ietro un accenno
di sorriso. Cammina fiera, petto in fuori ma sbircia alle sue spalle sperando
di essere seguita dal ricordo. Sbatte la porta sperando che non si chiuda del
tutto e si nutrirà di quello spiraglio. La riconosci all’istante nello sguardo
di chi hai di fronte perché ti trapassa alla ricerca di un rimpianto. La
malinconia non è per tutti. E’ un fregio complesso per gli animi semplici.
Michelangelo Da Pisaietro un accenno di sorriso. Cammina fiera, petto in fuori
ma sbircia alle sue spalle sperando di essere seguita dal ricordo. Sbatte la
porta sperando che non si chiuda del tutto e si nutrirà di quello spiraglio. La
riconosci all’istante nello sguardo di chi hai di fronte perché ti trapassa
alla ricerca di un rimpianto. La malinconia non è per tutti. E’ un fregio
complesso per gli animi semplici.
Michelangelo Da In coscienza Molly
sa di aver agito per il meglio con la
stessa sicurezza con cui sa che non
avrebbe potuto comportarsi in modo diverso. (La coercizione la scagionava? Non se l’imposizione arrivava dal cuore,
da ogni parte dell’anima.)
Il meglio non è sempre bene e neppure completamente male.
È una via di mezzo.
Molly, in piedi di fronte al bivio, non muove un passo in
nessuna delle due biforcazioni.
Nella strada bianca, quella giusta, dove tutto è onesto e
vero, Molly dovrebbe raccontare la verità a John e Mary, Greg e la signora
Hudson. Uccidendoli. Uccidendo lui.
Nella strada nera, quella ingiusta, dove tutto è
scorretto e falso, Molly dovrebbe mentire a John e Mary, Greg e la signora
Hudson. Salvandoli. Salvando lui.
In entrambe le direzioni c’è dannazione e
salvazione.
C’è una terza strada, però, se l’è appena fabbricata. È
la strada della solitudine, dell’espiazione.
La misura
del sentire
“Non puoi ucciderlo.”
“E perché no, John?” Sherlock prende la
pistola, come se stesse pregustando il momento in cui la userà. Ha il fuoco
negli occhi e il profilo del suo volto risulta spettrale nella penombra
dell’appartamento desolato. “Dimentichi che ho ucciso per molto meno.”
È una
sentenza di morte.
Non può dire che gli dispiaccia. Le
mani gli prudono dello stesso desiderio di sangue e morte che sembra aver
afferrato Sherlock. Vendetta grida il suo sguardo. E vendetta sia, pensa John.
Occhio per occhio.
Questa volta non lo fermerà. No, non lo
fermerà.
Prende a propria volta la pistola e la
nasconde nella tasca interna del cappotto.
*
“È morta. Molly Hooper ha fatto
BUM!” Moriarty, in completo Vivienne Westwood e ghigno folle, accompagna
l’ultima parola mimando la dinamica di un’esplosione.
John sente un morso avvelenato alle
viscere, repulsione e nausea, mentre serra la mano attorno all’impugnatura
della pistola. Lo ha sotto tiro e basta una parola di Sherlock perché gli
spari. Al diavolo la Legge. Ha un debito da saldare nei confronti di Sherlock
che neppure le scuse ufficiali di mezza nazione e un pezzo di carta
controfirmata dalla Regina in persona sono riusciti a saldare ai propri occhi.
“Avevo deciso di spedirti una
ciocca di capelli o un dito, qualcosa che tu potessi tenere come souvenir. Non
di lei, ma di me,” indica se stesso e poi Sherlock, “che sono più furbo di te.”
“Perché non l’hai fatto?” domanda
Sherlock, senza impregnare la richiesta di alcun tono particolare. Non compare
neppure l’eco della furia omicida di poche ore prima. Alto e solido, Sherlock è
un manichino di accurata eleganza, un abisso che si affaccia sull’ignoto. È
tutta una facciata costruita a regola d’arte. Ha serrato i ranghi e chiuso le
fila. Nulla è stato lasciato al caso.
Moriarty reagisce come previsto.
Sembra deliziato dalla voce priva di intonazione che Sherlock ha usato. Si
esamina le unghie, indirizzandogli occhiatine di sottecchi e quel sorriso di
disgustoso compiacimento non lo abbandona. “Non c’era poi molto da prelevare.
Alla fine non è stata più così graziosa. Ma tu lo sai, hai visto il suo corpo.
Lei hai dato un ultimo bacio? Hai cercato di svegliarla come la principessa
perduta di una favola? Oh, se soltanto potessi vederti! Il tuo dolore,
Sherlock, è la mia vittoria. Strapparti il cuore dal petto, ricordi la mia
promessa? E si tratta solo dell’inizio.”
*
“Da quando complotti con Mycroft?”
“Da quando questo può salvarti la
vita.”
Non c’è ombra di indecisione o pentimento
in Molly.
Sherlock le volta le spalle
quando in realtà vorrebbe muoversi nella direzione opposta.
Verso di lei. Lontano da lei. Mai
con lei. Quella possibilità, se mai
c’è stata, è sfumata nel tempo, giace tra le salme delle altre sprecate.
“Sacrificandomi, John e Mary
erano salvi,” sta dicendo Molly. “Relativamente parlando, s'intende. E così la bambina.”
“Margaret,” rettifica lui
meccanicamente.
Non un alito o un tremito di emozione le brilla nello sguardo fiero, soltanto il presentimento di ciò che
seguirà e in parte un guizzo di consapevolezza.
“Margaret,” prosegue Sherlock,
inespressivo, “perché il tuo nome era diventato troppo difficile da
pronunciare.”
Non per lui. Lui si è sentito
braccato da quel nome, colpito dal suo nome come da pugnalate sferrate a
tradimento. Colpi inferti a fondo nella carne, che lo lasciavano lacero,
sanguinante e pesto dentro, intanto fuori rimaneva vivo il riflesso di un
fantasma, il ricordo del passato.
Molly
Molly Molly.
Nessuno ha più avuto l’audacia di
ripetere quel nome davanti a lui, dopo la prima volta. (Il sangue sulle mani
scorticate, i frammenti sparsi sul tappeto e gli occhi allucinati che lo
osservavano di rimando da una scheggia superstite dello specchio sopra al
camino.) E alla fine, lo sforzo di parlare di lei senza pronunciare il suo nome
non ha che esacerbato la ferita. Gli altri hanno smesso di ripeterlo e lui ha
ripreso a farlo, ininterrottamente, con il furore febbricitante di un invasato
e il timore di un condannato che vada al patibolo. Il timore di dimenticare anche
lui, di andare avanti.
Molly
Molly Molly Molly.
No, non avrebbe potuto
dimenticare neppure volendo. La lealtà ripagata col sacrificio più alto, nel
nome di quei sentimenti che lui ha dato prova di disprezzare; l’amore con il
dolore; la fiducia e la vita con la morte. I regali che lei gli ha fatto negli anni,
lui li ha ripagati con i loro ossimori.
“Mi hai mentito.”
“Sì, l’ho fatto.”
Vorrebbe scrollarla con forza. O
forse no. No, non scrollarla.
È rabbia? È sollievo? È
gratitudine? Ma nei confronti di chi? Di lei che lo ha tradito? Che ha tramato
alle sua spalle?
Mentire a fin di bene, come unica
possibilità di salvezza, in conformità di un piano più elaborato.
Cosa c’è da capire? Tutto. E
niente.
Cosa c’è da perdonare? Tutto. E
niente.
La domanda è: lui vuole farlo?
La risposta, destabilizzante: lo
ha già fatto.
(Non è neanche allora che la
bacia.)
*
Rivederla all’opera,
nell’obitorio che è il suo dominio, lo costringe ad andarsene, la prima volta.
È tornata e sta bene, ma non è
quello il punto, non lo è mai stato.
Il punto è che non sarebbe mai
dovuta andare via.
*
“Rivoglio il mio gatto.”
Molly è là, pallida e
determinata, che stringe un ombrello rosso che gocciola acqua sul pavimento.
Sherlock sapeva che fosse lei prima
ancora che aprisse bocca o che la silhouette di lei si delineasse tra le porte
scorrevoli della cucina. L’ha riconosciuta dal rumore impercettibile dei passi,
passi che rimangono leggeri anche quando intrisi di risoluzione, insieme al
profumo che la precede, di fiori e qualcosa che ha a che fare con
l’igienizzante che si applica sulle mani prima di entrare al Barts e ogni volta
che ne esce.
“Rivoglio Toby.”
Sherlock non si dà pena di
scostare gli occhi dal microscopio e Molly passa all’attacco e occupa con la
mano lo spazio tra l’obiettivo e il tavolino con fermacampione.
Con deliberata lentezza,
affettando indifferenza, Sherlock mostra di accorgersi della presenza di lei e
ne accetta con un sospiro pregno – esasperazione, tedio, fastidio - l’interruzione
che ne sarà, è già, conseguenza.
Si scambiano un breve sguardo e a
quello sguardo non si accodano saluti o frasi di rito. Hanno smesso di esserci
da tempo. I muri di vocaboli vuoti come ‘circostanza’, ‘apparenza’,
‘convenienza’ sono crollati a colpi di realtà. Altri sono stati subito innalzati
a rimpiazzarli, sulle macerie dei precedenti, a colpi di omissioni e menzogne.
Sherlock guarda verso il salotto,
dove è pressoché certo che si trovi Toby. Sono tre i nascondigli che predilige:
sotto il divano, dietro la scrivania o sulla poltrona di John. Il fatto che
Molly, entrando, non lo abbia notato lo convince per il rifugio del divano.
Sconcertante, comunque, c’è il
fatto che il gatto non si sia lanciato verso la padrona.
La pioggia ne ha alterato
l’odore? O forse è il tempo trascorso, la separazione? La pioggia e il tempo
schierati da una parte, il senso di abbandono dall’altro.
Ancora più sconcertante c’è che
lui si scopri a provare empatia per un gatto.
Potrebbe rifiutare di
restituirglielo. Potrebbe appellarsi a cavilli giuridici, all’acquisto di
proprietà della cosa ritrovata. Potrebbe, invece mette a tacere l’ostilità.
Con un gesto blando del braccio descrive
un arco accurato che indica il salotto. “Allora riprenditelo,” la invita e non
suona affatto come una sfida.
Molly esita visibilmente, dopo
mesi di visi duri e dignitosi, di labbra serrate e cucite in una calma fittizia.
Appare ferita dalla sua placidità, dall’arrendevolezza dei suoi modi.
È un rifiuto anche quello, né più
né meno, ma di un tipo diverso da quello che ha contraddistinto i loro rapporti
nell’ultimo mese, come ruggine in un ingranaggio altrimenti perfettamente
funzionante.
Rabbia, rancore, livore,
rimprovero. Questo è qualcosa che lei può comprendere e accettare. Sono
reazioni che si aspetta. Il suo tono noncurante e insieme freddo, il ritorno in
auge di tempi remotissimi che entrambi ritenevano andati, no, di più, morti e
sepolti. Questo la ferisce come non
sono riusciti a fare i suoi silenzi e le asprezze, le piccole rappresaglie che
ha messo in piedi a suo danno – passarle accanto nei corridoi del Barts e
fingere di non vederla, mandare Wiggins a ritirare le analisi al posto suo,
convincere Mike Stamford a farlo lavorare con tutti gli idioti incapaci che
sono suoi colleghi anche e soprattutto durante i suoi turni.
Molly esita, quindi, e Sherlock
prova uno scampolo di sentimento nel vederla irrigidire le spalle e contrarre la
mandibola. Forse è colpa o rimorso.
Lei si sposta in salotto, chiama
il gatto e Sherlock è colto dalla piena e tardiva comprensione di cosa significhi
“mettere il cuore nella voce”.
Toby, nonostante i richiami
accorati, non esce, non si mostra.
Di nuovo, empatia. Esiste qualcun
altro più accanito di lui nel non dimenticare.
Di nuovo, lievissimo palpito
presto calpestato, il rimorso.
Molly si china, ginocchia che
strisciano sul pavimento polveroso, allunga la mano sotto al divano.
Sherlock sente e immagina, più
che osservare, il soffiare astioso di Toby e il richiamo addolorato di Molly.
Una manciata di secondi dopo, lei ritrae la mano graffiata, chiaramente
sorpresa.
Le spalle non sono più rigide, la
bocca non è più contratta. La tristezza divampa, fa impallidire il resto del
suo viso che è sempre stato troppo pallido ed emotivo.
(È allora che la bacia? Potrebbe.
E invece no.)
La vede andare via e della
fermezza con cui lo ha affrontato non è rimasta che cenere sfiduciata.
*
“Non mi perdonerà.” È un dato di
fatto quello. Sherlock non le perdonerà quell’atto di presunzione e indipendenza,
non glielo perdonerà perché andrà a intaccare le proprie.
“Non facilmente,” concede
Mycroft, stirando le lunghe dita pallide e intrecciandole sopra la corona di
incartamenti che affollano la scrivania, “e non nell’immediato, ma lo farà. È
di Sherlock che stiamo parlando. D’altronde sarebbe quanto mai ipocrita da
parte sua non perdonarle qualcosa di cui lui stesso si è macchiato in passato,
non trova?”
Ipocrita, fa eco
la mente addolorata di Molly. Capisce il gioco di Mycroft. Ne ha intuito la linea
di portata appena entrata, tuttavia adesso le sembra di riuscire a scorgere con
estrema precisione le trame che le si stringono contro, come la malia di un
genio cattivo.
No. Scuote
brevemente la testa. No, non lo fermerà.
“Questo non lo fermerà.”
“Non lo ha mai fatto.” Mycroft
non ha più quella luce di compassione che le ha riservato fino a un attimo prima.
Forse si aspettava pianti, forse si aspettava di dover utilizzare le sue
migliori doti persuasive per convincerla. “Ci saranno ripercussioni,” sta
proseguendo, “com’è ovvio presumere, eccessi di cattivo umore nei mesi a
venire. Nulla i cui danni ed effetti collaterali non possano essere
circoscritti.”
Tra gli effetti collaterali,
entrambi pensano senza dirlo a voce alta, ci sarà la disperazione dell’uomo che
entrambi amano più della loro stessa vita.
Diventare il catalizzatore
dell’attenzione di Moriarty e così facendo, farsi odiare per amore.
È arrivata fino a quel punto la
misura del suo sentire, al silenzio.
*
“Ti sei fatta carico del mondo.”
Molly tace avvilita prima di rivolgersi
a lui con aria di avvertimento. “Non del mondo, Sherlock, del tuo mondo che, guarda caso, è anche il
mio. E ha funzionato, no?”
“Saresti potuta morire.”
“So come lavorare con la morte.”
Lavorare con la morte, le ragioni
dietro il suo essere, nell’agire di che ne induce lo stato. Anche lui riteneva
di esserne capace. Ne è stato sicuro fino a quando non si è ritrovato
nell’impossibilità di farlo, incapace di elaborare un lutto e nel lutto
l’ineluttabile realtà: averla persa e doverle dire addio. ‘Basta un singolo
lutto e cadiamo in pezzi come vetro’, John aveva scritto nel suo blog senza
ulteriori aggiunte.
“Sono passati due mesi, Sherlock.
Quanto ti ci vorrà per perdonarmi? A John sono bastati due giorni per perdonare
te.”
“Io non sono John.”
“No, non lo sei.”
Negli occhi scuri di Molly Hooper
si rincorrono vecchi fantasmi, labili richiami a quella che è stata la sua vita,
insieme a ragnatele più recenti: accettazione della differenza tra sé e John e
una comprensione più sottile e profonda, cioè che se lui fosse stato come John Watson non
lo avrebbe amato allo stesso modo.
(Avrebbe potuto baciarla allora.
Era stata la prima volta che si era
pentito di non averlo fatto.)
*
“Quando hai intenzione di
metterci una pietra sopra?”
Mai.
John si massaggia la porzione di pelle
tra le sopracciglia con due dita. Ha rughe incipienti sulla fronte e agli angoli della
bocca, solchi che non sono sfregi prematuri del tempo, ma di troppe avventure
insieme. I casi, presto o tardi, mi
renderanno i capelli bianchi, ha preso a scherzare. Sherlock non ride.
L’idea del tempo, volubile e inafferrabile, è una delle poche cose in grado di
sconvolgerlo. Il tempo è qualcosa di relativo e contemporaneamente ne senti lo
scorrere come grani di sabbia in una clessidra capovolta.
Chiude gli occhi.
In quello stesso momento ha otto
anni e sta inseguendo Barbarossa sul versante della collina dietro casa. Sente
il vento fluire sotto i piedi mentre corre, il cielo gli riempie gli occhi e
nulla può fermarlo.
Ne ha dodici e sta seppellendo il
suo primo amico. Ha scoperto che la vita indossa per vestiti le spire di un serpente,
bisogna guardarsi dai suoi abbracci perché a metà di un piacere, mentre sei distratto, ne
approfitta per colpirti alle spalle.
Ne ha ventuno ed è alla sua
quarta riabilitazione. Mike Stamford gli presenta una sua studentessa. Ha
capelli color mogano legati in un nido di rondine e trattenuti da una fascia
colorata, occhi di mercurio che lo guardano timorosi dietro la montatura degli
occhiali da vista.
Ne ha trenta e ha al fianco
l’uomo migliore che conosca. L’uomo è un soldato e un dottore, ha una risata
vociante e scrolla le spalle senza cattiveria quando crede che lui abbia
superato il limite.
Ne ha trentaquattro e ha giurato
di proteggere ciò che gli è caro a qualunque costo. Le persone che gli sono
care occupano una mano piena ed è per permettere che ce ne sia una sesta che
uccide un uomo.
Ne ha trentasei e Molly Hooper è
morta e poi di nuovo viva.
Mai. Non
glielo perdonerà mai. Decidere di perdonarla non è forse mettere una pietra
sopra alla faccenda?
“Ti comporti da bambino petulante.”
“No,” gli dirà Mary due giorni
più tardi. “Ti comporti da uomo innamorato che è stato tradito. John dovrebbe
capirlo.” Suona incredula per la mancanza di perspicacia dimostrata dal marito.
“Perché sa come ci si sente?”
Mary non si offende. Sa che è vero
e sa anche meglio di lui, meglio di chiunque altro tra loro, che la verità non
è sempre gentile. Quelle espresse da lui, poco gentili, lo sono sempre state,
ma adesso, quando le comunica, sono accompagnate da una certa luce e un certo
calore, dalla curva un po’ obliqua del suo sorriso sghimbescio.
[“Vedo il ghiaccio che si
scioglie, fratellino. Attento a non mostrare quanto si nasconde al di sotto.”]
I suoi affetti gli sono sempre stati
cari, ma dopo che ha rischiato di perderli e dopo aver rinunciato a loro per
metterli in salvo, dopo che ha avuto lo scorcio della vita che avrebbe avuto senza
di loro, ha smesso l’abito del dissimulatore e ha appeso al gancio la maschera
dell’indifferenza.
A che pro? Basta fingere e basta
mentire. In pericolo, per colpa sua, lo sono stati sin dall’inizio, lo saranno
per il resto dei loro giorni.
È questo che non può perdonarle.
Lei ha visto. Lei sa.
Il prezzo del provare, il costo
del sentire.
Lei li conosce.
Saperlo, a quanto pare, non le ha
impedito di spezzargli il cuore.
*
L’espressione di Mycroft, la sua
voce, tutta eloquenza e retorica da quattro soldi, quando ha scoperto il
tranello. Ci sei caduto dentro con tutto
le scarpe.
“L’allievo supera il maestro.” Si
riferiva a Molly che, nell’angolo opposto della stanza, se ne stava dritta e
impettita, il mento sollevato. Soltanto il suo sguardo mostrava il panorama completo
della sua disperazione.
“Come ci sente, Sherlock?”
Come ci si
sente a guastare chi ti circonda?
Traditi, ecco come.
*
“Dimmi, Sherlock, come ci si
sente? A perdere il cuore, intendo.”
Sherlock vuole mettergli le mani
al collo e stringere, stringere fino a fargli esplodere le cavità oculari,
oppure, perché no, ucciderlo per asfissia da compressione. Comprimergli
l’addome fino a farlo soffocare nei suoi succhi gastrici. Vuole che chieda
pietà e vuole essere l’uomo che gliela nega. E, dopo che sarà morto, vuole annegare
nelle orbite vuote di Moriarty la voragine che la morte di Molly Hooper gli ha
scavato dentro.
“È bruciata gridando il tuo nome,
ma tu non sei arrivato a salvarla. Hai fallito.”
Sente l’imprecazione di John, il
crocchiare della mano che non stringe la pistola, l’odio che si dirama e che è
speculare al proprio.
Sì, ha fallito. Non si permetterà
di sbagliare una seconda volta. Eppure, nonostante le premesse, non è il suo
dito a premere il grilletto. È Mary. Mary che vendica parte della famiglia.
[“Non c’è nulla che non farei per la mia famiglia. La mia famiglia sono i miei
amici.”]
*
La faccia sbiancata di Molly
quando è piombato come una furia nell’ufficio di Mycroft, sbattendo la porta,
la sua immobilità statuaria.
Il microsguardo di Anthea, che ha
distolto per un attimo gli occhi dal blackberry e li ha puntati su entrambi,
come se fossero esemplari rari di una specie in via di estinzione.
Non ha chiesto scusa. Molly non
ha detto neppure una volta che le dispiaceva.
È questo che non le perdona?
Neppure lui lo ha fatto. Non ha
chiesto scusa per aver ucciso un uomo. Non ha chiesto scusa a Mary per averle
detto di ucciderne un altro al posto suo.
Ma ha chiesto scusa per essere
morto e anche per non essere morto.
Ha chiesto scusa a John perché
era quello di cui aveva bisogno per voltare pagina.
Sherlock non ha mai avuto bisogno
di essere perdonato, non c’era niente da perdonare. Non ha fatto ciò che era
giusto. La giustizia, dicono, è cieca, tanto è vero che anche i criminali vi si
appellano, si credono nel giusto.
Ha fatto ciò che andava fatto
perché era l’unica opzione ragionevole. Per questo riconosce che quella
di Molly sia stata una mossa magistrale, risolutiva per stanare Moriarty.
Non c’è nulla da perdonare anche
nel caso di lei, ma.
Ma.
Non può dimenticare che Molly
Hooper sia morta.
Ieri era morta, oggi è viva e
domani, chissà.
No, non può dimenticare.
*
“Non ci riesci proprio, vero?” La
voce di Molly lo raggiunge nel limbo in cui si trova con la consistenza fasulla
di antiche storie che ha immagazzinato. “Sapevo cosa stavo facendo. Sapevo che
tu…” Le mancano le parole, o piuttosto il coraggio per pronunciarle. No, non il
coraggio. Molly è una leonessa, lo è sempre stata, ma era priva
dell’autoconsapevolezza. Non è questione di coraggio, quindi. Quello che la
trattiene è altro. Molly è sprovvista dell’insensibilità, della fredda e
spietata logica che le occorrerebbe per pronunciarle. La verità può essere
crudele. Molly non potrebbe mai esserlo deliberatamente. Per lei si riduce tutto
a una questione di vita o di morte. La vita di quelli che ama in cambio della
sua. Una morte in cambio di una vita. La soluzione con cui nessuno dovrebbe
scendere a patti, il compromesso che implica l’immolazione.
La voce di Molly sa di lacrime,
ma Sherlock sa che non ne troverebbe traccia sui suoi lineamenti. “Sherlock,
volevo dirtelo. Ogni istante in cui non l’ho fatto, in cui non ti ho fatto
sapere che ero viva, l’ho odiato, ho odiato me.
Se avessi ceduto, tutto il dolore che avevo provocato, tutto quanto, a che
sarebbe servito? Non potevo tornare e non potevo dirtelo, anche se volevo
farlo, lo volevo disperatamente. E mi dispiace, ma non posso dirti che mi
dispiace perché lo rifarei. Se tornassi indietro lo rifarei.”
Lo rifarei.
Mi dispiace, ma lo rifarei.
Mi dispiace.
Quando ha detto a John che gli
dispiaceva non ha mentito, ma non è stato del tutto sincero. Non gli dispiaceva
di averlo ingannato perché quello, quello
gli aveva salvato la vita. Non gli dispiaceva per le conseguenze della
menzogna, perché, tra le altre, c’era da annoverarsi la salvezza sua e degli
altri. Ciò che gli dispiaceva davvero era di aver impiegato tanto a tornare e
ancora prima di essere stato costretto a partire. Non la causa, non l’effetto,
ma la concatenazione di eventi. Gli dispiaceva perché non era pentito.
Mi dispiace, ma lo rifarei se
necessario.
È come lui. Molly è come lui.
Sherlock batte le palpebre,
registrando dal chiaroscuro nella stanza il tempo che ha trascorso altrove.
Sa che quel fremito è inquietante
e gli fa assomigliare le ciglia a zampe di ragno, o così ci ha tenuto a informalo
John.
Batte le palpebre per accorgersi
di essere solo nell’appartamento vuoto. Il tappeto rosso appare stinto sotto lo
strato di polvere che lo ricopre e che ad ogni minima vibrazione si spande
nell’aria in una danza macabra da romanzo gotico.
Toby, sul davanzale della
finestra, si sta facendo le unghie su un’edizione di BREVE STORIA DEL TEMPO di
Stephen Hawking. Non che gli importi. È stato il regolo di un cliente con
evidenti problemi di senso dello humour e lui non ha mai avuto intenzione di
leggerlo.
Toby, sentendosi osservato,
smette la sua progressiva opera di demolizione. Arcua la schiena e agita la
coda nera come una frusta per poi fare un balzo verso la porta chiusa e
cominciare a grattarne il legno.
Empatia.
Se perfino un gatto smette di
dargli il beneplacito del dubbio, forse la situazione si è spinta troppo oltre.
*
“Un attimo soltanto, per piacere.
Finisco di analizzare questo campione e sono subito da te. Anche se sul serio,
John, ti avevo detto che sarei venuta da sola, non era necessario che –
Sherlock.” È impietrita.
Lui la fissa educatamente, ma
inarca un sopracciglio, perplesso dallo sbigottimento di Molly.
“Scusa.” Molly evita di guardarlo
direttamente e incomincia a sfilarsi i guanti di lattice. Ne sfila uno, ma non
riesce a sfilare l’altro perché le tremano le mani. Senza fare commenti,
Sherlock nota ogni particolare, come abbia serrato la mano che ancora calza il
guanto attorno al bordo del tavolo da lavoro, come si stia sfregando gli occhi,
che sono rossi e gonfi.
“Scusa,” ripete lei, “mi hai
presa in contropiede. Non sono più abituata a vederti in laboratorio. Di solito mandi Wiggins.”
È bastato così poco perché si
abituasse all’idea della sua assenza?
(Loro possono vivere senza di te e che la loro vita sia migliore o
peggiore, qualitativamente, ha qualche importanza?
Loro
possono vivere senza di te, hanno capacità di adattamento diverse dalle tue,
sanno far fronte alle avversità dei sentimenti.
Tu,
invece, in quei famosi due anni hai scoperto di non poter fare a meno di loro.
Che, a conti fatti, la prospettiva di una vita senza di loro non ti interessa.)
È bastato così poco? A quanto
pare sì e no.
“Non preoccuparti,” sta dicendo
Molly, intanto che raduna i fogli dei suoi appunti in una pila poco
strutturata. “Sto andando via. Ti serve qualcosa? Domanda
stupida, dimentica
che l’abbia fatta. Se anche ti servisse aiuto, non lo
accetteresti più da me.” Parlantina
veloce, rapido susseguirsi di espressioni e ripensamenti. Molly fa una
risata
vuota, amareggiata e i suoi occhi sono opachi e stanchi. “Ormai
mi odi, l’impegno con cui ci hai tenuto a dimostrarlo lo ha
reso piuttosto esplicito.”
Lei pensa
che la odi.
“Non ti odio,” si ritrova a
controbattere in tono grave, misurato.
Molly trasale come se l’avesse
colpita fisicamente. Ha ancora il guanto di latice mezzo infilato. Sherlock le
prende la mano e glielo sfila, non badando al battito accelerato che sente
sotto i polpastrelli. Lei lo fissa ad occhi sgranati, miracolosamente non più
cupi come fino a pochi attimi prima. Può vedere le lacrime farsi strada prima
ancora che le raggiungano le cornee.
No, non è
affatto odio quello che prova.
La abbraccia e quasi
istantaneamente percepisce Molly tendersi in quell’abbraccio e poi rilassarsi
quando gli passa le braccia attorno al collo e si alza sulle punte. Per contro
lui si china in avanti.
Quasi gli dispiace di averci
impiegato tanto a capire e glielo sta per dire.
Le dita di Molly, morbide e
affusolate, gli tastano le guance e la mandibola, le tempie, come se non
credessero alla solidità del viso che respira ad un tiro di schioppo dal suo.
Sherlock le dice l’unica cosa che
conti. Sa che capirà perché lo ha sempre fatto.
“Bentornata,” sussurra al suo
orecchio, come lei ha fatto tre anni prima.
Molly ride ed è allora che
succede. È allora che la bacia. La bacia e per un istante trionfale tutto ciò
che ha preceduto quel bacio e tutto ciò che seguirà, il brulicare in fermento
della propria testa, ogni cosa tace.
La misura del suo sentire,
comprende, è stato l’orgoglio.
N/A:
Torno, in una toccata e fuga lo premetto, con questa storia ambigua e
tendente al nonsense. L’introspettivo spadroneggia, con schiacciante vittoria
del punto di vista di Sherlock su quello degli altri. Una di quelle cose che si
scrivono quasi da sole, ma che poi, al rileggerle, ti chiedi d’istinto: ‘e
adesso che ci faccio?’. Questa è stata esattamente la mia reazione.
La trama, praticamente assente, si sviluppa nei nebulosi mesi che
seguono la morte di Moriarty e fanno intuire (ci riescono, vero? Oddio, lo
spero xD) quanto lo ha preceduto. Cioè che Molly, convinta da Mycroft, ha finto
la propria morte così come ha fatto Sherlock in precedenza e, proprio come
Sherlock, non le è stato permesso dirlo a nessuno dei suoi amici perché le loro
reazioni dovevano essere autentiche e credibili. Molly lo fa, odiandosi nel
farlo e sapendo di meritarsi l’odio di Sherlock, perché come lei stessa pensa è
pronta a farsi odiare per il suo amore e questa, signori, è esattamente la misura
del suo amore, la misura del suo sentire che è il silenzio e il sacrificio.
Lì lì,
mentre la scrivevo, ammetto di essere stata attraversata dall’idea di farne una
long, ma sarebbe stato troppo impegnativo e quindi ho lasciato tutto così
com’è. Inoltre sto cercando di impegnarmi in un’altra storia, una abbastanza
lunga e abbastanza complessa che è una AU ed è qualcosa di vecchio che ho in
testa da tipo due anni e qualche mese. Insomma, ho deciso che è giunto il
momento di metterla su carta, ma il processo si sta rivelando più complicato
del previsto e ci sono ostacoli ad ogni crocevia.
Spero come sempre che la lettura sia stata di vostro gradimento e che vi
abbia trasmesso qualcosa. Un abbraccio fortissimo, spero di ritornare
prestissimo :)