Ben ritrovate n_n
sono tornata con una reituki/aoiha ♥ la reituki sarà il pairing principale, mentre la aoiha
sarà trattata in modo più marginale, non è che possono sempre rubare tutto lo
spazio >_> doveva essere solo una reituki
questa! Comunque, questa ff tratterà di un argomento
un po’ particolare, potrà anche non essere di vostro gradimento e lo accetto,
ma come dico sempre: le mie storie sono già scritte lì da qualche parte nell’etere,
io devo solo leggerle e trascriverle. Dovevo
scrivere questa storia, è rimasta ferma per un anno intero e finalmente ha
visto una degna fine. Il romanticismo mi è, pian piano, scappato di mano e tutto si è trasformato in una enorme fluff .w.
buon per noi, ogni tanto piogge di cuori e arcobaleni non fanno male. Chi ha
letto In Blossom forse non mi riconoscerà neanche
nello stile, Sing for me
vuole essere una ff semplice, delicata, introspettiva
e quotidiana.
Mi scuso con tutti coloro che
potrebbero sentirsi ‘offesi’ o ‘urtati’ da questo argomento.
I capitoli sono tutti, ovviamente, già scritti ♥
Le parti in grassetto sono in JSL (Japanese
Sign Language), cioè il Linguaggio dei Segni
Giapponese…avete già capito, vero? In realtà la situazione del personaggio in
questione (non voglio svelare nulla) è molto più complicata di come l’ho
descritta io in questa ff, me ne rendo conto, leggere
così facilmente il labiale non è affatto un dato ‘realistico’…ma
il bello delle ff è anche sognare e realizzare l’impossibile
♥
Non mi resta che augurarvi buona lettura e sperare di
farvi sognare o, almeno, farvi passare qualche minuto di relax
libero dall’ansia e dallo stress *^*
Spero di sentirvi presto,
ciao ciao ♥
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Mi sono sempre chiesto che suono faccia
il vento quando agita le foglie degli alberi. Se quello di un cane che abbaia
rincorrendo un gatto sia tanto fastidioso quanto dicono,
o che suono abbia la mia voce. Mio fratello dice sempre che è un suono caldo
come i raggi del sole e che se potessi mangiarlo sarebbe
come il gelato al cioccolato: un gusto fresco, ma deciso e intenso. Io non ci
credo, ho paura che nonostante tutti i miei sforzi per nasconderlo sarà sempre dolorosamente ovvio che c’è qualcosa di strano.
È successo quando avevo sei anni, come
tutti i bambini sono stato a letto con una di quelle malattie che servono solo
a riempirti la faccia di bollicine, solo che è peggiorata così
tanto da far sprofondare il mio mondo nel silenzio; da allora non ho più
sentito niente, potrei piazzarmi ad un millimetro dalla fonte di rumore più
forte del mondo e non sentire neanche un ronzio. Così ho imparato a riempire il
vuoto che mi circondava, ad osservare attentamente le
espressioni delle persone per capire se sono arrabbiate, tristi o felici, a
seguire ciò che dicono le labbra con la massima attenzione e ho imparato a
comunicare con le mie mani; non lo faccio sempre, solo a mio fratello e alle
persone a me più care permetto di vivere la mia diversità, per il resto del
mondo io sono solo un normalissimo ragazzo di vent’anni che non vede l’ora di
spaccare il mondo e fare un bel botto.
Devo davvero tanto a mio fratello, senza
di lui non sarei cresciuto così pieno di vita e spensierato; lui ha sempre
cercato di riempire il vuoto lasciato dai suoni che non sento perché anch’io so
che il mondo ne è pieno, mi ha detto che alcuni sono bellissimi come lo
scrosciare dell’acqua nei giorni di pioggia e altri meno come le urla dei
vicini quando litigano per ore. Così il borbottio della caffettiera è diventato
il solletico sulla pancia, quello del vento le sue carezze leggere sulla pelle,
quello degli uccellini che rompono alle sei di mattina i suoi pizzicotti.
Ma c’è una cosa che non riuscirà mai a
spiegarmi, non importa quanto ci provi, so che non riuscirò mai a provare le
sensazioni che regala la musica.
Akira
era ancora avvolto tra le lenzuola quando sentì un fastidio insistente sul
braccio che sembrava non volersi arrendere tanto presto. «Mhm...» di solito, però, quando mugugnava in quel modo il mondo
ritornava alla sua solita pace; quella volta, invece, diventò più assillante e
così fu costretto ad aprire un occhio per scorgere la figura offuscata di Yuu,
stava gesticolando cercando di dirgli qualcosa, ma non era ancora abbastanza
lucido da capirlo. Si stropicciò gli occhi mettendo a
fuoco ciò che vedeva.
Muoviti o farai tardi, sto facendo il caffè.
Che ore sono?
Le sette.
Tentò
di rispondergli ma lasciò cadere il braccio sul letto con l’intenzione di
ritornare a dormire, ma il cuscino che gli precipitò in faccia lo fece svegliare
del tutto; Yuu era sempre il solito e non mancava mai di prenderlo in giro, o
stuzzicarlo quel tanto che bastava per risvegliare il suo carattere gioviale, e
di solito era un vulcano in eruzione, solo che alle sette di mattina non ci si
poteva certo aspettare un miracolo. Con uno slancio si buttò giù dal letto in
tempo per vedere la figura di suo fratello allontanarsi, dopo la solita tappa
in bagno lo raggiunse in cucina richiamato dal profumo del caffè. Ogni volta
che sentiva quel profumo gli veniva in mente il solletico
che Yuu gli faceva sulla pancia, per farlo svegliare diceva lui, ma non gli
aveva mai creduto; provava solo un gusto sadico nel torturarlo, ne era
convinto.
Finalmente!
Sei tu che vai di fretta.
Ah, non tu che sei lento?
No e muoviti a darmi quel caffè! Una tazza fumante gli si posò davanti non appena si
accomodò al piccolo tavolo addossato alla parete, vivevano in quella casa da
tre anni ormai, esattamente da quando i loro genitori erano partiti per un
viaggio da cui non avrebbero più fatto ritorno.
Oggi fino a che ora lavori? Yuu glielo chiese dopo aver richiamato la sua attenzione
sventolandogli una mano davanti al viso.
Le sei.
Io oggi non lavoro alla faccia tua,
quindi me ne starò tutto il giorno a far niente. L’affermazione fu accompagnata da un’espressione di
beatitudine celestiale, pur di tirare avanti aveva dovuto accontentarsi di un
anonimo posto da impiegato che lo costringeva in un grigio completo con giacca
e cravatta, così quando aveva un giorno libero era
praticamente capodanno.
Grazie tante eh! E un vaffanculo non glielo tolse nessuno.
Yuu
sorrise alzandosi per lasciare la sua tazza vuota nel lavandino, cercando di
sistemare i suoi ribelli capelli neri, erano cresciuti
in fretta e gli arrivavano già alle spalle. Cosa vuoi per cena? con Akira era sempre così,
prima lo provocava fingendo di prenderlo in giro e poi faceva qualcosa per dimostrargli
quanto in realtà gli volesse bene. Yuu amava profondamente suo fratello, sin
dal primo momento che aveva visto quel minuscolo fagotto azzurro
aveva avvertito un senso di protezione; a separarli c’erano soltanto due anni,
perciò era come se fossero cresciuti tenendosi per mano. Poi era successo. Loro
ci scherzavano su dicendo che si erano rotte le casse come in uno stereo
difettoso, solo che per quel bambino di sei anni erano i suoni del mondo intero
ad essere andati in pezzi. All’inizio Akira aveva
paura di tutto quel silenzio, si chiedeva perché fosse diventato così diverso
da tutti gli altri bambini e perché quando parlava con le sue mani quelli ridevano; aveva passato mesi a convincerlo che
non era lui ad essere sbagliato, ma gli altri che non vedevano quanto fosse
bello quando gli raccontava cosa aveva fatto a scuola senza dire una parola.
Così di giorno Yuu lo difendeva dai compagni di scuola, assecondava ogni suo
desiderio, lo convinceva ad esercitarsi con il suo
linguaggio dei segni e di sera gli raccontava una storia usando solo le sue
mani e una lampada per proiettarne le ombre sul muro. La sua ombra preferita
era la mamma elefante perché era così semplice che riusciva a
farla anche lui ma, con le sue piccole manine, riusciva solo a fare il
cucciolo.
A
volte Yuu si chiedeva se ci sarebbe mai stato qualcuno in grado di amarlo
quanto lo amava lui, qualcuno a cui il suo fratellino
avrebbe aperto il cuore senza esitazioni ed era un cuore pieno di cose
magnifiche; di sicuro sapeva che fino a quel giorno avrebbe vegliato su di lui
combattendo con le unghie e con i denti.
Visto che hai tutto il tempo
che vuoi, perché non mi prepari il sushi?
Ah, ti sei dato allo sfruttamento! Va bene avere tempo libero, ma non aveva messo in conto
di passarlo tutto in cucina.
Sei tu che ti sei proposto! Akira cercò di sfoderare il suo sguardo più dolce per
convincerlo a preparare il suo piatto preferito.
Quella faccia non ti è mai venuta bene
con me.
Oh dai!
Va bene ok, sushi! Non gli ci voleva poi molto ad arrendersi quando si
trattava di lui.
Mi vado a vestire. Akira si alzò pimpante, sottolineando
la sua vittoria con un sorriso, gli si avvicinò per ringraziarlo ma stavolta
però non fu per il solito bacio sulla guancia: prese tra le dita il bordo della
maglietta leggera che indossava suo fratello e la tirò su con forza fino a
coprirgli la testa. Scoppiò a ridere sonoramente nello stesso istante in cui
lasciò la presa.
Yuu
si liberò subito dalla trappola inaspettata. Il sushi te lo scordi stronzo! Inizia a
correre o sei morto!
Akira
scappò in bagno più veloce che poté lasciando Yuu in
cucina a brandire il piatto che minacciava di lanciargli, adorava giocare con
lui in questo modo, con lui era così facile dimenticare che gli mancasse
qualcosa e che fosse così diverso da tutti gli altri; con lui poteva essere se
stesso e non preoccuparsi degli sguardi curiosi della gente che fissava le sue
mani mentre si muovevano per comporre i suoi pensieri. Perché lui non
poteva esprimerli liberamente come facevano loro? Loro usavano la voce perché
potevano sentirla e non rischiare di urlare troppo, mentre lui usava le sue mani,
cosa c’era di tanto sbagliato? Mettendo da parte questi pensieri si infilò sotto la doccia godendo di quei pochi minuti di
pace prima che il suo inferno personale avesse inizio. Suo fratello diceva che
il rumore della doccia assomigliava a quello della pioggia, quindi era come le sue dita che sembravano suonare il pianoforte
sulla sua schiena. S’insaponò
velocemente non accorgendosi prima che, nel frattempo, Yuu era entrato in bagno
e si era accomodato proprio accanto alla doccia. «Aiuto!
Non voglio morire così giovane!» non credeva di urlato troppo, non gli piaceva
parlare e farlo era sempre una sofferenza, ma vi fu
costretto perché l’altro non avrebbe potuto vedere ciò che aveva da dirgli. Il
dito medio di Yuu non tardò ad incollarsi al vetro
scatenando le loro risate. «Mi passi lo shampoo? L’ho
dimenticato.» anche quello arrivò immediatamente e Yuu
ritornò al suo posto, rimase fermo per un po’ finché non posò il suo palmo
contro il vetro opaco; la mano di Akira andò a posarsi in corrispondenza di
quella in attesa rimanendo così per secondi che parvero anni. Yuu lo faceva
sempre ed era il suo modo di dirgli che per lui ci sarebbe sempre stato, che
anche attraverso un vetro appannato poteva infondergli la sua forza per
affrontare il mondo. Come siamo
sentimentali stamattina. Akira non si era lasciato scappare l’occasione di
prenderlo in giro non appena aveva aperto il box doccia e lo aveva visto poggiato
contro il lavandino.
Di tutta risposta il
moro gli lanciò addosso l’accappatoio. Copriti. Sei scandaloso.
Sei solo geloso!
Senza
troppa attenzione Akira compì le azioni che lo avrebbero portato fuori dalla
porta di casa vestito di tutto punto, dopo anni riusciva immediatamente a
distinguere una pessima giornata e, quando cominciava a ricercare con troppa
attenzione i suoni che lo circondavano, voleva dire
che il punto di rottura era vicino; avrebbe avuto una delle sue solite crisi di
rifiuto nonostante fossero passati quattordici anni. Non importava quello che
tutti continuavano a dirgli, non era facile accettare di dover passare tutta
una vita nel più completo silenzio. E ogni anno diventava sempre più difficile
perché c’erano sempre più cose che avrebbe voluto
ascoltare: una canzone su uno di quei canali di musica che Yuu guardava mentre
cucinava, la suoneria di un cellulare, i dialoghi dei film che era costretto a
guardare con i sottotitoli. Il mondo andava avanti e cresceva con i suoi suoni,
mentre lui restava indietro senza conoscere neanche la sua stessa voce.
Yuu
lo salutò con le solite raccomandazioni strappandolo dai suoi pensieri ed Akira percorse la solita strada per arrivare a lavoro,
allo studio aveva sempre preferito lavorare e si era accontentato di qualsiasi
mansione quando, nei mesi estivi, lavorava per racimolare qualche soldo e
comprare ciò che desiderava e che i suoi non potevano permettersi; era stato
allora che aveva conosciuto Komui lavorando nel suo
negozio di animali, aveva dichiarato il fallimento dopo due anni di attività e,
visto che suo fratello lavorava per una famosa casa discografica, ora si
ritrovava a portare il caffè a gente famosa che per lui valeva meno di niente.
Era una bella legge del paradosso per un sordo lavorare in un luogo in cui non
si faceva altro che musica, se Komui fosse stato a
conoscenza del suo piccolo segreto non lo avrebbe mai mandato lì, ma la paga
era buona e con i mesi si era conquistato la fama dello stronzo di turno troppo
preso da se stesso per rispondere a chi osava chiamarlo per i corridoi come un
cane da riporto. Meglio fargli credere questa stronzata che ammettere la
verità, lo avrebbero trattato tutti diversamente, compatendolo come se fosse
stata colpa loro. Se combinava qualche guaio in preda alla fretta di preparare
un caffè dopo l’altro, voleva essere sgridato come chiunque altro.
Fu
in divisa con dieci minuti di ritardo, ma il capo non disse nulla limitandosi a
lanciargli un’occhiata bonaria, era stato giovane anche lui e riconosceva il
volto di chi aveva passato la notte a giocare alla
play station cercando di battere un fratello troppo saccente. Ci aveva
guadagnato una settimana di schiavitù, anche se ora che ci pensava
non ne aveva approfittato quanto avrebbe potuto. «Akira, pronto?» la giornata aveva
inizio, era il momento di lasciare i pensieri in un angolo e concentrarsi su
ciò che gli dicevano.
«Prontissimo!»
«Allora comincia con le consegne.»
Il
ragazzo si avvicinò al piccolo carrello pieno di bicchieri da consegnare, due
volte a settimana se ne occupava lui e, puntualmente, rientrava a casa con un
mal di testa di quelli così forti per cui l’unica soluzione era immergersi nel
buio più assoluto e lui odiava il buio perché i suoi occhi erano le sue
orecchie ed era già abbastanza avere un solo senso fuori uso. Diventava davvero
difficile riuscire a leggere le labbra quando era circondato da una miriade di
persone che parlavano contemporaneamente, sembrava di seguire una partita di tennis
con migliaia di giocatori. Forse avrebbe dovuto arrendersi e rivelare il suo
segreto, a volte era così frustrante, ma poi gli tornavano in mente quegli
inutili sguardi impietositi e si convinceva di dover continuare a tenere duro.
Cominciò
dal primo piano dove i dirigenti si riunivano per
prendere le loro importanti decisioni, poi fu la volta dei gruppi del secondo e
terzo piano e, dopo più di un’ora, arrivò il momento di raggiungere i piani
alti e consegnare l’ultimo caffè ad un certo Ruki. Hoshi,
il suo capo, si era raccomandato tanto che fosse ben caldo, leggermente
zuccherato e macchiato al punto giusto, diceva che questo Ruki era un cantante
bravissimo di come ce n’erano pochi in Giappone, ma era esigente e
perfezionista. Che tradotto voleva dire solo che era
un grandissimo stronzo.
Quando
fu davanti alla porta si decise a bussare, era inutile
per lui attendere una risposta perciò abbassò la maniglia ed entrò, le opzioni
davanti a lui erano due: che qualcuno gli avesse effettivamente detto di
entrare, o sorbirsi l’ennesima ramanzina sulla privacy e l’educazione. Neanche
stesse portando un caffè al presidente degli Stati Uniti. Per sua grande
fortuna la stanza si rivelò essere vuota, così avanzò fino alla scrivania dove avrebbe preparato ciò che doveva, gli avrebbe
lasciato tutto lì e tanti cari saluti alla superstar isterica; si mise subito d’impegno
per seguire alla lettera le istruzioni che gli erano state date, ma la sua
schiena era rivolta alla porta e non si accorse quando questa si chiuse con un
tonfo.
«Chi
ti ha detto di entrare!?» ma, ovviamente, Akira
continuò ad occuparsi della sua mansione come se nulla fosse. «Hei, tu!» non ci fu alcuna risposta. «Cos’è?Sei sordo per caso?!»
Akira
si sentì strattonare all’improvviso e con una tale forza da non riuscire a
salvare il caffè che gli si versò addosso e andò a sporcare il pavimento, i
suoi occhi si posarono sulla figura di un ragazzo magrissimo e non troppo alto,
dai capelli biondi nascosti da un orribile cappello, il viso quasi oscurato
completamente da un paio di giganteschi occhiali da sole. Se quello scriciolo era il Ruki che tutti tanto adulavano, dovevano
proprio essere messi male. «Le ho portato il caffè.» professionalità prima di
tutto, ci teneva al suo posto di lavoro.
«Lo vedo. Chi ti ha
detto di entrare?»
«La
porta era aperta e non c’era nessun cartello fuori che dicesse il contrario.»
«Beh allora muoviti e fallo doppio! Mettici la panna e-» ed ovviamente si era voltato.
Se
c’era una cosa che Akira odiava era proprio quando la
gente si voltava impedendogli di leggere le loro parole, questo lo costringeva
a chiedere di ripetere e non sempre gli andava bene. «Come
ha detto, scusi? Panna e?»
«E cacao. Niente zucchero.» per fortuna la star si era voltata per mostrargli
tutto il suo inutile disappunto e questo gli aveva dato l’opportunità di
leggere le sue labbra. Che faccia di cazzo. Sembrava una forchetta che stride
sul piatto, non che l’avesse mai sentita, ma suo fratello odiava quel suono e
ogni volta metteva su una faccia che era tutto un
programma.
In
silenzio si dedicò al suo lavoro. Doppio, senza zucchero, con panna e cacao, che
caffè di merda. Quando fu pronto glielo mise davanti
poggiandolo sulla scrivania ingombra di fogli, ma Ruki non lo ringraziò neanche
e nascose il suo naso nel bicchiere in polistirolo, erano solo pochi minuti che
Akira si trovava in quella stanza e già non vedeva l’ora di mandare a fanculo
quel ragazzino troppo viziato e versargli addosso il tè rimasto nel thermos.
«Desidera altro?»
«Si, una ciambella al cioccolato.»
«Non
ne ho qui con me, ma posso portargliela.»
«D’accordo,
vai e non metterci troppo.»
Akira
si allontanò chiudendosi la porta alle spalle, magari poteva sputarci sulla
ciambella. O magari non ne valeva la pena e non si sarebbe abbassato a tanto.
Prima che raggiungesse il piano terra sentì il
telefono vibrare due volte per avvisarlo dell’arrivo di un sms, lo recuperò
immediatamente incuriosito da chi potesse essere a quell’ora. Yuu.
“Come va la giornata?”
Si
affrettò a rispondere prestando attenzione a dove metteva i piedi e, ogni tanto,
al display. Beato lui che era a casa a godersi il riposo. “Una merda.”
“Cosa è
successo?”
“Uno stronzo.” Digitò la sua risposta con una velocità esperta.
Il
telefono vibrò di nuovo. “Sarai simpatico
tu! Comunque ho una buona notizia: è tornato Yutaka e stasera
cena con noi”. Un sorriso illuminò il suo volto non appena lesse quel
nome: Yutaka era il suo migliore amico, lo aveva conosciuto ai tempi delle superiori
quando era stato costretto a frequentare una scuola per quelli come lui e non si era mai sentito tanto solo seppur
circondato da gente che avrebbe dovuto capirlo; un giorno, alla fermata dell’autobus,
era stato salvato dalle grinfie di un gruppo di teppistelli, ad aiutarlo era
stato un ragazzo dai capelli neri ed un sorriso tanto
dolce da scaldare il cuore. Da allora erano diventati inseparabili ed ancora oggi si amavano come fossero fratelli, ma erano anche
qualcosa di diverso e il mondo non aveva ancora inventato una parola per
descrivere la loro relazione, di certo non gli aveva mai fatto pesare la sua
sordità. Akira non fece in tempo
a rispondere al messaggio di Yuu che subito ne arrivò un altro. “E levati quel sorriso dalla faccia, sembri
un macaco!”
“E tu levati quel grembiulino rosa,
sembri un trans!” Non si lasciò
scappare l’occasione per controbattere.
Un’altra
vibrazione, ma stavolta si trattava di foto di Yuu con addosso
un imbarazzante grembiulino rosa con tanto di merletti. “Perché? Non mi sta da Dio?”
Akira
non riuscì a trattenersi e non se ne importò di richiamare l’attenzione degli
altri quando rise di cuore. Yuu era davvero impossibile quando ci si metteva e
riusciva sempre a trovare un modo per rendergli migliore una giornata
potenzialmente di merda, ma il sorriso si spense quando posò gli occhi sul
carrello delle vivande che spingeva con l’entusiasmo che ci avrebbe messo un
bambino che andava dal dentista: la ciambella. Forse avrebbe potuto convincere Yuko a portargliela, doveva
convincerla o avrebbe dovuto rivedere quello stronzo e temeva che avrebbe finito col mettergli le mani addosso.