Note: Prima di ogni
altra cosa, devo ringraziarvi, sia per la pazienza sia per
l'incoraggiamento. Secondo, devo annunciare che questo è il
penultimo capitolo. Sì, lo so, avevo detto che sarebbe stato
l'ultimo e che questa storia avrebbe avuto 11 capitoli, ma
c'è stato un cambio di programma. Come detto all'inizio, ho
scritto questa long un po' di tempo fa e, prima di pubblicarla, mi sono
limitata a correggerla e sistemarla un po', lasciandola sostanzialmente
inalterata. Eppure il finale non mi convinceva, così l'ho
ampliato, modificato e rivisto. Quest'operazione ha comportato un po'
di pagine in più, quindi ho deciso di staccare la chiusura
in due capitoli. Non odiatemi - anzi, fatelo, ma non prendetevela con
la storia :D
Saluti, Alex.
11
Lucas
Così non andremo
più vagando,
Nella notte fonda
Anche se il cuore vuole
ancora amore
E la luna
splende luminosa...
George Gordon Byron
Penelope Garcia vorrebbe alzarsi dalla sua sedia,
spegnere tutti i monitor e scappare. Sente l'instinto di chiudersi la
porta alle spalle e non guardarsi più indietro,
perché a volte la realtà è fin troppo
dura, fin troppo vicina. Sono passati tre giorni da quando Reid
è stato ospedalizzato e ha rischiato la vita, per l'ennesima
volta. Il suo ruolo è quello di osservatrice distante, la
persona incaricata di scovare il male e portarlo alla luce, di pregare
che tutto vada bene e che la squadra scenda intera dal jet, varcando le
soglie del BAU stanca ma viva. A volte, semplicemente, gli orrori sono
troppi e nessun colore, nessun video virale o immagine carina
può allontanarla da quei demoni. Ora essi hanno attaccato
uno di loro e lei si è sentita impotente, ancora.
Sente la porta aprirsi e chiude gli occhi, attendendo la
stretta rassicurante di Morgan sulla sua spalla. Posa le dita sul dorso
della sua mano e sorride, cercando di trovare conforto in quel gesto
così semplice e normale. Derek si china sulla sua spalla e
osserva la foto sullo schermo.
«Lucas Carter» mormora, le mascelle
serrate. «E' lui?»
Garcia annuisce, digitando sulla tastiera per materiallizare
tutte le informazioni che è riuscita a raccogliere.
«Nato a Las Vegas il 10 Marzo 1979, la madre era Elisabetta
Andres, padre ignoto. La donna è morta nel 1985, uccisa da
un certo Victor Ortega. La cartella medica indica segni di abusi
ripetuti sia sulla madre che sul figlio, ma la donna non ha mai
denunciato il compagno. Dopo l'omicidio, Carter è entrato
nel sistema ed è stato affidato ad una coppia del Texas,
Elisabet e George Carter. I coniugi sono morti in circostanze sospette
un anno fa nella loro casa.»
«Li ha uccisi lui?»
Penelope scrolla le spalle e non riesce davvero a
rispondere. Quante vite simili ha visto attraverso il suo monitor?
Quanti passati travagliati hanno attraversato quello schermo? Le storie
spesso sono tragiche e si somigliano, intrecciandosi in una spirale di
umiliazioni e abbandoni, dolori e solitudini. Poi c'è
l'altro lato, quello che non ha più una voce: le vittime.
Qualunque briciolo di pietà che lei potrebbe provare per le
persone distrutte dal loro passato, dalle loro follie, si annienta di
fronte alle immagini di corpi mutilati e volti rigidi, una volta
sorridenti. Nei minuti che seguono, Penelope risponde a tutte le
domande di Derek, così ansioso di sapere ogni macabro
dettaglio di quella figura così misteriosa. Lei si ritrova a
dirgli esattamente le stesse cose che ha detto alla squadra, ma non
perde un dettaglio. Sa che Derek è appena tornato
dall'ospedale, dopo aver accompagnato Spencer a casa, e sa che ora ha
bisogno di focalizzarsi su qualcosa che può controllare, su
informazioni che riesce a gestire.
Così gli mostra tutti i successi
accademici di Lucas Carter, diplomatosi con ottimi voti, laureato in
psicologia, mai arrestato per alcun reato, neanche una multa. Ai suoi
occhi sembra che Carter si sia impegnato a controllare i suoi istinti,
costruendosi attorno una terrificante facciata di normalità.
Tuttavia, intorno a lui cose strane erano accadute: animali scomparsi,
ragazzi aggrediti e, nella sua cittadina, una serie di atti violenti
senza alcun indiziato. Penolope si ritrova a rabbrividire per
l'ennesima volta: chiunque sia realmente quest'uomo, è
chiaro che ha intelligenza, conoscenze informatiche e nervi saldi
sufficienti a renderlo irraggiungibile.
Quando ha finito con il file di Carter, Penelope si
abbandona allo schienale della sedia. Sospira e sente Derek rilassarsi,
la stanchezza prendere il sopravvento.
«Come sta Reid?» chiede alla fine,
alzando lo sguardo su di lui. Derek abbozza un sorriso, poi scuote la
testa. Sembra dominato da emozioni contrastanti, i lineamenti sfiancati
dalle notti insonni e dalle preoccupazioni.
«E' stata dura per lui.»
Penelope lo ha visto in quel letto di ospedale, appena
ricoverato. Da allora, è stata allontanata dalla sua stanza,
come tutti gli altri. Reid li ha voluti tenere a distanza, non volendo
che vedessero il suo calvario. La disintossicazione non è
esattamente un momento felice e lei non riesce a evitare di pensare a
Derek, seduto nel corridoio ad ascoltare le grida e i lamenti di Reid,
impotente.
Gli dona un sorriso che, date le circostanze, è
un regalo che Derek accetta con silente gratitudine.
Le stringe ancora la spalla ed esce dalla stanza.
Il dottor Antonio Cruz siede alla sua scrivania,
le spalle squadrate incorniciate dal crepuscolo di La Vegas oltre i
vetri dell'ampia finestra. Davanti a lui c'è il fascicolo
personale di quello che considerava il suo miglior tirocinante.
Scioglie le mani giunte sotto il mento e le unisce ancora, sopra quel
fascicolo. Gli occhi scuri incrociano quelli bui dell'agente Hotchner.
«Non so come sia potuto succedere»
ammette a se stesso. «Non avrei mai immaginato...se avessi
saputo che una persona del genere era a contatto con i miei
pazienti...è orribile.»
Hotch studia il volto dell'uomo e il suo sguardo fermo. Non
dubita che sia assolutamente sincero e, in quanto team leader, capisce
perfettamente cosa l'uomo possa provare. «E' comprensibile
che sia riuscito a imbrogliare anche lei. Stiamo parlando di uno
psicopatico.»
Il dottore annuisce, perdendosi a guardare il proprio
attestato appeso orgogliosamente al muro. I suoi occhi tornano un
attimo sul fascicolo, prima di incontrare ancora lo sguardo
dell'agente.
«Dottor Cruz, da quanto conosceva Lucas
Carter?»
Cruz sospira, raddrizzandosi sulla sedia. «Circa
sei mesi. Ha ottime referenze, si è laureato con il massimo
dei voti, mai alcuna pecca nella sua carriera accademica. Con il senno
di poi, non mi meraviglia, persone come lui sono in grado di eccellere
e rimanere nella normalità.»
Hotch annuisce, lasciando al dottore il tempo per
raccogliere le idee. Lo vede aprire la cartella e scutare la foto di
Carter. «Ha sempre avuto un comportamente eccellente. Era
sinceramente interessato a tutti i pazienti, voleva imparare il
più possibile e continuava a studiare e ad aggiornarsi anche
oltre l'orario stabilito. In particolare, seguiva il caso di Diana
Reid.» Cruz alza uno sguardo duro sull'agente, prima di
continuare. «Tre mesi fa mi ha chiesto un periodo di pausa,
adducendo gravi motivazioni personali. Essendo così dedito
al lavoro, ho acconsentito senza indagare. Avevamo concordato di
sospendere il tirocinio fino al suo ritorno.»
«Ha legato con qualcuno in particolare
nell'istituto?»
Cruz scuote energicamente la testa. «Andava
d'accordo con tutti, dalle infermiere agli altri tirocinanti. Aveva un
buon rapporto con i pazienti e con me era rispettoso, ma non si
è fatto esattamente degli amici. Non credo che riuscirete a
spillare molto da queste mura.»
Hotch se lo aspettava. Da quando Garcia è
riuscita a rintracciare Lucas Carter, l'uomo che si è finto
Philip Edwards, lui ha capito che non sarebbe bastato. Lucas Carter
è un ragazzo dalla vita tranquilla, un buon appartamento
-pulito e ordinato al limite del maniacale- e nessuna relazione
stretta. Nei luoghi che frequentava, tutti lo ricordano come un ragazzo
a posto. Persone come lui non destano sospetti, mantenendo senza sforzo
la loro facciata di normalità.
«Quando ha lasciato
l'istituto?»
«L'ultimo turno che ha servito
è stato tre giorni fa. Era appena tornato a Las Vegas e
sembrava del tutto tranquillo. Alla fine del turno ha salutato,
è andato via e non è più
tornato.» Cruz prende una pausa, accigliandosi.
«Lei sa dov'è ora?»
Hotch valuta se rispondere. Lo sguardo di Cruz sembra
sinceramente interessato, come se avesse bisogno di una conferma che
l'uomo non tornerà mai più nella sua vita.
«Ha lasciato gli Stati Uniti con un passaporto
falso.»
Il dottore sembra colpito dalla risposta, e Hotch non
può dargli torto. Lui stesso ne è rimasto
sorpreso. Lucas Carter ha avuto la freddezza di tornare a Las Vegas,
riprendere il tirocinio e pochi giorni dopo sparire. Ha preso un volo
per Madrid, da lì è ripartito per la Croazia, poi
il Cairo e lì le sue tracce si sono perse. Garcia non
è stata in grado di rintracciarlo. Lucas Carter sembra
essere sparito nel nulla.
«Vorrei poter essere utile» ammette il
dottor Cruz. Hotch prova sincera simpatia per l'uomo e gli regala uno
dei suoi pochi leggeri sorrisi. Gli stringe la mano, alzandosi e
raccogliendo il fascicolo di Lucas Carter.
«Lo è stato, dottor Cruz. La
ringrazio.»
Hotch si volta e ha già una mano sulla
maniglia, quando l'uomo lo richiama. «Saluti il dottor Reid
da parte mia. Spero sinceramente che stia bene.»
Anche io,
vorrebbe dire Hotch.
Erin Strauss passa lo sguardo tra il fascicolo sul
legno pregiato della scrivania e l'agente Hotchner. Dopo un lungo
silenzio, prende un grosso respiro e congiunge le dita.
«Aaron, non ti nascondo che non apprezzo il modo in cui
quest'indagine è stata gestita.»
Hotch la fissa senza proferir parola. Se lo
aspettava.
«Ma riconosco che le circostanze erano
fuori dal nostro controllo.»
«E' così.»
La donna gli lancia uno sguardo duro, prima di
aprire il fascicolo e sfogliarlo in fretta. Hotch sa che sta solo
cercando di trovare le parole giuste e, quando sembra soddisfatta,
ricongiunge le mani e lo scruta. «Non sappiamo nulla del
movente di Lucas Carter? Voglio sapere quali sono le tue
ipotesi.»
Hotch incrocia le braccia. «Sarò
sincero. Io non credo che Daniel Ronald e Carter fossero una classica
squadra omicida. Il profilo ricavato dagli omicidi si adatta
perfettamente a Roland, anche alla luce delle valutazioni psichiatriche
antecedenti i fatti. Ma, come sappiamo grazie al dottor Reid e alle
successive analisi della scientifica, non è stato Roland
l'esecutore materiale degli omicidi.»
«Uno guardava mentre l'altro eseguiva»
conclude Strauss. «Mi pare non sia un profilo
anomalo.»
«No, infatti. Ma qualcosa non quadra: Carter
è molto più metodico, organizzato, sadico. Ha
torturato psicologicamente Reid, quando per incastrarlo ciò
non era necessario. E' un puro psicopatico. Gli omicidi, invece,
calzano con il profilo di Roland.»
«Cosa sta cercando di dirmi?» chiede la
donna, sporgendosi in avanti.
«Che Daniel Roland era solo una pedina nelle mani
del Carter. Lo ha tenuto sotto controllo non lasciandogli la
possibilità di uccidere, ma gratificandolo con il voyerismo,
sfogando al contempo il suo stesso desiderio di uccidere. Sapeva che le
prove avrebbero portato a Reid e che, in caso di necessità,
la colpa sarebbe potuta ricadere su Daniel Roland. Carter si
è assicurato due capri espiatori e un piano di
riserva.»
«Una messa in scena? E' questo che
crede?»
«Sì, è ciò che
credo» afferma sicuro Hotch.
«Mi scusi, ma non ne vedo lo scopo.
Perché rischiare tanto?»
Hotch sa che non esiste una risposta semplice a questa
domanda. Il tipo di accanimento mostrato da Carter indica motivazioni
personali. Garcia ha scavato a fondo nella vita dell'uomo, ma non ha
trovato alcun legame con Reid.
«Per narcisismo. Ha avuto la squadra nel suo pugno
e ha dimostrato di essere più intelligente e furbo. Ha
montato gli omicidi, manomesso le prove e mosso le sue pedine solo per
dimostrare che poteva farlo. In questo modo, ha anche evitato di
lasciare prove che lo collegassero direttamente a lui. Alla fine si
è tradito, ha commesso un errore ed è
fuggito.» Fa una pausa e gli occhi gli cadono sul fascicolo.
«Ora che ha soddisfatto questo suo appetito,
passerà un certo periodo di latenza prima che torni a
colpire.»
Il capo Strauss fa una smorfia involontaria.
«Aaron, devo essere sincera, l'idea che l'uomo che
è entrato impunemente in una stazione di polizia e ha
cercato di uccidere un mio agente, e che è riuscito a
raggirare il sistema, sia ancora a piede libero, non mi
piace.»
«Neanche a me» ammette Hotch.
«La mia squadra ha fatto il possibile.»
«Ne sono certa.»
Hotch non le crede, ma tiene per sé le proprie
considerazioni, limitandosi a scrutarla. Il tono della donna cambia, ma
il suo linguaggio del corpo continua a trasmettere nervosismo e
disapprovazione.
«Per quando riguarda il dottor Reid, ho deciso di
non prendere provvedimenti. A quanto ne so, non ha commesso errori. La
sparatoria è stata giustamente motivata dall'autodifesa,
un'azione accidentale. Daniel Roland lo ha ingannato, e non
c'è prova che il dottor Reid potesse agire in modo diverso e
migliore. Dal rapporto del dr Reid risulta che Roland lo abbia
sequestrato e sottoposto a iniziezione forzata di
idromorfone.» Strauss alza gli occhi dal fascicolo, scrutando
l'agente. «E' corretto?»
Hotch annuisce. Mentire al proprio capo è sempre
una scelta che può avere conseguenze inattese, ma Reid non
merita d'esser punito da una persona che, meno degli altri,
può conoscere e comprendere lo stato emotivo che lo ha
portato a quel punto.
«Quanto alla sua richiesta, approvo in
pieno. Il dr Reid merita del tempo per riprendersi da questa situazione
traumatica. Generalmente l'ammissione di una dipendenza, da qualunque
sostanza, comporta gravi ripercussioni sulla carriera di un agente, ma
in questo caso credo si possa dire che le azioni del dr Reid non
fossero soggette alla sua volontà.» Per la prima
volta Hotch ha la netta sensazione che Erin Strauss sappia quanto del
rapporto sia vero e quanto no; ancor più sorprendente
è che la donna abbia deciso di fingere il contrario.
«Ha qualcuno che si occupi della riabilitazione?»
«Lo farò io personalmente.»
Strauss lega i loro sguardi e sembra sul punto di dire
qualcosa che, Hotch lo sa, non gli piacerebbe. Ha un ripensamento,
chiude il fascicolo e lo pone su una pila. «D'accordo, Aaron,
sono certa che saprai gestire al meglio la situazione.»
«Grazie, Erin» dice Hotch, alzandosi.
«Se è tutto, io tornerei dalla squadra.»
«Certo, vada pure. Data l'assenza di tracce, posso
considerare il caso momentaneamente chiuso.»
Hotch lo considera ancora aperto, almeno nella sua mente. E
sa che la squadra continuerà a pensarci, a tenere gli occhi
e le orecchie aperte in attesa di possibili sviluppi. Ma altri killer
vanno presi e altre vittime salvate, che sia dalla morte o, ormai
tardi, dall'oblio.
Tre giorni prima
Poggiato
al muro bianco di questa clinica asettica, ripenso a quanto mi
mancherà Las Vegas. E' una città fatale e
illusoria, come una grande maschera su un volto scheletrico. Il deserto
del Mojave è Las Vegas, e Las Vegas è piante
forzate nel terreno, luci abbaglianti per nascondere il cielo, edifici
pieni di gente e vita per combattere il vuoto. Chi viene qui, spesso,
vuole solo scomparire. Mi piace Las Vegas, avrei voluto crescere in
questo posto, non nel Texas. Un'altra differenza tra la mia vita e
quella del caro Spencer.
Il Texas
è deserto e verità. Quale che sia, questa
verità, è solo un'altra illusione.
Diana Reid
è seduta sulla sua poltrona come ogni crepuscolo, le lunghe
dita strette tra loro e lo sguardo sognante rivolto alla finestra. E'
una bella donna e conserva negli occhi la vivida luce
dell'intelligenza. Penso a William Reid e un moto di disgusto sorge dal
mio stomaco. Penso a Spencer e a quanto somigli poco a suo padre,
eppure hanno una parte di DNA in comune.
Non ho nulla
contro Diana, la trovo affascinante in una certa misura. Avrei voluto
essere suo figlio. Mia madre, chissà dov'è
seppellita, era solo un altra anima persa di Las Vegas. I miei genitori
adottivi avevano grossi sorrisi e braccia spalancate per abbracciarmi.
Mi dissero, quando avevo sei anni e uno zaino in spalla, che loro mi
avrebbero amato, che nessuno mi avrebbe più fatto del male.
Mi portatono in Texas e io non piansi.
Mantennero la
promessa, ma non è amore che mi serve. Così li ho
uccisi, un anno fa. Li ho uccisi perché...bhe,
perché potevo.
«Diana?»
La povera
donna si volta e mi sorride. «Oh,
Lucas»
sussurra. E' in uno dei suoi giorni buoni, lo vedo dal modo in cui
guarda accigliata la borsa sulla mia spalla. «Vai
già via?»
«Il mio turno è finito, Diana» le dico ricambiando il sorriso.
So che il mio è caldo e rassicurante. Eleonor, la donna che
pretendeva di amarmi e non ferirmi, me lo diceva sempre. Quando l'ho
uccisa, sorridevo così.
«Resta ancora un po'. Ti leggo un'altra lettera
del mio Spencer.» Dal
cardigan tira fuori un foglio ripiegato. Porta sempre con sé
l'ultima lettera che ha ricevuto e di solito lo fa quando lui non le
scrive da un po'. Il mio sorriso interno diventa un ghigno. Povera
donna.
Diana si
sporge e batte un palmo sul cuscino della poltrona accanto alla sua.
«Siedi, vuoi?»
Accenno un
sì e poggio a terra la tracolla, sedendomi come un paziente
davanti alla finestra. Mentre ascolto lei leggere le stesse parole che
ho già ascoltato una settimana fa, la guardo con cura.
Spencer ha la
sua stessa bocca. Ha lo stesso fisico sottile e grazioso. Ha la stessa
luce negli occhi, almeno quando lei è lucida. Mentre legge,
sorride e ogni tanto scuote la testa, divertita. Lei lo ama.
Ripenso al
giorno in cui ho trovato il mio vero certificato di nascita. Dodici
mesi fa, giorno più giorno meno. Quella stronza della donna
che mi ha messo al mondo ha fatto un favore a un polizziotto, che le ha
restituito un certificato di nascita finto come il suo amore per me.
Elisabetta Andres, questo il suo nome, è stata picchiata a
morte da uno dei suoi uomini. Io avevo sei anni. Eleonor e George mi
dissero che loro mi avrebbero amato. Così va la vita.
Diana ama
davvero Spencer. Chissà cosa si prova.
Spencer ha
metà DNA di Diana e metà di William.
Io ho
metà del corredo genetico di William e niente a che fare con
Diana, eppure provo più stima per questa donna folle che per
tutto il resto del mondo. Curioso, vero? Non parlo di affetto, per
cortesia, ma di un legame intellettuale. Diana finisce di leggere la
lettera e la stringe al petto, il sorriso malinconico e gli occhi
gentili si spostano su di me.
«Il mio Spencer è un bravo
ragazzo» dice.
Le stringo
la spalla e lei posa la sua mano fredda sulla mia. «A
domani, Diana.»
Mi volto e so
che non tornerò più. Vorrei ringraziarla per
tutte le informazioni che mi ha dato, ma non credo apprezzerebbe.
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