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[Ecco qua il mio
lavoro per la
IV Disfida del sito
I Criticoni!
Si trattava di una
sfida di squadra, e io ho avuto l’onore di essere la capoccia della squadra
Theta, di cui hanno fatto parte anche le meravigliose
Juuhachi Go,
Wren e
Harriet. *___* Il concorso, intitolato “Dualiteam”, aveva come tema portante
la dualità, e ogni storia doveva inoltre basarsi su un prompt individuale, una
coppia di opposizioni, più uno collettivo che era costituito da una frase scelta
a caso dagli admin fra le storie del caposquadra.
Ma siccome non ci
bastava XD e visto che eravamo un gruppo di accanite scrittrici clampiane,
abbiamo deciso di darci degli altri “paletti”, perché fosse davvero un lavoro di
squadra… ovvero, abbiamo voluto quattro storie di uno stesso fandom, con quattro
personaggi diversi, e quattro diverse interpretazioni del prompt collettivo.
Speriamo che i risultati saranno di vostro gradimento!^_____^
Allora, ricapitoliamo…
tema individuale:
cielo/terra
tema di gruppo: “Che
senso aveva tenere ancora due cuscini nel letto?” (da “Senza titolo” –sigh-
putroppo mia..)
Dedicata alle mie
adorate compagne di squadra.]
Fuuma ricorda di
essere stato Kamui.
Lo ricorda bene, con
spietata lucidità, come ricorda tutti i momenti della sua vita, il suo passato,
semplicemente, ricorda anche quello.
Di essere stato Kamui.
Si è svegliato quella
notte in mezzo alla distruzione, alla disperazione del sangue, del fumo, del
ferro contorto della Torre; al centro dell’assurdo scenario di una metropoli
tutta al buio, senza altre luci che quelle degli incendi. Ma si è svegliato come
se non avesse mai dormito, come uscire di colpo dall’acqua e tornare alla
superficie, ha avvertito terribile e assordante lo strappo di ritornare in sé.
Ma non c’è vuoto, tra quel giorno maledetto in cui ha perso la coscienza e la
notte in cui l’ha ritrovata: no, nel mezzo c’è tutto, tutto quello che ha
fatto, che ha detto, un’infinita, perfetta processione di orrori di cui neppure
un istante è andato perduto.
Nel mezzo ci sono i
corpi di sua sorella, della gente per le strade, degli Angeli e dei Sigilli
dell’Apocalisse, e quello del suo migliore amico, morto per mano sua per amore
del mondo.
Adesso è nella sua
vecchia casa, nella sua camera spoglia e impolverata, vuota da mesi, sono giorni
che è accasciato sul pavimento con la faccia tra le mani, e sente che sta
perdendo la testa.
Non ha la forza di
fare niente, di piangere o spalancare la finestra e gettarsi, né arriva per lui
l’oblio della follia –no, sente che sta perdendo la testa, ma proprio
quel sentire è la prova che è ancora in sé, ancora un passo lontano da quel
desiderato abisso, e questo lo distrugge.
Non riesce a
muoversi, a camminare o gridare, perché qualunque cosa faccia porta con sé una
scia, la traccia dell’altro.
Se si alza in piedi
può sentire le spalle drizzarsi e il passo distendersi in un portamento elegante
che non è mai stato il suo. I gesti, i gesti più semplici delle mani seguono la
memoria di un modo di fare altero e sprezzante, fremono a tratti in scatti di
violenza eludendo del tutto la sua volontà. Qualcosa lo stringe alla gola, il
punto esatto, che non aveva mai saputo di possedere, da dove nasceva quel tono
più basso, appena più roco, quel tanto che bastava a rendere la sua voce quella
di un estraneo. E tutte le cose che ha detto con quella voce, quelle parole
lente e terribili, quei sorrisi, maledizione, tutto, tutto gli rimbalza nella
mente, continuamente, senza tacere un momento.
La traccia dell’altro.
L’altro, lo chiama, istintivamente, dentro di sé.
Ma sa che non è vero.
Che l’altro è
lui stesso.
Lo sa, dalle memorie
e dai ricordi fisici, lo sa, lo sa, gli occhi spalancati e spenti di sua sorella
bruciano sempre al centro della sua mente, e il gesto di affondare la spada, il
freddo dell’impugnatura, li sente, li sente ancora sulle mani.
Non è stato un altro,
è stato lui stesso.
E lui lo ricorda così
perfettamente.
Basta, basta, basta.
Quando trova la forza
di alzarsi, è il tramonto di un giorno che non saprebbe precisare. Si limita a
trascinarsi per i corridoi freddi, illuminati dai riverberi arancio e rosso,
mentre la polvere si alza e scintilla al suo passaggio. Le tende si agitano
appena, qualche finestra è rimasta aperta: da quel giorno, nessuno è tornato più
lì.
Quel giorno era
uscito di fretta lasciando le porte spalancate, stringendo forte sua sorella che
sorrideva in quel modo così terribile, gli occhi lontani e persi a contemplare
chissà quale follia. Ricorda come la sosteneva, il tremore con cui le cingeva le
spalle, le carezzava i capelli; la sua adorata Kotori, doveva farla stare bene,
doveva… Doveva al più presto tornare a casa con lei.
Poi ci sono quelle
parole di lui, la dolcezza del viso in lacrime del suo migliore amico.
Parole belle come non ne aveva sentite mai…
“Sulla terra ci sei
tu, Fuuma, e Kotori, perciò voglio proteggere il luogo in cui vivete, in modo
che possiate essere felici…”
Un battito di cuore,
un sobbalzo di commozione, di gioia…
E poi, il ricordo
successivo è quello.
Lui che uccide sua
sorella.
E’ mostruoso,
insopportabile, atroce, vorrebbe morire…
…ma soprattutto è
assurdo.
Assurdo.
Vagando per i
corridoi supera la camera di lei. Lo shoji è socchiuso e gli sembra di sentire
un’ombra di quel profumo; no, non potrebbe mai entrarci.
L’unica porta che
apre, così, in un gesto automatico, è quella della camera dei suoi genitori.
La bella stanza,
inondata dalla luce del tramonto, è tutta in ordine. Il letto rifatto, gli
oggetti disposti con cura, due cuscini, due comodini, due armadi, come se una
coppia dovesse tornare da un momento all’altro ad abitarla.
Ora sa la verità, e
avrebbe voglia di spaccare tutto.
Suo padre, l’uomo
stoico, razionale, forte, ha tenuto per anni l’altro cuscino accanto al suo nel
letto, ha messo a posto le cose di sua moglie, ha indugiato nella stupida follia
che lei ci fosse ancora.
Con gentilezza,
rincalzando le coperte, sistemando la federa, spolverando gli armadi, ha tenuto
viva l’illusione di avere una moglie affettuosa da aspettare ogni sera.
Quando non l’aveva
avuta mai.
Non avevano mai avuto
senso quel grande letto, quei due cuscini appaiati, perché quelle due persone
non si erano mai amate.
Lui stringe i pugni e
serra gli occhi per non far scendere le lacrime di rabbia, lo disgusta l’idea
che i suoi genitori, i suoi amorevoli genitori, il quadro della perfetta
famiglia felice, abbiano mentito ai loro figli per la vita intera. Gli dà la
nausea pensare a sua madre lì, in quel letto, che augura la buonanotte al marito
e poi si volta e pensa ad un’altra persona. Che mentre chiacchiera di progetti
per la casa e i suoi figli ha la mente rivolta solo a immaginare cosa l’altra
persona stia facendo, in quel momento, se stia pensando a lei.
E suo padre che fa
finta di niente, fa finta di crederle, butta via se stesso e la serenità della
sua famiglia soltanto per averla accanto.
I ricordi del suo
passato felice, del suo lato oscuro si mescolano, è un labirinto inestricabile,
e quei due cuscini…
E’ tutto assurdo.
Lui è nato sbagliato.
E’ nato da due
persone che non si amavano, da una madre che non ha mai pensato di volerlo.
E’ venuto al mondo
soltanto per lo scopo di fare da specchio a un’altra persona, per essere il suo
contrario: quello che Kamui avrebbe deciso, lo avrebbe plasmato. Se Kamui avesse
deciso una cosa, lui sarebbe stata l’altra. Senza poterlo nemmeno pensare, senza
nessuna possibilità di scelta.
E’ nato per riempire
un vuoto, per il necessario bilanciamento di bene e di male che serviva a
mettere in moto l’Apocalisse: se c’era una Terra, doveva esserci un Cielo,
semplicemente.
E chi se ne importava
se anche il primo degli Angeli avrebbe voluto, in cuor suo, proteggere quella
terra, scendere dal suo trono nel cielo… in cuor suo… ma quale era il suo cuore?
Quello del figlio, del fratello, dell’amico devoto, o quello del distruttore
della Terra…? Era quello di prima, il vero se stesso, o quello che aveva
scatenato la fine del mondo?
No… non può essere
così… adesso lui è tornato quello di prima, è questa la sua natura…
Ma ancora gli
infiammano i pensieri quei gesti, una mano sollevata e l’erompere del potere,
uno sguardo capace di scavare e leggere tutta l’anima di ogni persona che gli
passa di fronte, il rombo della terra che si spacca sotto i suoi piedi e grida,
grida la sua volontà di rinascere, pura nel vuoto nel primo mattino…
…il sorriso con cui
lui ha ascoltato quel grido, un senso di potenza, di completezza, di
soddisfazione come non ne ha provate mai.
Quelle cose sono
ancora dentro di lui, sono i momenti più intensi che abbiano mai scosso la sua
anima, picchi folli e inebrianti, come meravigliose, segrete trasgressioni di
un’anima tranquilla.
Lui è entrambi. Il
ragazzo silenzioso che cammina con la testa bassa, guarda verso terra e sogna
solo cose semplici e concrete, e l’uomo che allarga le braccia contro le altezze
dei cieli, si erge sul mondo e desidera il suo rovesciamento, il suo completo
cambiamento.
C’era stato qualche
impulso, qualche istante di folle ambizione nella mente del ragazzo tranquillo,
e un briciolo di umanità nei gesti dell’Angelo dell’Apocalisse che aveva fatto
allontanare una bambina prima di distruggere una piazza.
E vorrebbe tanto
negare questa cosa orribile, ma non può.
E’ vero. Lui è due
metà inconciliabili nella stessa persona.
Lui è qualcosa che
non sarebbe mai dovuto esistere.
Spalanca la finestra
nell’ultimo bagliore del tramonto.
Non è mai stato molto
religioso, lui, deve ammetterlo. Oh, sì, è andato a tutte le cerimonie a cui
bisognava andare, al ogni volta al fianco dei suoi genitori, ma è sempre stato
un po’ troppo razionale per credere seriamente.
Ma quella sera che ha
aperto la finestra contro il vento gelido di gennaio, prima di guardare verso
terra e decidere di finirla, si è salvato, perché ha sollevato gli occhi verso
il cielo.
Sullo sfondo già blu
cobalto si sciorinavano una dopo l’altra le stelle, e la loro sola vista gli
aveva annullato la mente nella disperazione. L’Astro Gemello, le Sette Stelle…
simboli da libri profetici che si erano animati nel modo più orribile davanti ai
suoi occhi e dentro di lui, le pergamene delle Sacre Scritture si erano
macchiate del sangue di ragazzi, non più parole altisonanti ma vero stridore
delle armi, vere grida e fuochi vivi a distruggere le città.
E ora gli sembrava
ancora più impossibile che lassù in alto albergasse un dio. Quale divinità
poteva aver creato un orrore come lui, l’unico uomo senza libero arbitrio,
destinato a imbrattarsi le mani dei crimini più spietati senza averne la scelta,
senza averne la colpa?
Perché?
Le stelle,
naturalmente, non gli avevano risposto. Ma il loro bagliore gli aveva catturato
lo sguardo ancora per un po’.
Sulla strada che
aveva portato fino a lui, file d’indovini avevano letto quelle stelle, vi
avevano letto quello che sarebbe successo: avevano saputo di lui e di Kamui,
della battaglia e di ogni singolo che vi avrebbe preso parte, vi avevano visto
vita e morte.
Ma nessuno era mai
riuscito a guardare oltre, a predire che quelle stelle ci sarebbero state
ancora, dopo che tutto si fosse compiuto, non più come simboli da interpretare,
ma semplicemente a splendere ancora sopra il mondo. Un mondo vivo.
Per lui, quegli astri
non schiudevano alcun messaggio. Non gli sussurravano niente, nessuna parola si
scriveva tra gli angoli che formavano, i suoi occhi non riconoscevano alcun
simbolo nella loro disposizione.
Erano semplicemente
da guardare.
E allora, finalmente,
lui aveva abbassato lo sguardo, e sotto di sé, aveva visto le strade piene di
gente.
Gente che rideva, che
pregava, che accendeva fuochi.
Che guardava in altro
e s’indicava l’un l’altro le stelle.
Nessuno aveva mai
saputo prevedere quello… nessuno, tranne forse una ragazza con gli occhi più
dolci del mondo, che era morta sussurrando a lui che il futuro non era ancora
stato deciso.
L’immagine di sua
sorella gli era affiorata alla mente, soffusa e luminosa, i capelli ondeggianti
nel tramonto, il suo sorriso gentile aveva cancellato ogni altro pensiero.
Le sue ultime parole…
“L’acqua… è bella,
vero? Mi piace… E anche il cielo, è così bello… e anche l’aria, il vento, sono
tutti belli. E poi qui c’è Kamui… perciò io adoro questo posto.”
Sono tutti belli.
L’acqua e l’aria, il
cielo e la terra.
Il vento, le piante,
le stelle… e le persone.
E l’amore.
Questo aveva voluto
dirgli, lei.
Che tutto era bello.
Tutto insieme.
Che una cosa dava
senso all’altra, che la terra era fatta per camminarvi, e le stelle per essere
guardate.
E la vita, allora,
per essere vissuta.
Lui, essere vuoto,
mera controparte e gemello di colui a cui spettava la decisione sul futuro della
Terra, lui aveva compiuto il suo scopo.
Era stato il male
necessario, il fuoco che aveva bruciato il mondo ma per essere spento… ed ora,
era tutto finito.
Tutto finito.
Ma lui era ancora là,
e un senso a questo doveva esserci.
Vuoto, lo intuiva
adesso, forse non significava solo deserto; era anche una pagina bianca, da
riempire, d’ora in poi, con tutto quello che sarebbe stato capace di fare di una
vita intera.
Ora che non era più
né Angelo del cielo né Drago della terra, non più specchio né avversario, perché
non esisteva più la persona che si era riflettuta in lui…
…adesso doveva sanare
lo strappo tra cielo e terra, come la pioggia, come la luce delle stelle,
colmare il vuoto, riconciliare le differenze, le sofferenze.
Adesso che era lui
solo, doveva essere entrambi, cielo e terra.
Doveva vivere per
entrambi… per sé, e per… lui.
Aveva richiuso la
finestra. La luce del tramonto era sfumata, quella delle stelle sorrideva,
scintillava in alto, alta sopra il respiro del mondo.
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