metropolitana, al pari dei rospi albini delle
fogne o della dieta di mia sorella».
Tesla schioccò la lingua più volte,
mentre leggeva e rileggeva la lista di dati «Manca qualcosa. Ah,
sarebbe così d’aiuto avere la versione di Descartes! È come se
avessi fatto tutti i bordini di un puzzle e mi mancasse proprio il
centro. Il tuo animo terra-terra riesce a cogliere questa mia fine
metafora, Basil? Significa che non ci capisco niente e quindi me ne
andrò a letto».
“Ti arrendi già?”, disse Basil.
Tesla sbuffò e si passò una mano fra i capelli color nocciola,
portando indietro il ciuffo.
«Quando la squadra di soccorso ha
trovato i resti della falena, c’erano ancora residui del Chroma di
Descartes che bruciavano. Quelle deliziose fiammelle blu, hai
presente? Ecco. E non esiste, non esiste!, che possa essere ancora
vivo dopo aver gettato fuori tutto quel Chroma. Non esiste. Sarebbe
uno stress troppo troppo intenso anche per un individuo sano. Sia di
mente che di corpo, che visto il soggetto… eppure non ci sono prove
che sia morto lì, ergo! Al novanta per cento se n’è andato sulle
sue gambe».
“O qualcuno l’ha raccolto”.
«Era già compreso nel novanta per
cento».
Basil scosse la testa “Il cadavere”.
Tesla si batté un dito su una guancia,
arricciando le labbra.
«Diamine, questo non l’avevo
calcolato. Dovrò aggiornare le mie percentuali. Il mondo è pieno di
brutte persone, chissà perché me lo scordo sempre».
Basil scosse la testa di nuovo e
accennò un movimento con le mani, ma si fermò prima di produrre un
qualche gesto di senso compiuto. Fece poi un segno della serie
“guarda, lasciamo stare”, e Tesla sghignazzò sornione.
*
«… E allora la madre corse al piano
di sopra», sussurrò Chiara, lanciando occhiate rapide alle altre
bambine «Ma ormai era troppo tardi. La culla era vuota, e dalla
finestra spalancata giungevano nel vento le risate distorte delle
fate».
«Bah», sbottò Attina,
mordicchiandosi una ciocca di capelli – in assenza di Tuffo erano
la cosa più pratica «Non faceva tanta paura».
Matilde la guardò crucciata «A me ha
fatto paura!».
«Anche a me!», fece eco Caterina, e
accanto a lei Lucia annuì in modo energico.
«Quando me l’hanno raccontata non ho
dormito per una settimana», disse Chiara «Come fa a non farti
effetto?».
Attina si strinse nelle spalle «Forse
perché i bambini piccoli mi fanno un po’ schifo?».
«Sono d’accordo!», rise Linda,
intrecciando i suoi bellissimi capelli biondi – quanto glieli
invidiava, quanto! Erano così… così da treccine «Le
tue
storie dell’orrore fanno sempre ridere, Chiara».
«Raccontane una tu, allora», borbottò
Chiara piccata, e Linda schioccò la lingua.
«Ah! Non aspettavo altro. Ne so una
veramente veramente da brividi, me l’ha raccontata mio fratello»
abbassò la voce e si sporse verso il centro del gruppo, e le altre
bambine fecero lo stesso. Forse era l'effetto della sua postura,
forse il tono, ma i bambini che giocavano tutt'attorno parvero
sparire. Rimasero solo loro e le parole sussurrate da Linda.
«Questa è una storia vera, eh. E’
successa a un giovane cacciatore, non molto tempo fa. Durante una
delle sue battute di caccia, per inseguire un cervo uscì dai
sentieri tracciati e si spinse in una parte della foresta che non
conosceva, perdendosi. Vagò per ore ed ore e continuò a muoversi
pure con il buio, perché attorno a lui sentiva i versi degli animali
selvatici e sapeva che non sarebbe stato al sicuro, se si fosse
fermato. Quando ormai i piedi gli dolevano e stavano per venirgli
meno le forze, all’improvviso scorse uno strano bagliore provenire
dal sottobosco. Stanco di girare nella più completa oscurità corse
in quella direzione, e ciò che vide lo lasciò di stucco».
«Cosa vide?», squittì Matilde.
Linda sogghignò e abbassò ancora di
più il tono della voce.
«Vide… una crisalide».
Le bambine si lasciarono andare in un
coro di “oooh!”, e pure Attina spalancò la bocca, sorpresa.
«Essì, una crisalide», ripeté Linda
«Visto che emetteva una luce molto intensa che sembrava spaventare
gli animali, il cacciatore vi si rannicchiò vicino e si addormentò.
Si svegliò dopo un tempo che non riuscì a quantificare, perché in
quella zona gli alberi erano così fitti da impedire al sole di
penetrarli. Poi si voltò e vide che non si era trattata di
un’allucinazione per la stanchezza: la crisalide era davvero lì e
brillava ancora, seppure in maniera più fioca. Il cacciatore sapeva
di non potersene andare lasciandola lì, a custodire un mostro, per
cui raccolse alcuni grossi rami ed infilzò il bozzolo. Dai buchi
colarono fuori litri e litri di sangue nerissimo, e il bagliore si
spense dopo pochi secondi. Soddisfatto, il cacciatore riprese il
cammino e prima del tramonto riuscì a ritrovare il sentiero e a
tornare a casa. Ma non era finita lì, ooooh no».
Linda incrociò le gambe e sollevò due
dita «Due notti dopo, il cacciatore ebbe sogni terribili. Vide la
falena malformata rotolare fuori dalla crisalide e strisciargli
incontro, trafitta dai bastoni. Gli strisciava incontro e parlava,
dicendogli “io ti ho offerto protezione dalle bestie e tu mi
uccidi! Che tu sia maledetto, o misero umano, che tu sia maledetto!”
– e ripeteva queste poche parole all’infinito. Il cacciatore
continuò a fare questo sogno una notte dopo l’altra, e la falena
continuava a trascinarsi a terra verso di lui, arrivandogli ogni
volta un poco più vicina. Da una parte il cacciatore era scettico,
la prendeva sul ridere, raccontava il sogno alla moglie e ai figli
come una barzelletta – ma un’altra parte di lui era terrorizzata.
“Cosa succederà quando mi raggiungerà?”, pensava, dandosi poi
dello stupido perché in fondo era solo un incubo. Continuò quindi a
sognare questa cosa per settimane e settimane fino a che,
inevitabilmente, la falena non lo raggiunse. In quell’istante il
cacciatore si svegliò, e si trovò avvolto dalle tenebre. Tenebre
che non erano davvero tenebre, erano fiamme nere, fiamme d’ombra, e
stavano distruggendo tutto tranne lui. Sua moglie, che gli dormiva
accanto, ormai non era che un corpo carbonizzato. Corse dai suoi
figli, nella stanza vicina, e vide che anche loro erano contorti nei
loro lettini, i corpi talmente distrutti che era impossibile
distinguerli. Il cacciatore allora corse fuori, gridando di dolore, e
vide che ad essere avvolto da quelle fiamme nere era tutto il
villaggio e solo quello, la foresta era intatta. Le fiamme nere
scomparvero solo all’alba, e ciò che avevano lasciato era
nient’altro che una distesa di ruderi, e il cacciatore solo, in
ginocchio, in mezzo al silenzio e alla distruzione».
«Aspetta!», esclamò Attina «Io
conosco il posto! È quel paese al confine fra Latvnia e Alvjan,
quello che chiamano-».
«“Il paese di cenere”», la
precedette Chiara, gli occhi sgranati e le manine tremanti «Oh,
mamma».
Linda annuì «Esattamente. Voci dicono
che la falena, per punire il cacciatore con ancora più crudeltà,
l’abbia reso immortale, perché non potesse togliersi la vita; e
ancora oggi lui è là, che vaga fra i resti di quello che era il suo
villaggio, e ci resterà in eterno, tormentato dagli spiriti delle
persone morte quella notte. Quel che è certo, nessuno da allora c’ha
più messo piede».
La bambine rimasero in silenzio a
lungo, fissandosi con gli occhi sgranati.
«Oh, andiamo», sbottò Attina dopo un
po’, incrociando le braccia «Non è successo davvero. Quel posto è
stato raso al suolo dai soldati chasyani durante la guerra».
Sperò di suonare convincente, perché
in realtà dentro stava rabbrividendo.
«Oh no», disse Linda, scuotendo la
testa «Quella è la versione ufficiale. Il padre di un amico di mio
fratello viveva là, a quei tempi. Lui le ha viste, le fiamme nere,
mentre divoravano tutto. Ha detto che continua a vederle ogni volta
che chiude gli occhi».
«Ma figuriamoci. Le falene sono troppo
stupide per maledire qualcuno», borbottò Attina, e Linda le rivolse
un ghignetto della serie “Di’ la verità, non ne sei molto
sicura”.
«Descartes!», strillò Attina,
fiondandosi nella camera da letto. Descartes era steso, intento a
leggere un libro, e quando la vide se lo posò sul petto e le rivolse
un sorriso.
«Descartes, dimmi una cosa! Tu uccidi
le falene, no? Quindi le conosci bene?».
Il suo sorriso tremolò per un istante.
Forse parlare del lavoro lo faceva ripensare al suo amichetto che non
avrebbe più rivisto e ciò lo rattristava – che agonia, veramente.
Meno male che si sforzava di non darlo a vedere, se non altro.
«Sì, diciamo che me ne intendo», le
rispose.
«Ecco, e secondo te una falena può
maledire qualcuno? Sono troppo stupide per farlo, vero?».
«Se anche potessero provare un
sentimento complesso come il desiderio di vendicarsi, non credo che
ne avrebbero i mezzi. Perché ti interessa?».
Attina batté le mani «Come
immaginavo, Linda aveva torto. Peccato non possa sbatterle in faccia
la verità, accidenti. Lei e i suoi capelli biondissimi».
*
Dalla finestra della camera da letto,
Attina poteva vedere il giardinetto sul retro. Zia Anita stava
raccogliendo i panni e intanto chiacchierava con uno dei vicini,
Marcello. Che casualmente era sempre anche lui nel
suo
giardinetto sul retro quando la zia stendeva i panni o annaffiava i
pomodori o comunque era nei paraggi.
Da come stavo poggiato sul muretto
separatorio, poi, era ovvio che stesse flirtando come un disperato.
Non le era molto chiaro se alla zia facesse piacere o meno –
Marcello aveva un che di affascinante, ma la zia era un po’
frigida. Trovarsi un uomo le avrebbe fatto un gran bene, che quando
le venivano quegli attacchi di acidità non si poteva sopportare.
«Descartes», disse, e si voltò verso
il ragazzo. Era seduto sul letto e stava sbocconcellando del pane.
«Cos’hai offerto alla zia per farti
ospitare? Favori sessuali?».
«Credo di averle fatto più che altro
pena, sai. E tua zia non è il mio tipo».
Attina sghignazzò «Chissà perché
l’avevo intuito. Ma non temere, nel mio bordello ci sarà spazio
anche per quelli come te! Aspetta…!».
Corse nella propria camera da letto e
recuperò Il Quaderno, poi tornò da Descartes e glielo aprì
davanti.
«Vedi», spiegò, indicando con
l’indice una piantina disegnata a mano «Questa sarà la zona per
donne e gay. Ci sarà un’ampia scelta, non temere, da ragazzi
appena maggiorenni a uomini di mezz’età, che il fascino del
brizzolato attira molti».
«Non ho capito se mi hai annoverato
fra le donne o i gay», ridacchiò Descartes, e pure Attina rise.
Non ci avrebbe mai scommesso, ma quel
tipo le piaceva.
«Quindi i maschi ti piacciono sul
serio. Non hai un fidanzato? No, giusto, altrimenti ti scambieresti
la sciarpa con lui e non con il tuo amichetto».
Descartes si passò una mano sulla
faccia e sospirò «Attualmente è una faccenda complessa, questa».
«Nel senso che sei ancora alla fase
dell’accettarlo? Ma non devi disperarti, guarda che è normale e
fisiologico e succede a molte persone. Tipo, a me piacciono i maschi,
ma se Linda mi chiedesse se voglio mettermi con lei accetterei al
volo».
«No, magari fosse questo, è…»
Descartes si passò una mano fra i capelli e boccheggiò. Sembrava
avere una voglia matta di parlare, ma qualcosa lo tratteneva.
«Coraggio», lo incitò Attina,
sedendosi sul letto «Sputa il rospo. Cos’è che ti turba?».
«Ti è mai capitato…», borbottò
Descartes, raccogliendo le ginocchia al petto e incrociandovi sopra
le braccia «Ti è mai capitato di non capire bene più cosa fare?
Come se all’improvviso tutto ciò che… che eri, diciamo, fosse
stato messo in discussione. Ti è mai successo?».
Attina lo fissò in silenzio, e
Descartes ricambiò col suo sguardo a piattino di tè.
Le tornarono in mente quei giorni
all’ospedale, tre anni prima, quando rideva e scherzava con papà e
mamma e Alice e Marina e stavano tutti bene, sorridevano e le
parlavano allegri e anche lei stava bene e non capiva perché fosse
in quel letto – perché stava bene, stava bene, dalle finestre
entrava il sole e tutti sorridevano e lei si sentiva felice –
– e all’improvviso poi era tutto
grigio, aveva male ovunque e c’era solo quell’infermiera che le
carezzava la testa e la guardava con gli occhi lucidi, e il dottore
che diceva che erano morti tutti.
Si morse un labbro e strinse la gonna
all’altezza delle cosce.
«Sì, mi è successo», pigolò «Sono
di Cordata».
Descartes batté le palpebre un paio di
volte, poi parve realizzare. Sgranò gli occhi – ancora di più, se
possibile – e nascose il viso fra le braccia, fino al naso.
«Io odio le falene», borbottò
Attina, succhiandosi forte il labbro inferiore. Non voleva piangere,
non davanti a quello lì, altrimenti addio fama da dura.
Descartes assunse un’espressione
triste e le sorrise debolmente.
«Risparmiami la tua pietà o ti
picchio», sbottò Attina.
«Ero là anch’io, quand’è
successo», disse invece Descartes «Sono stato a tanto così dal
rimanerci secco. È stato lì che Dietrich mi ha- no, non è vero,
quella volta lui non c’era. Sono ancora un po’ confuso».
«Potevate fare un lavoro migliore,
allora», borbottò Attina. Scattò in piedi, e quando voltò la
testa si trovò davanti sua madre che la fissava sorridente.
«Nnno», pigolò passandosi le mani
sulla faccia, mentre tagli e bruciature si aprivano sul viso di sua
madre, e brandelli di carne si staccavano e cadevano a terra.
«Amore mio», la chiamò lei,
il sorriso che si trasformava lentamente in una smorfia «Ci
manchi tanto. Perché non sei morta anche tu?».
«Non ascoltare», le sussurrò
Descartes. Le coprì gli occhi con le mani e la tirò verso di sé
«Pensa a qualcosa di piacevole».
Attina boccheggiò. La prima cosa che
le venne in mente furono i capelli di Linda.
«Non opporti, lasciami entrare»,
continuò Descartes.
«Lasciarti che?!», gli strillò
Attina, cercando di forzargli le dita.
«Non ti agitare».
«Non ti agitare? Se mi dici cose da
pervertito è ovvio che mi agito!» ed era angosciante come,
nonostante stesse gridando, continuava a sentire la voce di sua madre
nelle orecchie.
«Attina, perché non sei morta
anche tu?».
«Attina».
«Attina! Ti voglio bene».
«Attina, perché non sei morta?».
«Attina».
«Attina!».
«E’ il tuo senso di colpa che
parla», disse Descartes con voce tranquilla «Non ascoltarlo».
«Ovvio che è il mio senso di colpa!
Non sono scema! Ma la fai facile, tu!», strillò Attina. Descartes
sbuffò e spostò le mani, usandone una sola per coprirle gli occhi e
portando l’altra a tapparle la bocca.
«Stai zitta un attimo e lasciami
fare».
Attina trattenne il respiro e strizzò
gli occhi, e un istante dopo la voce della mamma era scomparsa.
Lasciò uscire l’aria e ricadere le mani lungo i fianchi. Sentì la
testa leggera e i tutti i muscoli rilassarsi, come se fosse sul punto
di addormentarsi, e una sensazione piacevole, una sorta di strana
vibrazione, le partì dalle tempie e le scese lungo il collo,
scivolandole sulle clavicole e poi sullo sterno, fino ad allargarsi a
tutto il petto. Il cuore riprese a battere ad un ritmo normale, il
respiro si tranquillizzò.
Descartes le tolse lentamente la mano
dagli occhi, e quando Attina li riaprì vide che sua madre non c'era
più.
«Attina!», gridò Anita, aprendo con
violenza la porta «Va tutto bene?».
Descartes le tolse anche la mano dalla
bocca, e Attina si voltò a guardarlo.
«Spiega», gli ordinò, lanciandogli
un’occhiata assassina «Spiega o giuro che ti meno. Cos’hai
fatto? Cosa mi hai fatto?».
«Sinceramente non pensavo di
riuscirci» Descartes si guardò le mani, perplesso «Quanto ti
durano le allucinazioni, di solito?».
«Che ne so, qualche minu- aspetta,
come lo sai? Si vede così tanto?».
Attina si passò le mani sulle guance e
guardò la zia, che era rimasta immobile sulla soglia.
«Tranquilla, va tutto bene», la
rassicurò Anita, raggiungendola e stringendola a sé «Gliene ho
parlato io. Descartes si intende di queste cose».
«Esatto», confermò Descartes,
annuendo in maniera esagerata «Ho studiato qualcosina. Tecniche…
di rilassamento, tipo. Diciamo. Possono servire».
«Oh, ma per favore», sbottò Attina
«Mi spiace darti questa delusione, ma mentire non è un tuo punto
forte. Cos’è che sapete voi due, eh?».
Zia Anita e Descartes si guardarono,
poi entrambi rivolsero gli occhi altrove.
«Sì, certo, tanto sono piccola e
scema, non ditemi mai niente!», esclamò Attina, svincolandosi
dall’abbraccio «Come se non fosse affar mio, eh?».
Corse fuori dalla stanza e si fermò un
attimo. Fuori stava già facendo buio, quindi ad una fuga
melodrammatica preferì chiudersi a chiave nella propria stanza.
Che cacchio. Aveva avuto altre volte la
sensazione che la zia non le avesse mai detto tutto tutto – già a
partire da quando era in ospedale – ma ora ne aveva proprio la
certezza.
Che andassero entrambi a quel paese,
lei e quella checca di Descartes.
«Posso spiegarglielo io, se vuole»,
disse Descartes «Per quel che ne capisco».
Anita sospirò «Aspetta che venga a
stressarti lei. Non tarderà molto, vedrai, giusto il tempo che io me
ne vada a letto».
«Non ne dubitavo», ridacchiò
Descartes.
Anita si massaggiò le tempie, poi lo
guardò di sottecchi.
«Cos’è che hai provato a farle, di
preciso?».
«Sincronizzarmi con lei», rispose
Descartes, portandosi una mano alla bocca «Controllare il suo Chroma
con il mio. Ma non credevo sarei riuscito a-».
Si interruppe e si mordicchiò un dito.
«A?», chiese Anita.
Descartes scosse la testa «A farlo.
Così delicatamente, soprattutto. Lo ammetto, è stato un azzardo».
Anita si strinse nelle spalle.
«Tanto, peggio di così…», mormorò,
ed emise un sospiro sconsolato.
*
«Aviatori? A parte lei, mai visto uno.
Me lo ricorderei», rispose il macellaio, grattandosi il mento con
una mano sporca di sangue e chissà cos’altro.
«La ringrazio» Dietrich sorrise,
trattenendo un conato, ed uscì dal negozio. Raggiunse un angolo
d'ombra e ne approfittò per poggiare a terra lo zaino per qualche
minuto.
Erano ore ormai che girava per quel
paesino, e non aveva ottenuto altro che informazioni sovrapponibili.
Decine di persone avevano sentito gli aerei, qualcuno dichiarava
addirittura di aver avvistato la scia di Chroma brillante della
falena viola, e un vecchio contadino al mercato si era lanciato
nell'accorata descrizione di come uno dei due biplani fosse esploso a
mezz'aria e poi precipitato al suolo. Nessuno che avesse visto però
il cadavere della falena – e come biasimarli, solo un pazzo si
sarebbe avvicinato alla zona – e ovviamente nessuna traccia di
Descartes. Nemmeno un avvistamento, un accenno; e dire che non poteva
di certo passare inosservato, di quelle poche volte in cui era andato
da solo in libera uscita si era fatto arrestare per vandalismo almeno
la metà.
Tirò fuori la mappa e la osservò,
sospirando scoraggiato. Nella zona colorata c’erano qualcosa come
venti o trenta paesini in cui Descartes poteva essere giunto a piedi
– o che comunque si trovavano nelle ragionevoli vicinanze dei resti
della falena, quindi potevano essere il nascondiglio del Cuore – e
gli sarebbero occorsi secoli a girarli tutti.
Sempre che poi non lo spostassero, quel
dannato Cuore, anche se il dottor Tesla era ottimista. Si era
lanciato in un discorso sull’instabilità e i rischi del
trasportarlo, e anche se Dietrich non aveva capito moltissimo il
succo era chiaro, ossia “non temere, se c’è è ancora qui
attorno” con il “se” ben sottolineato, perché pure il dottor
Tesla sembrava poco convinto.
«Il suo amico, Descartes… che
persona era in privato?», chiese il dottor Tesla.
Si sfilò un guanto con i denti e si
osservò la mano. Dietrich sussultò, mentre sul viso gli si dipinse
d’istinto un’espressione disgustata.
La mano di Tesla era in condizioni
terribili, ricoperta di piaghe sanguinolente, e le dita tendevano ad
un colore poco sano, sul violaceo.
«Mh? Oh, non aveva mai visto le mie
manine?», disse Tesla. Sfilò anche l’altro guanto – l’altra
mano non pareva essere messa molto meglio.
«Come… è una qualche malattia?»,
chiese Dietrich, allentando la stretta della sciarpa attorno al
collo.
Tesla rise «Ora può capire perché
usiamo guanti isolanti per toccare i Cuori, von Leibniz».
«Deve… deve far male».
«Mah. È una manifestazione piuttosto
lunatica» Tesla prese a spalmarsi una lozione giallastra sulle mani
e si lasciò andare contro lo schienale della sedia, incrociando le
gambe sopra la scrivania «Dunque, diceva, von Leibniz? Trovato
niente?».
«Quello gliel’ho già riferito»,
borbottò Dietrich «Mi stava… chiedendo di Descartes».
«Oh, che sbadato, ha ragione! Cos’è
che le chiedevo di Descartes, von Leibniz?».
«Che… che tipo è, credo».
«Ovviamente, ovviamente! Dunque?
Com’era? Ho avuto a che fare con lui giusto un paio di volte, e
rileggendo la sua scheda ci sono troppe cose che ahimè non mi
convincono. Stonano. Come se io stessi suonando un assolo per flauto
e lei sbattesse forte la porta, non so se mi spiego. Non che possa
suonarlo davvero, il flauto, le mie dita hanno perso un po’ il loro
tocco magico – e ovviamente mi riferisco ad un flauto materiale,
non è una ricercata metafora. Non sono avvezzo a certe pratiche. Non
so se mi spiego».
Dietrich inarcò le sopracciglia.
Meglio ignorare, Dei, meglio ignorare.
«Descartes era- è un tipo un
po’… particolare. Una personalità nervosa, non credo di averlo
visto mai completamente rilassato. E ha un che di… di…».
Sollevò una mano e la strinse più
volte, alla ricerca di parole precise.
«… non lo so. Come se gli mancasse
sempre qualcosa».
«Qualche rotella, forse», rise Tesla
«Scherzi a parte, collima con l'idea che mi ero già fatto di lui.
Ho letto la sua situazione familiare; non delle più incoraggianti,
devo dire. Come la viveva?».
«Non che ne parli molto… di certo ha
sempre avuto il terrore di finire in manicomio come la sorella».
«Comprensibile pure questo. E mi dica,
von Leibniz… in quanto alla sua situazione sentimentale?».
Dietrich si succhiò un labbro. Gli
aveva posto quella domanda più volte, ma Descartes rimaneva sempre
sul vago – in maniera un po’ sospetta, il che gli aveva fatto
ipotizzare una qualche tresca amorosa di cui non era a conoscenza.
Mai una prova pratica, comunque.
«Non ne ho idea. Non ne parla mai».
«Ohibò», sbottò Tesla «Tutto ciò
mi dà l’idea di una persona molto repressa».
«Beh, chiaro che lo sia», confermò
Dietrich «Se Descartes non si reprimesse non so nemmeno io cosa
potrebbe combinare, la scorsa settimana si è infuriato con uno degli
altri Aviatori e gli ha fuso la lancia».
«Una bomba a orologeria!», esclamò
Tesla, buttando i piedi per terra e drizzando la schiena «Sapendo
ciò, non mi stupisce che abbia gettato fuori tutto quel Chroma».
«Non sarebbe la prima volta», mormorò
Dietrich. Al ricordo di quando Descartes era stato lì lì dal
rimanerci secco, due anni prima, gli si strinse lo stomaco. Era stato
allora che si erano sincronizzati, mentre tentava disperatamente di
rianimarlo.
Quel cretino di Descartes.
«Magari è esploso! Spiegherebbe
perché non si trova il corpo», disse Tesla, e rise ancora «Sarebbe
un’eventualità affascinante».
*
Descartes era seduto sul letto
d’ospedale, la fronte poggiata sulle ginocchia e la sciarpa stretta
forte fra le mani.
«Des!», lo chiamò Dietrich con
voce strozzata, affrettandosi al suo capezzale. Descartes sollevò il
capo di scatto, e negli occhi aveva quell’espressione vacua e
terrorizzata da animaletto. Durò solo un attimo, però, perché
subito dopo il suo viso si rilassò appena.
Sorrise a Dietrich e gli porse la
sciarpa.
«Mi ha salvato, sai?», gli
sussurrò. La mano gli tremava così forte che Dietrich la prese fra
le sue, per tranquillizzarlo.
«Mi ha salvato», ripeté
Descartes, la voce incrinata e le labbra che tremolavano «E’ come…
è stata un’ancora, sai? La guardavo e mi ripetevo “non posso
morire, non posso morire” e non so come ma non mi si è fuso il
cervello».
«Beh, non è che ci fosse tanto da
fondere, eh», ridacchiò Dietrich «Dei, Des, quando ho saputo non…
non…».
«Sono rimasto lucido solo perché
dovevo ridarti la sciarpa. Lucido io. Io. Ma ci credi?».
Descartes rise, ma la risata si
spense in fretta. Osservò la sciarpa, poi guardò Dietrich.
«Posso tenerla un altro po’?»,
gli chiese con un filo di voce, e Dietrich gli rispose con una lieve
pacca su una spalla.
«Tutto il tempo che vuoi, cazzo.
Dei, Des, pensavo davvero… cazzo, credevo che fossi morto anche tu.
Come ti senti?».
Descartes scosse nervoso il capo
«Fisicamente sono stato peggio. Mentalmente… pure, credo. Mi fa
tanto male la testa».
Cominciò a grattarsi una guancia, e
Dietrich gli colpì la mano con uno schiaffetto.
«Oh. Grazie».
«Figurati. Ti porto qualcosa da
leggere, ti va? Hai dei libri a metà, in camera?».
«Portami un giornale» lo sguardo
di Descartes si soffermò sul vuoto, mentre con le mani torturava la
sciarpa «Devo sapere in che condizioni è Cordata. Devo. È… è
stata tutta colpa mia».
«Che cazzo dici? Mi hanno detto che
non hai nemmeno sfiorato la falena».
«Non dovevo lasciar fare ad
Heinrich. Dovevo finirla io. Quando è partito senza aspettarmi
dovevo tirargli un sasso e tramortirlo».
«Descartes…» Dietrich gli si
sedette accanto e gli posò una mano su una spalla. Bastò per
attirare la sua attenzione, perché Descartes smise di fissare il
vuoto e lo guardò.
«Des, non potevi prevederlo. È
facile dirlo, a posteriori. Non pensarci, non sentirti in colpa.
Appena ti dimettono e ti senti bene ti porto fuori a rimorchiare,
mh?».
Descartes gli rivolse un timido,
rapidissimo sorriso, per poi sciogliersi in singhiozzi un istante
dopo.
Dietrich gli passò un braccio sulle
spalle.
«Coraggio, coraggio. Vedrai che
passerà».
*
«Sei un traditore di merda», sbottò
Attina, scivolando dentro la stanza. Chiuse la porta con attenzione,
poi si voltò a fissare Descartes con aria assassina.
«E dire che ti ho pure fatto vedere i
miei progetti segreti!».
«Io ho obbedito e basta», ribatté
Descartes alzando le mani «Qui è tua zia che comanda».
«Comodo fare scaricabarile, eh».
Attina si arrampicò sul letto ed
incrociò le gambe, mettendosi il signor Tuffo in grembo, in modo che
fosse a portata di mordicchiamento.
«Sei infido».
Descartes rise «Scusami. Ma ti
assicuro che era per il tuo bene».
«Sei l’enciclopedia delle scuse,
sei», sbottò Attina «Se sai come funziona questa storia delle
allucinazioni, dimmelo. Ho il diritto di saperlo. Mia nonna è finita
in manicomio per queste cose».
«Non hai tutti i torti», disse
Descartes, e le sorrise «Attina, tu come chiami la… “magia”
delle falene?».
«Magia delle falene. Come la devo
chiamare, scusa?».
«Gli scienziati la chiamano Chroma. Il
mondo stesso è permeato di Chroma e talvolta… talvolta ce n’è
una minuscola quantità anche dentro le persone. Tu sei una port-».
«Io ho questo Chroma?», lo
interruppe Attina, drizzandosi «Che cosa figa! No, aspetta. Questo
vuol dire che sono simile a una falena. No. No. Non l’accetto».
Descartes si morse un labbro, aveva un
che di dispiaciuto negli occhi «Ma perché odi tanto le falene?».
«Mi prendi in giro?», sbottò Attina
«O mi prendi in giro o sei scemo. Se eri davvero a Cordata dovresti
saperlo benissimo, cavolo».
«Non- oh, lascia stare» Descartes
sospirò e scosse la testa «Sì, questo ti rende simile ad una
falena. Anche noi Aviatori siamo tutti portatori».
«E quindi anche voi avete le
allucinazioni?».
«Dei, fammi finire. In teoria no,
perché nei maschi questa piccolissima scintilla di Chroma rimane,
come dire… isolata. Tant’è che gli Aviatori non riescono ad
usarlo direttamente, possono solo sincronizzarsi con una scheggia di
Chroma cristallizzato e controllare quella. Nelle femmine invece, per
qualche motivo che non conosco, di solito è presente in quantità
maggiori e tende a dare dei… dei picchi, diciamo. Sono quei picchi
a causare le allucinazioni».
«E cos’è che dà questi picchi?»,
chiese Attina, mordicchiando un orecchio del coniglio di pezza.
Descartes si strinse nelle spalle e
scosse la testa «Non ne ho idea. Forse un medico o un biologo
potrebbero saperlo, ma non sono nemmeno sicuro che l’abbiano
scoperto».
«Dannazione. E tu cos’è che hai
fatto prima, allora? L’hai fatta finire più in fretta. Insegnami».
«Dei, Attina, non ho idea di come
funzioni. So solo che le allucinazioni mi diminuirono drasticamente
dopo i cicli di sincronizzazione con la scheggia nella lancia, ho
pensato che forse-».
«Cioè hai sperimentato? Su di me?»
Attina lo guardò storto per qualche secondo, giusto per godersi la
sua espressione di viscerale disagio che era una cosa meravigliosa,
poi sghignazzò «Continua. Le falene mi fanno schifo, ma tutto
questo mi piace. Quindi ha funzionato? Mi hai “sincronizzata”?».
«Pare. E con una certa scioltezza,
quindi spero non mi caschino i capelli. Non credere però sia una
cosa definitiva, anzi, perché ti sia utile dovrei sincronizzarmi con
te ogni volta che hai un’allucinazione e farlo per mesi – e non
sono poi certo che porterebbe ad un risultato stabile. Non lo so, non
so niente. Mi dispiace».
«E non posso usare anch’io una
scheggia come hai fatto tu? Che poi, sbaglio o fra le righe hai detto
che a te il Chroma funziona come alle donne?».
Descartes si passò una mano sulla
faccia «Lasciamo stare, ti prego. No, non puoi usare una scheggia
perché non saprei proprio dove procurarmela. I Cuori li tengono
tutti nelle capitali, Maodanna in particolare, in strutture
sorvegliatissime e servono una follia di permessi solo per poterli
vedere. Non-».
Descartes ammutolì di colpo e si portò
una mano alla bocca. Aveva gli occhi sgranati nella sua espressione
tipo, e pareva proprio la faccia di uno che ha realizzato qualcosa di
ovvio ma che non va detto a nessuno.
«No, non saprei davvero come fare»,
concluse, e Attina ebbe la fortissima sensazione che avesse appunto
omesso qualcosa.
«Cosa sono questi “Cuori” di cui
parli?», gli chiese allora, perché se la facilità con cui si
tradiva era pari a quella con cui gli si leggevano le cose in faccia,
era già a buon punto «Sono cuori veri? Pulsanti?».
«Sono il motivo principale per cui lo
stato fa cacciare le falene. Se la falena viene trafitta nei punti
giusti e lasciata morire lentamente il… il Chroma si…
cristallizza e forma-».
Descartes si interruppe di nuovo e si
passò le mani sulla faccia «E’ orribile. È orribile, Attina. Non
posso farlo. Non posso più farlo, non… non questo.
Mi viene
da vomitare».
«Ma che…? È per questo che vuoi
fuggirtene via? Ma non è il tuo lavoro? Non ne hai già uccise,
scusa?».
«Io in prima persona, una dozzina»,
borbottò Descartes, e nascose il viso contro le ginocchia «Non…
Dei, Attina, tu non… non puoi capire».
«Questa è una risposta che mi sta
veramente sul cazzo», sbottò Attina. Afferrò il signor Tuffo per
le orecchie e lo sbatté sulla testa di Descartes con tutta la forza
che aveva «Sei una merda. È come un soldato che scappa dal fronte e
va a piangere da mammina. Cosa vorresti sentirti dire, “bravo, fai
bene”? Non che io sia contraria alla vigliaccheria, anzi, spesso la
trovo una scelta saggia, ma se c’è una cosa che mi urta sono i
vigliacchi che poi si piangono addosso. Cioè, mi urta chi si piange
addosso in generale, ma i vigliacchi…! Se fai una
vigliaccata almeno siine fiero. È ammirevole».
Descartes scostò appena le dita per
guardarla «Ciò che dici non ha senso».
«Parli tu. Perché cavolo poi questi
ripensamenti adesso? Spero almeno sia solo per sana paura e non per
pietà verso quelle schifo di falene».
«Attina, accidenti-! Lascia stare, non
puoi capire. Tu non sai niente, niente, sai solo quello che altri
vogliono che tu sappia. Ma va bene, è meglio così».
«Rispondimi così ancora una volta e
ti meno! Se non so niente parla, spiegami, illuuuminami con la tua
saggezza infinita, perché dopo che per colpa di una merda di falena
io mi ritrovo senza famiglia, adottata per miracolo e sfigurata a
vita sai com’è, nella mia ignoranza mi piace pensare che più
falene crepano meglio è per tutti! E la tua pietà puoi-».
Attina si bloccò e si morse un labbro.
A parte che strillargli contro era stata davvero un’ottima idea –
doveva accadere un miracolo perché la zia non si svegliasse –
aveva detto troppo.
Si strinse i pantaloni del pigiama
all’altezza delle cosce e si succhiò il labbro con forza.
«… Sfigurata?», chiese piano
Descartes, e le guardò le mani «Mi chiedevo in effetti perché tu
non indossassi una camicia da notte».
«Stai zitto», sibilò Attina «Ora ti
odio».
Restarono entrambi in silenzio per un
po’, finché Descartes non sospirò e riprese la parola.
«Mi dispiace per la faccenda di
Cordata. Mi dispiace tanto. Se un giorno ne avrò l’occasione…»
Descartes le passò un dito su un braccio, e Attina avvertì di nuovo
quella piacevole vibrazione di qualche ora prima «… Ti prometto
che ti rivelerò un paio di quelle cose che non dovresti mai sapere.
Te lo giuro».
Attina aprì la bocca per ribattere –
le erano venute in mente almeno quattro o cinque rispostine acide –
ma le parole si rifiutarono di uscire. Dentro di sé, in un qualche
modo che non comprendeva, sapeva, sentiva che
Descartes non le
stava mentendo ed era davvero, davvero disperato.
*
«Hai fatto il bucato?», esclamò
Attina, inarcando le sopracciglia «Oh cielo. Sei vergognoso».
Descartes arrossì appena e tornò a
guardare fuori dalla finestra, la bacinella con i panni bagnati ben
salda fra le mani.
«Volevo stenderli, ma è da più di
mezz’ora che c’è un uomo, lì fuori. Sembra che aspetti
qualcuno».
«E’ il corteggiatore di mia zia»,
disse Attina. Non aveva nemmeno bisogno di controllare, ne era certa
«Il che significa che sei qui in piedi da mezz’ora a guardar
fuori?».
«Più o meno», ammise Descartes
«Cominciano a farmi male le braccia».
Poggiò per terra la vaschetta e si
stiracchiò con un gemito, poi si aggiustò la sciarpa attorno al
collo.
«Volevo rendermi utile».
«Oh, in effetti ti ci vedo, hai
proprio l’aria della madre di famiglia. Se rimanessi incinto non mi
stupirei poi così tanto».
Descartes rise «Non corro il rischio.
Si batte un po’ la fiacca su quel lato, ultimamente».
«Ohibò. E come mai? Hai un bel
faccino, non dovresti aver problemi a rimorchiare».
Descartes sospirò e distolse lo
sguardo, sul viso un’espressione a metà fra imbarazzo e
frustrazione.
«Mi sembra di sentir parlare Dietrich,
mi sembra», borbottò «Non è così semplice».
«Oooh, è perché hai già una cotta
per qualcuno, vero?» Attina sogghignò. Era così scontato,
Dei.
«E’ il tuo amichetto, vero? È un
classico e spiegherebbe pure mooolte cose, tipo perché sei a tanto
così dal fonderti con quella sciarpa».
Descartes avvampò – non avrebbe
potuto rispondere in modo migliore.
«Insomma, dai, ti conosco da una
settimana e l’ho capito al volo», sghignazzò Attina, dondolandosi
sui talloni «Come può non vederlo, il tuo amichetto? È così
palese».
«Ti prego, Attina. Lasciamo perdere»,
sospirò Descartes. Tornò a sbirciare fuori dalla finestra, e mentre
con una mano scostava appena le tendine, con l’altra continuava a
torturare un’estremità della sciarpa.
Altro che cotta, quello era
disperatamente perso.
«Perché dovrei lasciar perdere? È
interessante. Dietrich ce l’ha la fidanzata?».
«Anni fa», rispose distrattamente
Descartes. Gli sfuggì una risatina «Una rottura molto traumatica».
«E tu da quand’è che hai cominciato
a morirgli dietro?».
Descartes non rispose, si limitò ad
arrossire di nuovo.
«Oh cielo. Che cosa patetica».
«Ti ho chiesto di lasciar perdere. Ora
poi è tutto… complicato. Smettila di impicciarti e stendi tu i
panni, se non hai niente di meglio da fare».
Con un movimento anche troppo elegante
– da checca – Descartes si chinò e sollevò la bacinella, per
poi mollarla fra le braccia di Attina con un’espressione contrita
troppo da donnicciola.
«Goditi questa tregua temporanea,
Deschecca», gli disse Attina, complimentandosi mentalmente con se
stessa per il soprannome azzeccatissimo «Non hai la minima idea di
quanto mi piacciano queste faccende da soap. Dove fuggi ora, a
preparare la cena?».
Descartes aprì la bocca e avvampò
ancora.
«Perché no!», sbottò, passandole
oltre, e Attina scoppiò a ridere così forte che dovette poggiare la
bacinella per non farla cadere.
Attina si arrampicò sullo schienale
del divano e vi si sedette a cavalcioni, il ginocchio di Descartes a
portata di piede nel caso fosse necessario punirlo o richiamarlo
all’ordine.
«Quindi… per quanto hai intenzione
di rimanere, alla fine?».
Descartes la fissò da sopra al libro
che stava leggendo e le rivolse un sorrisetto «Non sarai così
egoista da volere il divano tutto per te?».
«Stupido Deschecca» Attina gli colpì
il ginocchio con un calcio «Era una domanda seria».
«Non lo so», rise Descartes,
distendendo la gamba. Così non era più a tiro, diamine.
«Vorrei davvero riuscire ad aiutarti
con le allucinazioni. Sul serio, non è solo perché tua zia mi
ricatta. E in più, beh, non ho proprio idea di… cosa fare della
mia vita».
«Addirittura», sbottò Attina,
inarcando le sopracciglia «Che melodrammatico».
Ruotò su se stessa e portò entrambe
le gambe giù dallo schienale «Quando lasci tutto dietro di te, ci
sono diverse cose che puoi fare. Potresti viaggiare, per esempio,
vedere il mondo tirando avanti giorno per giorno alla bell’e
meglio. A me tipo piacerebbe moltissimo visitare quei fantomatici
paesi dell’ovest dove vive la gente con la pelle scura e gli occhi
gialli, o anche muovermi verso nord – ho letto un libro di un uomo
che ha viaggiato lungo tutto la linea equatoriale e ha visto cose
fighissime. Oppure prendi una casetta da qualche parte, in un posto
in cui voi Aviatori non siete conosciuti, e vivi come una persona
normale. Se hai così tanti rimpianti, però, fossi in te rivaluterei
le tue scelte».
«I rimpianti sono un bel problema»,
sospirò Descartes «Rivaluterei la scelta se ne avessi una. L’unica
mia possibilità purtroppo è quella, al massimo posso variare un po’
le modalità. Dei, vorrei così tanto parlarne con Dietrich e
spiegargli tutto…! Ma non capirebbe e non la prenderebbe nemmeno
molto bene».
Attina corrugò la fronte «E se invece
dovesse trovarsi d’accordo con te e decidere di seguirti? Almeno
non saresti solo. Non puoi saperlo finché non provi. Ah, a meno che
tu non voglia sistemare in modo drastico anche la tua condizione
sentimentale».
«Non sarebbe una brutta idea. Attina,
spiegami, ti prego, come si gestiscono i rimpianti? Specie quelli
tanto invadenti da non lasciarti dormire la notte».
«Che cavolo di domande fai?», sbottò
Attina, e le venne d’istinto carezzarsi una coscia «Un po’ mi
onora che tu mi prenda come tua maestra di vita, ma il fatto che io
abbia undici anni non depone a favore della tua sanità mentale,
sappilo. Comunque il mio motto è non farsene mai, di rimpianti. Se
vuoi fare una cosa falla, senza aver paura delle conseguenze. Se
invece sei vigliacco e fuggi, basta che non ti pianga addosso tutta
la vita – ma missà che questo te l’ho già detto qualche giorno
fa, vero? I rimpianti non servono a niente, quindi ignorali. E se
proprio non riesci a sopportarli, cerca con tutto te stesso di
metterci una pezza in qualche modo».
Attina tacque, soppesando per qualche
istante ciò che aveva detto.
«Ti ho ripetuto solo una marea di
ovvietà, almeno te ne rendi conto?», disse sogghignando, ma
l’espressione seria con cui Descartes la fissò di rimando le
spense ogni accenno di ilarità.
«Che cac- Deschecca, tu hai grossi
problemi», borbottò, e Descartes le rispose con un risolino amaro.
«Ti direi di dormirci sopra, ma dubito
servirebbe. Nel senso che quel che hai di danneggiato lì dentro» e
si picchiettò la testa con l’indice «ormai è andato, addio.
Quindi ti auguro qualche sogno erotico, così almeno te la spassi».
«Buonanotte anche a te», rispose
Descartes. Attina lo salutò con una mano e balzò giù dallo
schienale, trotterellando poi verso la propria camera da letto.
Alla fine, persi com’erano in quei
discorsi assurdi, non aveva nemmeno ottenuto una risposta precisa
alla domanda che gli aveva fatto. Di certo Descartes non sembrava
intenzionato ad andarsene nel giro di qualche giorno, e tutto sommato
la cosa le faceva pure piacere.
Era bello avere una persona in più in
casa, specie poi se ne capiva qualcosa delle allucinazioni. Ne aveva
parlato con zia Anita, e nonostante la diffidenza nemmeno lei
sembrava ansiosa di scacciarlo.
Sarebbe stato carino tingergli i
capelli e spacciarlo per uno di famiglia. E poi cucinava molto meglio
della zia, non c’era paragone.
L’idea di chiedergli di rimanere
continuava a sembrarle un po’ troppo zuccherosa, da soap opera
insomma, ma doveva ammettere che cominciava a non dispiacerle.
Entrata in camera, si sedette sul letto
e sciolse i codini. Uno dei due elastici le si ruppe in mano, e
Attina lo osservò in silenzio.
Probabilmente non c’era niente che
odiasse di più al mondo. La rimandava sempre indietro a quella
mattina, quando nel farsi i codini si era rotto un elastico e tutte
le perline a fiorellino erano cadute giù, sul pavimento, rimbalzando
in ogni direzione e sotto ogni mobile possibile. Aveva pianto, dato
che quella era la sua coppia di elastici preferita, e per consolarla
sua madre le aveva promesso che gliene avrebbe comprato un altro –
ed era una delle ultime cose che le aveva sentito dire.
Aveva continuato a prometterglielo
anche come allucinazione, di tanto in tanto, specie i primi tempi in
ospedale.
Prese l’elastico rotto e lo tese.
Alla luce del sole tendeva più al rosa che al rosso, non ci aveva
mai fatto caso.
«Il sole?», borbottò, e alzò gli
occhi. La stanza era luminosa come se fosse mezzogiorno inoltrato.
Da quando si era fatto giorno?
Cercò la finestra con lo sguardo e la
trovò sul muro sbagliato, alla sua destra – dove
normalmente c’era la porta. A sinistra la stanza invece continuava,
allungandosi per diversi metri, un letto d’ospedale dopo l’altro.
Le persone che li occupavano erano ricoperte di ustioni, e alcune
gridavano bestemmie e piangevano per il dolore.
Attina si guardò attorno, la testa che
si muoveva a scatti nervosi. Le mura erano di quel bianco sporco da
ospedale che odiava tantissimo – dov’era il suo azzurrino
accogliente, dov’era? – e anche il suo letto era un letto di
ospedale, e fuori dalla finestra non c’era la strada sterrata col
fosso ma il cielo e piani e piani di vuoto.
Strinse le lenzuola e chiuse gli occhi,
prendendo respiri profondi. Non era poi peggio di quelle con la
mamma, in fondo. Era tutta questione di calmarsi e aspettare
tranquilla e ferma, in modo da non farsi male.
Non c’era niente di spaventoso, anche
se le grida degli altri pazienti le scatenavano brividi per tutta la
schiena.
Contò fino a trenta e riaprì gli
occhi, e l’ospedale era scomparso. Era di nuovo nella propria
cameretta, ma la stanza stava bruciando e in un qualche punto della
sua testa le grida continuavano sempre più forti, e da grida di
adulti sembravano sempre più pianti disperati di bambini.
«Zia!», strillò, schizzando indietro
d’istinto – ma anche il letto stava bruciando e con lui i suoi
vestiti, e le gambe facevano un male da impazzire. Si artigliò le
cosce e strinse i denti, soffocando un grido.
Era tutto falso, tutto falso, ma perché
allora doveva fare così dannatamente male?
«Descartes!», strillò ancora, e un
istante dopo sentì il cuore mancarle un battito. Un dolore bruciante
le perforò le tempie e le strappò un urlo, ma si trasformò in un
brivido piacevole nel giro di pochi secondi. Il brivido le scese
lungo il collo e si diffuse a tutto il corpo, portando via con sé i
pianti dei bambini, il fuoco e il dolore.
Batté gli occhi e si trovò con la
schiena contro il petto di Descartes. Sentiva le sue mani fresche
sulle tempie, e le sembrarono la cosa più piacevole che avesse mai
provato in tutta la vita.
Davanti a lei, zia Anita la fissava in
apprensione e le massaggiava i palmi col pollice.
«E’ finita», pigolò Attina,
tirando su col naso.
Descartes sospirò e le passò le mani
sulle spalle.
«Oh, grazie agli Dei», disse, un
accenno di tensione nella voce «Avevo paura che mi avresti respinto,
accidenti. Non avrei mai voluto forzarti, mi spiace, ai miei occhi
suona quasi come uno stupro».
«Attina, come stai?», le chiese
Anita, asciugandole le guance. Attina tirò su col naso e chiuse gli
occhi.
«Ora bene. Non… non vi ho sentiti
arrivare» si strofinò una manica sulla faccia e si sporse per
abbracciare la zia «Era un secolo che non mi veniva una di queste. È
stata tutta colpa dell’elastico».
«L’el- domani te ne porto a casa
alcuni nuovi, okay?», le disse Anita, carezzandole la testa.
Attina annuì e si portò in bocca una
ciocca di capelli, per succhiarla.
*
La luce che entrava dalla finestra le
batteva sulle palpebre chiuse e riusciva a darle comunque un fastidio
assurdo.
Strizzò gli occhi e mosse la testa di
lato con uno scatto.
«Attina, vuoi cambiare posizione?»,
disse Descartes. Attina aprì gli occhi e sfilò una mano da quella
di lui per schermarsi.
«Dei, sì, così mi dà ai nervi,
altro che rilassarmi. Mettiamoci per terra».
Scese giù dal divano e si sedette a
gambe incrociate al centro del tappeto, davanti alla stufa spenta,
poi allungò le mani. Descartes le si sedette di fronte e gliele
prese, facendo aderire bene i palmi.
«Ora respira profondamente», le
disse, chiudendo gli occhi.
Attina lo imitò «Non sono scema, puoi
evitare di ripetermelo tutte le volte. Questo è il punto in cui devo
tacere, vero?».
Descartes rise «Concentrati».
«Bene, ci sono, mi concentro»,
borbottò Attina, e cercò di focalizzarsi al massimo su ciò che
avvertiva attraverso i palmi.
Le mani di Descartes erano sempre
fresche e asciutte, erano piacevoli al tatto.
«Sento le tue mani e basta,
Deschecca».
«Prova a spingerti oltre».
«Mi sembra di sentire la tizia che fa
gli oroscopi alla radio».
Attina sbuffò e tentò nuovamente di
concentrarsi. C’erano le mani fresche di Descartes, ma c’era pure
quella mosca che le ronzava attorno, e un bambino che attraversò la
strada correndo e strillando come una scimmia, e l’etichetta delle
mutande le pizzicava la schiena.
Non era fatta per quelle cose mistiche
di concentrazione. Specie per la faccenda dell’assoluto silenzio,
continuava a trovarla ostica.
«Non puoi fare tu, come al solito?»,
lo implorò «Dai, bravo, ho capito che non sei il tipo a cui sudano
le mani, fine».
«Non posso sempre sincronizzarmi solo
io», sospirò Descartes «A forza di farlo potrei pure farti male.
Però potremmo provare con… non aprire gli occhi».
«Il bacio preferirei evitarlo. Sai,
non sei il mio tipo e credo sia pure leggermente illegale».
«Non oserei mai rubare il primo bacio
ad una soave fanciulla come te».
Descartes le prese una mano e se
l’appoggiò al petto. Attraverso il palmo Attina avvertiva
chiaramente la stoffa della sua maglia di cotone e il profilo dei
pettorali.
«Concentrati sul battito del mio
cuore», le sussurrò Descartes, e la sua voce le carezzò le
orecchie in un modo quasi inebriante.
Attina prese un respiro profondo. Quel
battere ritmico aveva un che di rilassante, le sembrava di sentirlo
nella testa.
Un brivido le scaturì dalla base del
collo e le percorse la schiena, facendole ritrarre il braccio
d’istinto.
«Che cosa fastidiosaaa», pigolò,
agitando le spalle.
«Le prime volte non è piacevole»,
disse Descartes «Però hai fatto un passo avanti, brava».
Sorridendole rilassato, Descartes le
prese una mano con le sue e Attina avvertì quei brividi piacevoli
che aveva provato già le altre volte. Le risalirono il braccio e
dalla spalla si irradiarono a tutto il corpo, per poi convergere
all’altezza del cuore e scomparire.
Se fosse stata un gatto, probabilmente
avrebbe fatto le fusa.
«Per oggi basta», disse Descartes. Le
lasciò la mano e si alzò in piedi, battendo le mani «Comincia a
farsi tardi. Su, prendi la giacca».
Attina rimase a fissarlo dal pavimento.
Lasciò ciondolare indietro la testa, gustando i residui di quella
sensazione piacevole.
«Fare sesso con un altro portatore
dev’essere particolarmente figo» si alzò in piedi e per un attimo
traballò – quand’era così rilassata la lasciava sempre un po’
intontita «Devo ricordarmi di provare, quando sarò grande».
Descartes si lasciò andare in un
sospiro pateticamente lungo e si accasciò in avanti,
accartocciandosi sullo schienale del divano. Con quei capelli che si
trovava, sembrava un fiore appassito.
«Ops, scusa, non l’ho fatto del
tutto apposta», sghignazzò Attina. Corse nello sgabuzzino a
recuperare le scarpe, e tempo di infilarsele che Descartes era dietro
di lei e le porgeva la cartella.
«Il pranzo l’ho già messo dentro.
Il tacchino ti piace, vero? Che c’era solo quello e non-».
«Il tacchino mi piace, mamma», lo
interruppe Attina. Si mise la giacchetta beige e prese la cartella
con entrambe le mani.
«Vuoi anche un bacetto su una guancia,
mammina?», sghignazzò, e Descartes le rispose con un colpetto in
fronte.
«Ti ho messo anche un ombrello, per
sicurezza».
Attina rise e trotterellò all’ingresso
«Ci vediamo alle cinque, mammina».
«Non fermarti a perdere tempo come al
solito, non-».
«Contaci, contaci», rispose Attina,
ed uscì di casa. Appena chiusa la porta le sfuggì un sorriso –
zia Anita tornava sempre tardi, erano secoli che non si sentiva fare
quelle raccomandazioni. Un po’ le facevano piacere, doveva
ammetterlo.
Il bambino di prima passò di nuovo
correndo, le mani tese in avanti.
Ah, beato lui, che non aveva tutti i
suoi problemi. Non aveva ancora dodici anni, ma già si sentiva una
vecchia.
Quando il bambino tornò indietro,
sempre correndo e strillando, allungò una gamba per fargli lo
sgambetto, poi si allontanò di corsa e lo lasciò lì piagnucolante.
A distanza di sicurezza rallentò il
passo. Le scarpe ormai si erano tutte impolverate, quindi percorse la
strada sterrata calciando tutti i sassi di dimensione calciabile –
in genere zia non voleva, ma tanto mica poteva vederla – e si fermò
solo per raccogliere un fiorellino bianco dal bordo di un fosso. Lo
incastrò nell’elastico nuovo che le teneva fermo il codino, e per
un istante le balenò in mente un’immagine di Descartes con
quell’acconciatura.
Sarebbe stato proprio una bella
signorina, con i codini.
Scoppiò a ridere e continuò a farlo
fino a casa di Linda, tanto che alcune persone che passarono in
bicicletta si voltarono a guardarla e pure Linda stessa la fissò
perplessa.
«Se qualcosa ti fa ridere quando ci
aspettano quattro ore con la Dittatrice, dev’essere una cosa
davvero divertente», le disse, chiudendo il cancello del vialetto
dietro di sé e raggiungendola.
«Purtroppo lo è solo per me»,
rispose Attina, e cercò di spegnere gli ultimi residui di risata con
un colpo di tosse.
«Senti, Atti, oggi c’è il mercato
in Piazza dei Granai, ci passiamo? Settimana scorsa ho visto un
cappellino troppo carino che non costava niente, voglio regalarlo a
mamma».
«Potrei fare un regalo anch’io alla
mia mammina adorata», ridacchiò Attina.
Linda corrugò la fronte «Intendi tua
zia?».
Attina rise e dondolò la cartella.
«E poi sai…».
Linda si provò un altro cappello e si
specchiò, mettendosi in posa come un’adulta.
«… Credo mi stiano spuntando le
tette».
«Eh?», sbottò Attina «Non è
giusto! Forse se spingi forte ti torneranno dentro. Non lasciarmi
indietro da sola!».
«Potresti provare tu a spremerti,
invece. Magari escono».
«Dico sempre alla zia di comprare più
latte, ma non mi ascolta».
Linda rise e poggiò il cappello sulla
bancarella.
C’era un po’ meno gente del solito,
quel giorno, nonostante fosse già mattina avanzata, quindi non
dovettero sgomitare molto per raggiungere il venditore di cappelli
successivo.
Non le era mai piaciuta la calca, e
quel viavai di persone era proprio al limite dell’accettabile. Pure
il chiacchiericcio di fondo e la puzza di sudore erano ancora nel
sopportabile; quello che però stava diventando impegnativo era il
caldo. Pur non essendo ancora primavera avanzata, fra i pesanti
tendaggi di chissà che materiale sintetico che coprivano le
bancarelle e tutta la gente l’aria non si smuoveva di un
millimetro.
«Linda, io sto soffocando. Se non ti
spiace ti aspetto sui gradini del tempio», borbottò, sventolandosi
con una mano.
«Uh, vai, tanto due minuti e ti
raggiungo», rispose Linda, e tornò a dedicarsi all’esame dei
cappelli.
Attina si allontanò con passo rapido,
scivolando fra la gente ed evitando il contatto il più possibile.
Stava cercando di oltrepassare due
vecchiette che si erano fermate perfettamente in mezzo allo spazio
già esiguo fra le bancarelle, quando le giunse alle orecchie uno
sprazzo di conversazione fra un commerciante e un cliente, subito lì
accanto, che conteneva un paio di volte la parola “Aviatore”.
Il cuore le saltò un battito e si
avvicinò di più per ascoltare, fingendo interesse per le cravatte e
le camicie esposte.
«Giuro, l’ho visto con i miei
occhi», stava dicendo il commerciante, gesticolando «Girava e
faceva domande. Ho la vista acuta, io, ho riconosciuto subito la
divisa. E poi hanno davvero i capelli bianchi come si dice».
«Oooh, che cosa strana», si intromise
Attina «Ho sempre voluto vedere un Aviatore. Dov’è andato?».
«Verso il tempio, credo», le rispose
il commerciante, agitando una mano in quella direzione «Forse sta
interrogando pure i monaci».
«Oh, bene», disse Attina. Superò
l’ostacolo delle vecchiette passando loro in mezzo con una certa
brutalità – tanto che una barcollò e le lanciò pure una
bestemmia irripetibile in dialetto – e corse in direzione del
tempio.
Salì i gradini di marmo rapidamente e
si fermò solo davanti al grande portone di legno intarsiato.
Conveniva entrare e cercarlo o
aspettare fuori?
In fondo l’ingresso era solo uno,
quindi optò per la seconda opzione e si sedette su un gradino. La
frescura del marmo le attraversava la gonna ed era piuttosto
piacevole, specie vista l’afa soffocante di poco prima, tanto che
le venne la tentazione di stendersi.
E se l’Aviatore fosse rimasto dentro
ancora a lungo? Cominciava ad essere un po’ a corto di tempo, e poi
Linda l’avrebbe raggiunta a momenti.
Forse sarebbe stato più saggio entrare
e cercarlo.
«E anche se lo trovo, poi?»,
borbottò, strusciandosi le mani sulla gonna. In effetti non è che
avesse davvero un piano in mente, stava un po’ agendo a caso.
Una delle porte accanto al grande
portone si aprì, e Attina scattò in piedi. Ne uscì una coppietta
dall’aria ebete che si teneva per mano.
«Attina!», si sentì chiamare, e vide
Linda poco distante che agitava una mano.
«Arrivo, arrivo», sbottò, e quando
si voltò per prendere la cartella si ritrovò un Vigilante ad un
passo, e dietro di lui l’Aviatore.
Indossava la stessa divisa verde di
Descartes, e attorno al collo portava una sciarpa fra il grigio e il
blu di cui non riusciva a scorgere le estremità.
Però aveva i capelli bianchi e la
barbetta nera. Doveva essere lui per forza.
Aprì la bocca e la richiuse, mentre
lui le passava accanto.
Descartes ripeteva di continuo di non
volerlo vedere, eppure col corpo sembrava sempre comunicare il
sentimento opposto. Un silenzioso “voglio disperatamente parlargli”
che emergeva fra le righe in modo prepotente.
«Dietrich!», lo chiamò, e quello
sussultò e si voltò sorpreso.
«Ci conosciamo?».
Attina sentì lo stomaco stringersi.
Saltellò un paio di volte sul posto e lo raggiunse, pensando
freneticamente a cosa dirgli. Serviva qualcosa di esplicito ma non
troppo, che potesse capire lui e il Vigilante no.
Gli tirò una manica per farlo piegare
alla propria altezza.
«Ho trovato la tua sciarpa», gli
disse, la voce che le tremava per l’eccitazione. Si spostò un po’,
in modo che il Vigilante non potesse vederla, e sussurrò «Ti posso
far vedere dove l’ho trovata. Se ti interessa, fatti trovare qui
dopo le quattro da solo. Mi raccomando. La sciarpa è tua, non del
Vigilante».
«Tu hai- tu cosa?», balbettò
Dietrich, ma Attina non gli diede il tempo di rispondere e corse via,
verso Linda.
«Cosa stavi facendo?», le chiese lei,
ma Attina la prese per un polso e la trascinò via con sé.
Il Vigilante seguì la bambina dai
capelli castani con lo sguardo, poi si voltò verso Dietrich.
«Controlli che non le abbia rubato
niente».
«No, no» Dietrich si tastò le tasche
e controllò lo zaino che conteneva la lancia con un’occhiata
«Credo fosse… solo una bambina curiosa e basta. Ho tutto».
Non appena suonò la campana di fine
lezioni, Attina prese la cartella e la riempì in fretta e furia; non
aveva ancora finito di trillare che lei era già sulla porta.
«Dove vai così di fretta?», le
chiese Linda «Non vieni con noi allo stagno? Quella cretina di
Stefania si ritrova lì con il suo nuovo amorino pucci pù, andiamo a
rovinarle l’appuntamento».
Accidenti. Rovinare gli appuntamenti
era tipo la cosa più divertente del creato.
«Mi tenti, cavolo, ma purtroppo avevo
già un… impegno, diciamo. Ci vediamo domani alla solita ora, eh?»
e detto ciò si defilò, uscendo dalla porta posteriore, che di
solito usavano i bidelli, per evitare di incrociare qualcuno che la
rallentasse. Sfruttò il cancello di servizio, e dopo un attimo di
esitazione si inoltrò per una serie di stretti viottoli che le
permettevano di evitare le strade principali.
In una decina di minuti si ritrovò
alle spalle del tempio e lo aggirò, passando alla larga dai piccioni
che le facevano sempre un po’ schifo.
L’Aviatore ancora non c’era,
osservò con disappunto. Magari era solo in ritardo.
E se non aveva capito l’indizio?
Dall’idea che si era fatta doveva essere un tipo un po’ tonto –
ce ne voleva per non accorgersi di ciò che provava Descartes, e
cieco non le era sembrato – quindi forse si era distratto e non
aveva colto.
Si sedette su una panchina poco
distante dalla gradinata e frugò nella borsa alla ricerca di
qualcosa di commestibile, tanto per ingannare il tempo. Nella
taschina davanti trovò due biscotti avvolti in un tovagliolo – si
erano un po’ sbriciolati, ma meglio di niente.
«Devi spiegarmi un po’ di cose»,
disse l’Aviatore, comparendo dal nulla e sedendosi accanto a lei.
Attina si portò una mano alla bocca
per non sputare il biscotto. Lo deglutì a forza e cominciò a
mangiucchiare il secondo, senza voltare la testa.
«Dipende da quanto posso fidarmi di
te», gli rispose, dandosi una certa aria di superiorità e sicurezza
che in realtà non sentiva poi moltissimo. Anzi, le era pure venuto
un crampo allo stomaco dalla tensione.
«In che senso? Se sai dov’è De-
dov’è la mia sciarpa, dimmelo e basta».
Attina schioccò la lingua «Ti manca
proprio il tatto, con le donne. Non mi stupisce che ti piantino tutte
dopo cinque minuti».
«Ma che- ma non mi- ma non è vero!
Non- senti, ragazzina, non ho tempo da perdere con certi gioch-».
Attina voltò il capo e lo fissò
torva. Lo sguardo dovette essere più efficace di quel che credeva,
lo fece addirittura ammutolire.
«Okay, scusa», disse Dietrich dopo
qualche istante di silenzio, alzando le mani in segno di resa «Sono
un po’ nervoso. Sono giorni che cerco De- la mia sciarpa, volevo
dire, senza nemmeno sapere se è… se è tutta intera, ecco. Ora,
ragazzina, potresti collaborare e… e… ti prego».
«La tua sciarpa sta bene e te la posso
far vedere. Non so però se posso ridartela», disse Attina,
assumendo un’espressione seria. Oh, quanto le piaceva essere lei a
dettare le regole. Era una sensazione inarrivabile «La sciarpa non
vuole essere trovata. Nemmeno da te».
«E allora perché mi porti da lei?»,
le chiese Dietrich.
Ad Attina venne da ridere. Parlare al
femminile di Descartes le pareva così tanto più appropriato.
«Perché anche se non vuole che tu la
trovi, la sciarpa si dispera all’idea di sparire senza poter stare
ancora una volta… attorno al tuo collo».
Di nuovo si mise a ridere. “Attorno
al tuo collo”, che metaforone.
Peccato che Dietrich non paresse
apprezzare l’ironia.
«Ho colto il concetto», disse,
passandosi una mano fra i capelli con un sospiro.
«È una sciarpa molto complessata»,
ridacchiò Attina «Sei una persona onesta? Mi prometti che non farai
la spia?».
Dietrich si batté un pugno sul petto
«Lo giuro. Dei, ragazzina, tu- tu non hai idea. È da quando è
scomparso che non... Per Enora, cominciavo a pensare che fosse
davvero-» lasciò in sospeso la frase e scosse la testa «Quella
sciarpa è molto importante per me».
«Credo proprio che la sciarpa pensi la
stessa cosa», disse Attina, alzandosi in piedi «Il problema
principale ora è che attiri un po’ l’attenzione, così. Dobbiamo
muoverci più discretamente».
«Posso inventarmi qualcosa, forse».
«Ah, e comunque…» Attina sorrise e
gli porse una mano «Mi chiamo Attina Cavalcanti. E per questa volta
l’aiuto è gratis, ma solo perché mi fate molta pena entrambi –
tu e la sciarpa».
La camicia che Dietrich si era comprato
era tipo la cosa più indegna che avesse mai messo piede fuori da una
fabbrica, e col cappello di paglia e la sciarpa non si abbinava
nemmeno a essere ciechi.
Ma almeno attirava l’attenzione solo
come “persona vestita malissimo”, e il cappello per quanto osceno
faceva il suo lavoro e copriva bene i capelli.
«Ah, sarà una scena bellissima»,
disse Attina, osservando le decorazioni rosate della camicia
«Talmente tanta virilità nell’aria che finalmente mi cresceranno
le tette».
«Esagerata», borbottò Dietrich
«Senti, ma davvero Des non vi ha dato problemi? Non ha rotto niente?
Rapito animali domestici? Spaventato bambini piccoli?».
Attina rise «No, proprio no. Quelle
sono cose che faccio io, in genere. Lui è stato addirittura utile».
Calciò un sasso di lato e si strinse
nelle spalle. L’arietta fresca della sera cominciava a infilarsi
nel colletto della camicia, non era granché piacevole.
«Non è male, il tuo amichetto. È un
po’ patetico, con quegli occhi da cucciolo smarrito, ma mi piace. È
simpatico».
Dietrich inarcò le sopracciglia «Non
lo sento dire molto spesso. Ma davvero era… cioè… tranquillo?
Senza lancia? È stato bene?».
«Beh, i primi giorni è rimasto sempre
a letto, ma ora sta alla grande».
«No, intendo… ehm… mentalmente,
ecco».
«Non è messo peggio di me», rise
Attina «Piace anche a zia Anita, che è sempre molto puntigliosa».
«Non riesco a crederci», borbottò
Dietrich.
«E perché? È molto fuori di
solito?».
«“Molto” è limitativo, cazzo.
Magari ha consumato talmente tanto Chroma da fargli bene alla salute?
Eppure le altre volte in cui ha esagerato l'ho visto stare peggio,
dopo, non meglio».
Attina batté gli occhi, perplessa da
tanto scetticismo. Certo, conosceva Descartes da poco meno di due
settimane, ma le era parso una persona armonica e abbastanza
equilibrata, crisi sentimentali a parte.
«Sicura che non sbagli persona?», le
chiese Dietrich, e Attina rise.
«Esiste qualcun altro al mondo
ossessionato da una sciarpa con le tue iniziali? No, quindi piantala
di fare lo scettico. Magari quand’era con te era teso e si
comportava in modo strano, che ne sai».
«Ma lo conosco da dieci anni, non- oh,
andiamo, non l’ho mai visto comportarsi in modo normale per più di
mezza giornata. Deve aver battuto fortissimo la testa».
«Dato che quando l’ho trovato era in
un fosso, non è un’eventualità da escludere».
All’altezza della porta di casa,
Attina tirò fuori le chiavi e sbirciò dentro. Sentiva il rumore di
un coltello che batteva sul legno, e fatto segno a Dietrich di
aspettare superò l’ingresso ed entrò in cucina.
Descartes dava la schiena alla porta ed
era intento a tagliare qualcosa – pareva verdura, da lontano.
Aveva legato i capelli in una coda
alta, un’acconciatura che Attina aveva sempre pensato gli donasse
molto. E ovviamente portava la sciarpa al collo, come sempre.
Immancabile.
«Deschecca», lo chiamò incerta –
perché dentro di lei, da qualche parte, una vocina insistente le
ripeteva già da un po’ che stava facendo una stupidaggine.
«Sei davvero venuta a casa subito»,
disse Descartes, voltandosi allegro «Non hai trovato niente di
divertente da fare?».
«In realtà…» deglutì a fatica e
lasciò la cartella di lato, le sudavano un po’ le mani «Lo so che
non volevi, Deschecca, però ti ho visto e ecco, quel che vedevo era
così in disaccordo con quel che dicevi… e sai come si dice, no?
Quando Enora ti manda le occasioni, coglile al volo!».
Fece segnò a Dietrich di farsi avanti
e rivolse a Descartes un largo sorriso.
«Bene, se ora volete vi lascio un po’
soli e-».
L’espressione di Descartes le fece
morire le parole in gola. Aveva gli occhi sbarrati e il viso
contratto a metà fra il gelo e il terrore, e Dietrich ricambiava lo
sguardo con un’espressione simile.
«… E tu chi cazzo sei?», disse
Dietrich dopo qualche istante di silenzio.
Attina fissò prima lui poi Descartes e
pigolò un «Eh?».
«C’era… c’era qualcosa che non
mi tornava. Tu non-» Dietrich si interruppe. Eppure gli occhi erano
gli stessi, e pure le espressioni e la corporatura – ma quei
capelli, che diamine erano quei capelli? E dove cazzo aveva messo le
lentiggini?
«Il tatuaggio, fammi vedere il
tatuaggio!», esclamò, scattando in avanti. Gli afferrò un lembo
della maglia e la sollevò, e quello pseudo Descartes lo lasciò
fare, non oppose resistenza.
Il simbolo degli Aviatori c'era; era
sempre lì, alla base della schiena.
Dietrich lo lasciò andare e mosse un
passo indietro.
«Chi cazzo sei? Cosa cazzo
sei?», sibilò, e lo pseudo Descartes si passò una mano sulla
faccia.
Dietrich gli afferrò un polso e tentò
di sincronizzarsi, ma venne respinto con così tanta forza da
mozzargli il respiro, come un pugno nello stomaco ben assestato.
«Questo non sarebbe dovuto succedere»,
mormorò lo pseudo Descartes, scuotendo la testa affranto «Mi
dispiace».
Questa volta fu Descartes a
sincronizzarsi, e Dietrich venne attraversato da un flusso d’energia
talmente intenso da fargli cedere le ginocchia. Buttò una mano sul
tavolo, per sostenersi, e gli lasciò andare il polso.
Non era la prima volta che provava una
cosa del genere. Era indelebile nel suo corpo il ricordo di quella
prima volta nei laboratori, quel giovane scienziato che al grido di
“vediamo che succede!” aveva stimolato un Cuore mandandolo in
risonanza.
«Ragazzina», sibilò Dietrich,
muovendo un passo indietro non appena sentì di nuovo le ginocchia
«Non so che cazzo è successo, ma stai indietro. Questo non è
Descartes. Cioè, è lui, però non… il corpo, il corpo è il suo,
ma dentro non-».
«Vi prego, è una cosa complicata»,
disse Descartes, passandosi le mani sulla faccia.
La stessa sensazione della prima e
unica volta in cui aveva trafitto una falena, con il suo Chroma
straripante che gli vibrava sulle braccia e gli scatenava conati di
vomito.
«Dentro non è lui. Dentro c’è…
Dei, sembra quasi che dentro ci sia un Cuore. Come
cazzo è
possibile che dalla falena sia-».
Descartes alzò lo sguardo, e Dietrich
si interruppe. Il cuore gli saltò un battito e per un attimo
credette che gli si sarebbe fermato del tutto.
In un certo senso chiudeva il cerchio.
«No, non… non esiste. È assurdo.
È-» aprì e richiuse la bocca a vuoto un paio di volte, e le parole
gli uscirono strozzate «È come… è come se lui fosse
la
falena».
«L’Adrien Descartes che conoscevi tu
è morto», disse quell’agghiacciante pseudo Descartes, chiudendo
gli occhi e massaggiandosi le tempie «E’ morto come è sempre
vissuto, tra l’altro, combinando un casino immane».
«Che cazzo sei?», sussurrò Dietrich.
Con una mano cercò di sfilarsi la tracolla, ma gli tremava troppo
per riuscire a coordinare i movimenti.
Lanciò un’occhiata alla ragazzina,
poco dietro di lui. Sembrava confusa.
Dei, ma che cazzo stava succedendo?
Descartes si guardò le mani, poi fissò
Dietrich e scoppiò a ridere in modo isterico.
«Che cazzo sono? Oh, gran bella
domanda. Che cosa sei quando hai i ricordi di una persona, i suoi
sentimenti, ma non sei lui perché al tempo stesso i tuoi ricordi
sono rimasti? Una copia? E il peggio…!» alzò la voce e puntò
l’indice a qualche centimetro dal naso di Dietrich «Il peggio è
che è tutta colpa tua!».
Dietrich sgranò gli occhi.
«Ma che- cos’è che sarebbe colpa
mia?!».
«E’ colpa tua perché non ti accorgi
mai di niente! Se solo tu non fossi così irrimediabilmente ritardato
io non sarei rimasto ancorato a quel rimpianto e non…» Descartes
si portò le mani alla testa e la scosse, chiudendo gli occhi «Credi
sia facile?».
Dietrich boccheggiò.
Gli si era come spento il cervello.
Cortocircuito.
«…Ora voglio sapere tutto»,
borbottò «Ragazzina, tu-».
Si voltò verso Attina e sentì un
brivido lungo la schiena, quando incrociò il suo sguardo. Aveva
l’espressione più velenosa che avesse mai visto in faccia ad un
essere umano.
«La ragazzina ha capito poco, ma quel
poco non le è piaciuto», sibilò Attina «Quindi si armerà di
coltello e rimarrà qui, anche perché questa è casa sua».
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