Buongiorno a tutti! E
così siamo arrivati all'ultima parte delle avventure di
Farhiad. Qui della canzone c'è poco e niente, solo il finale
ne riprende l'ultima strofa, ma solo per una questione di
fedeltà. In questo ultimo capitolo si concluderà
tutto. O quasi.
Mi prendo le consuete righe, prima di lasciarvi alla lettura. Un
grandissimo grazie a nadine5
per aver messo la storia tra le seguite.
Detto questo, buona lettura!
Parte V: Sguardo
sull’epilogo
Nonostante il vento fresco che soffiava dal mare, il calore del sole
cadeva imperioso dal cielo, abbattendosi sui viaggiatori che si
muovevano verso l’entroterra. I tre cavalli galoppavano
tranquilli sulla sabbia, seguendo la direzione impostagli dai loro
cavalieri che scrutavano in silenzio l’orizzonte, dove la
figura del tempio di Makal si faceva sempre più nitida.
Farhiad teneva il capo chino e gli occhi chiusi per proteggerli dalla
luce e dai granelli di rena che venivano sollevati dagli zoccoli
dell’animale, e si teneva stretto alla vita della sua
compagna, che cavalcava senza problemi, ignorando le occhiate curiose e
insistenti di uno dei loro accompagnatori. Il figlio maggiore di
Pankhai le stava accanto con il suo cavallo bruno, osservandola di
tanto in tanto, incuriosito e pronto a intervenire nel caso in cui
avesse perso la presa sulle redini per un qualsiasi motivo. Marias,
invece, era poco più avanti a fare da guida al quartetto, ma
anche lui all’inizio aveva guardato con sincero stupore
quella ragazza mingherlina e traballante che aiutava il cieco a montare
in sella. Né lui né Gajil erano stati abbastanza
veloci per intervenire e dare loro una mano, poiché in poco
tempo il castano era riuscito a salire a cavallo e subito dopo la
spadaccina faceva lo stesso davanti a lui, offrendole il proprio corpo
per reggersi.
-Tekharia.- chiamò il veggente, alzando il viso e serrando
la presa sugli abiti della compagna. -Fermati.-
La ragazza eseguì, tirando le redini e provocando un nitrito
nella sua cavalcatura, che causò l’arresto degli
altri due uomini presenti.
-Che succede Maestro? Perché ci fermiamo?-
domandò svelto Marias, facendo girare il cavallo dal manto
grigio.
Farhiad si voltò, puntando lo sguardo spento nella direzione
da cui erano venuti. -Tra poco ci raggiungeranno.-
-Cosa?- disse Gajil, girandosi a sua volta per studiare il paesaggio
alle loro spalle, il profilo di Khikal ormai lontano. -Chi?-
-Quanti?- chiese invece Tekharia, smontando da cavallo e porgendo le
redini a Marias, che la fissò a occhi sgranati, colmi di
confusione.
-Una decina di persone, undici per la precisione. Nessuna con intenti
pacifici.- rispose il veggente, aggrappandosi alla sella. -Seguirai la
mia mano anche questa volta?-
-Sì, proteggerti è lo scopo della mia vita.-
replicò lei, sguainando la daga rovinata che teneva appesa
al fianco, mentre la lunga spada era stata assicurata alla sella.
-Ma… ma cosa state dicendo?!- esclamò il soldato
di Banrui, attirando l’attenzione del cieco. -Maestro
Farhiad, vi prego, spiegatemi!-
-Un gruppo di undici uomini ci raggiungerà entro breve,
credo che tu possa riuscire a scorgerli ora.- illustrò il
giovane uomo, indicando un punto preciso.
Basito più che mai, Marias seguì
l’indice del cieco e gelò quando scorse una nube
di polvere accompagnata dal tipico rumore prodotto dagli zoccoli di un
gruppo di cavalli al galoppo. -Per gli Dei…-
Poco distante da lui, Gajil era già smontato di sella, la
spada in pugno, e lo sguardo azzurro che si puntava sulla schiena
minuta della ragazza dai capelli sempre più neri.
-Non possiamo affrontarli!- esclamò il soldato. -Sono
troppi! Tornate in sella, il tempio non è lontano!-
-No.- replicò calmo il veggente, carezzando il collo del
cavallo per tranquillizzarlo. -Noi li affronteremo. Queste persone sono
contrarie alla pace ed è nostro dovere fermarle.-
spiegò. -Gajil, potete aiutarmi a scendere, per favore?-
chiese poi.
-Farhiad, non sarebbe meglio per voi proseguire insieme alla vostra
compagna?- osservò il figlio di Pankhai, avvicinandosi al
Maestro. -Qui siete in pericolo.-
-Vi ringrazio per la premura, Gajil, ma io e Tekharia vogliamo e
dobbiamo restare qui. Questo è ciò che ho visto.-
rivelò, muovendosi per cominciare a scendere da cavallo.
-Muori figlia di Khan!- urlò un guerriero, gettandosi a
capofitto sulla ragazza che aveva davanti.
La giovane però non si fece cogliere impreparata. Aveva
colto il gesto di Farhiad e si era fatta immediatamente da parte,
schivando per un soffio la lama della pesante scimitarra che
l’avrebbe sicuramente ferita a morte. Piantò per
bene i piedi nella sabbia, quindi affondò la daga nel fianco
del suo assalitore, che gridò il suo dolore e la sua rabbia,
insultandola prima di crollare a terra con un gemito.
Infine, la mano del veggente si abbassò insieme alle sue
palpebre, che celarono gli occhi opachi. Tenendo il viso alto, Farhiad
s’incamminò verso la sua compagna, seguendo il
rumore del suo respiro affannoso e il ricordo dell’ultima
indicazione che le aveva dato.
-Marias, Gajil, siete feriti?- chiese, schivando con attenzione i corpi
stesi sulla sabbia, aiutandosi con il bastone bianco, che presto si
sporcò di sangue scuro sul fondo.
-Per me solo qualche graffio…- rispose il soldato di Banrui,
ripulendo la propria scimitarra con un panno preso da una sacchetta che
portava appesa alla cintura.
-Anche per me nulla di grave.- disse il moro, imitando
l’altro uomo. -Voi Farhiad? State bene?- domandò
poi, osservando i due compagni di viaggio.
-Non dovete darvi pensiero Gajil, sto benone. Come sempre, Tekharia
è un’ottima guardia del corpo.- asserì
il veggente, posando la mano libera sul viso della ragazza. -Tekharia
sei ferita?-
-N-No…- balbettò lei, combattendo con
l’affanno. -Sono… solo stanca…-
-Perdonatemi Maestro se risulterò indiscreto…-
s’intromise Marias, avvicinandosi ai due. -Come avete fatto
a… combattere così?-
Il cieco sorrise, prendendo la compagna a braccetto. -La Vista mi ha
mostrato ciò che stava per accadere, così ho
guidato i gesti di Tekharia, per sopperire alla sua mancanza di
agilità.-
Il soldato tacque e sbatté le palpebre un paio di volte,
confuso. Aveva notato che la ragazza non camminava molto bene, ma non
aveva mai pensato che il suo problema fosse così grave. La
guardò zoppicare al fianco del suo compagno e si
scoprì incuriosito e attratto dalla sua persona: una ragazza
che eseguiva i doveri di un uomo e combatteva come un soldato, era in
realtà fragile come qualsiasi altra donna e per di
più pareva avere un handicap. Una mancanza fisica talmente
severa che il veggente compensava con la propria dote, restandole
abbastanza vicino da poterla guidare durante uno scontro.
Dal canto suo, Gajil seguì la coppia, mentre il senso di
colpa gli picchiava sul cuore. Erano stati i guerrieri di suo padre a
invalidare la ragazza, tagliandole i tendini per impedirle di
camminare. Lei però era guarita, anche se non completamente,
e non solo camminava e portava il peso di una spada al fianco, Tekharia
combatteva e lo faceva con tutta se stessa. L’aveva guardata
di sfuggita durante la lotta, per poter intervenire in caso di bisogno,
ma tutto ciò che aveva visto non era altro che una guerriera
forte e indomita, dai vivi occhi rossi che menava affondi e fendenti
precisi e letali con una daga usurata e ben poco affilata. Daga di cui
aveva riconosciuto la fattura, quindi comprese che doveva essere la
stessa che Tekharia aveva rubato la notte in cui fuggì.
Quel pensiero lo fermò. Perché la ragazza non
aveva usato la spada che portava legata alla sella? Le parole del cieco
però, risvegliarono di nuovo la sua attenzione.
-Tekharia, vorrei che facessi l’ultimo tratto di viaggio con
Gajil, anziché con me.- esordì Farhiad, posandole
la mano sulla spalla per impedirle di montare in sella. -Prima che tu
ti opponga in qualche modo, ascolta: il tuo corpo non reggerebbe alla
guida di una cavalcata ancora così lunga, sei stanca e hai
bisogno di riposare il più possibile.- spiegò,
carezzandole una guancia. -Fidati di me, andrà tutto bene e
io posso stare in sella da solo, basta che mi tenga forte.-
-Ma…-
-Il Maestro può venire in sella con me.-
s’intromise Marias, affiancando i due con la propria
cavalcatura. -Il vostro cavallo possiamo legarlo alla mia sella. Questa
soluzione può andare bene anche per voi, Tekharia?-
La ragazza si zittì per un attimo, stranita dal fatto che
qualcuno al di fuori del suo compagno le avesse rivolto la parola e
persino chiamata per nome. Assentì alla proposta, trovandola
la soluzione migliore per garantire un viaggio sicuro a Farhiad, che da
parte sua sorrise e accettò a sua volta di buon grado.
Il cammino è sgombro.
La sabbia è
pulita.
Gli occhi ti attendono.
È tempo.
-Perché non avete usato la spada, invece di quella vecchia
daga?- chiese Gajil, dopo quasi un’ora di viaggio passata in
silenzio, dando una veloce occhiata alla ragazza seduta davanti a lui.
-Perché è con questa che sono riuscita a
raggiungere Farhiad la prima volta e finché lui non mi
dirà il contrario, continuerò a usarla.-
spiegò lei, seria, senza distogliere lo sguardo dalla
schiena del suo compagno che cavalcava poco più avanti.
-Capisco.- disse il moro. -Oltre a questo, volevo scusarmi per
ciò che mio fratello fece quel giorno e-
-Non serve.- lo frenò Tekharia. -È accaduto
perché era scritto. Se non fosse stato vostro fratello,
sicuramente sarebbe stato qualcos’altro a farmi fuggire prima
o poi, perché c’era Farhiad ad aspettarmi.-
pronunciò lei senza rancore. -Non provo rabbia né
odio nei confronti di nessuno di voi, nemmeno del soldato che mi
ferì le caviglie.-
Gajil si ritrovò a sorridere, scuotendo appena il capo,
incredulo di fronte alla serenità di colei che avrebbe
dovuto riversare contro di lui e la sua famiglia tutto il suo odio. -Il
vostro perdono per me vuol dire molto. Vi ringrazio, Tekharia.-
Nuovamente, sentire il proprio nome pronunciato da qualcun altro che
non fosse il veggente, la lasciò attonita. Era strano per
lei vedere riconosciuta la propria identità da altre
persone, ma quella sensazione così nuova e inattesa le
piacque.
-È stato Farhiad a insegnarmi il valore del perdono.-
riprese poco dopo. -Senza di lui, non avrei mai potuto perdonare me
stessa. È lui che dovete ringraziare, non me.-
Gajil avrebbe tanto voluto sapere quale fosse la colpa che aveva dovuto
perdonarsi, ma la vista della facciata del tempio alla svolta di una
parete di roccia lo ammutolì.
L’edificio era stato scavato nella parete di una bassa
montagna e la sua facciata era composta da mille e più
quadretti in bassorilievo che mostravano la creazione del mondo per
mano delle divinità, le opere compiute dalla Dea Makal e
dall’uomo, che con umiltà eseguiva il suo volere.
A sorvegliare l’ingresso del tempio c’erano due
guerrieri di pietra, poco più alti di un uomo normale, con
una scimitarra appesa al fianco e protetti da uno scudo rotondo; ai
loro piedi erano posate due sottili giare. Sull’alto portone
di legno scuro era stato intagliato il disegno di un’oasi
fiorente di vita animale e vegetale, bagnata dai raggi del sole.
Giunti nei pressi dell’ingresso, furono accolti dai soldati
dei due villaggi, che li informarono che i due signori li attendevano
all’interno. Depositate le armi nelle giare, come volevano le
antiche leggi, i quattro viaggiatori entrarono nel tempio.
La prima cosa che avvertirono fu la frescura, che li avvolse
immediatamente, facendoli rabbrividire per l’improvviso
cambio di temperatura. Poi, il loro sguardo fu rapito dalla statua
della divina Makal che dal fondo dell’ampia sala
rettangolare, li sovrastava tutti.
La Dea era stata rappresentata come una donna dotata di quattro
braccia, con gli occhi chiusi, labbra piene appena schiuse, e il viso
gentile, circondato da una chioma di capelli fatti di fiori e boccioli
di ogni forma e dimensione. Teneva una mano posata sul centro del
petto, una sul ventre, poiché ella era la Dea della
bontà e della nuova vita, quindi protettrice delle madri e
dei loro figli non ancora nati, la terza era posta diagonalmente verso
il torace, in un chiaro segno d’invito ad avvicinarsi, mentre
l’ultima era tesa in avanti, con l’indice che
indicava la direzione da seguire a chiunque si fosse smarrito. Ai suoi
piedi era stato posto l’altare rettangolare su cui venivano
lasciate offerte, preghiere e suppliche, ma anche tutti gli accordi e
le proposte di pace, ai quali la Dea avrebbe dato la sua benedizione.
Le fiaccole disposte per tutto il perimetro della sala ne illuminavano
ogni angolo e condussero i viaggiatori fino al rialzo
dell’altare, dove li attendevano i signori delle due
città in conflitto, unici presenti.
-Farhiad, amico mio.- esordì Banrui, andando incontro al
veggente per stringergli la mano libera dal bastone tra le sue. -Sono
felice di vederti qui.-
-Nobile Banrui, vi ringrazio per il vostro invito, per me è
un onore.- replicò il castano, chinando il capo.
-L’onore è tutto mio, Farhiad.- disse con
sincerità l’uomo. -Avete trovato
difficoltà lungo la strada?-
-Siamo stati attaccati da un gruppo di fomentatori della guerra, mio
signore.- rispose Marias, inginocchiandosi al cospetto di Banrui,
subito imitato dal figlio di Pankhai e da Tekharia.
-A quale città appartenevano?- domandò Dergai,
affiancando l’altro capo e scrutando i nuovi venuti con gli
occhi scuri, specialmente la giovane donna.
-Quegli uomini erano figli di entrambe le città, Khikal e
Pelrath.- rispose il cieco. -Ma non dovete temere nobile Dergai, nessun
altro verrà a disturbare questo incontro.-
Il signore di Pelrath inarcò un sopracciglio nero, scettico.
-Come fai a dirlo?-
-È stata la Vista a dirmelo, nobile Dergai Jakal,
esattamente come il vostro secondo nome, che avete ereditato da vostro
nonno.- ribatté tranquillo il veggente, perfettamente
consapevole dell’espressione stupefatta dell’uomo
che aveva di fronte.
-Ciò che dicevi corrisponde al vero, Banrui. Costui
è davvero il Maestro di cui tutto il deserto parla.- ammise,
scrutando il giovane uomo dagli occhi ciechi. -Dunque, Farhiad, qual
è il vostro saggio consiglio?-
Il castano sorrise e annuì. -La pace nobile Dergai.- disse
semplicemente. -Ho visto il futuro che attende Khikal e Pelrath e ne ho
vista la prosperità sotto un’unica bandiera.-
spiegò, portando la mano di Banrui, vicino
all’unica rimasta dell’altro uomo, in modo da
stringerle entrambe. -La vostra gente nel lontano passato viveva
insieme, è tempo che torni a farlo.-
Due diventano uno.
Gli occhi ti attendono.
-Inizialmente sarà difficile, ma dovete avere fiducia. Se
sarete uniti, se collaborerete l’uno con l’altro,
la pace che otterrete sarà duratura e prospera.-
asserì, per poi spingere le mani sulla pietra
dell’altare che inaspettatamente si presentò
riscaldata da un leggero tepore. -La divina Makal veglia su questa
unione e condurrà voi e la vostra gente alla pace che
cercate, sempre che sappiate accettarla.-
Detto questo, Farhiad si allontanò di un passo dai due
uomini e li lasciò riflettere nel quieto silenzio che li
aveva avvolti, ma sapeva già come si sarebbe concluso
quell’incontro e come sarebbe cominciata la nuova storia.
-Farhiad ha ragione.- esordì Banrui, puntando gli occhi
verdi in quelli scuri dell’altro nobile. -Siamo stati
sciocchi a cominciare una guerra per distruggerci l’un
l’altro, quando potevamo collaborare fin dal principio per
poter sopperire ognuno alle mancanze dell’altro.-
-Il più sciocco dei due sono stato io.- replicò
Dergai. -Tu hai tentato molte volte di proporre la pace tra le nostre
città, ma io sono stato sordo e testardo e ho trascinato la
nostra gente in un conflitto che ha richiesto un alto prezzo.
Perciò, sono io che ti propongo di porre fine alle
ostilità e di unire le nostre genti in un solo grande
popolo.-
Banrui annuì. -Accetto la tua proposta, Dergai, e
sarò il tuo braccio sinistro in questa impresa.-
-Mentre io sarò il tuo occhio destro.- affermò,
rinsaldando la presa sulla mano dell’altro.
Il rumore del bastone che cadeva a terra attirò
l’attenzione dei quattro uomini, che si fermarono
immediatamente e si girarono di nuovo verso l’altare. Videro
il veggente inginocchiato di fronte a esso, con la fronte che quasi
toccava il pavimento, era completamente raccolto in se stesso, come se
volesse farsi sempre più piccolo sotto gli occhi serrati
della statua della Dea.
Fecero per avvicinarsi, ma il braccio teso di Tekharia e il suo sguardo
intenso li frenarono dal compiere altri passi in qualsiasi direzione.
-Eccomi divina Makal.- esordì Farhiad con un sussurro,
spezzando il silenzio che era sceso come un velo nella sala. -Sono
giunto come avevi chiesto per sottopormi al tuo giudizio.-
All’improvviso, dalle fessure nella roccia
cominciò a soffiare il vento, fischiando nello spazio chiuso
e facendo danzare le fiamme delle torce appese alle pareti.
L’aria corse per l’intera sala, sfiorando tutti i
suoi occupanti con tocchi leggeri, come un animale curioso,
ruotò rapidamente attorno a Tekharia, scompigliandole i
capelli con fare quasi giocoso, dopodiché si
concentrò tutta sul ragazzo cieco chino sul pavimento. Si
gettò su di lui come un’onda marina che travolge
una zattera, sconquassandogli i vestiti e strappandogli il turbante
bianco. Gli colpì la schiena e le spalle, poi
s’infilò tra le sue membra rannicchiate,
spingendolo a sollevare il torso e il viso.
Obbedendo a quell’ordine muto, Farhiad alzò il
volto, per nulla turbato dalla violenza con cui il vento si era
abbattuto su di lui, e aprì gli occhi ciechi, puntandoli in
direzione di quelli chiusi della statua, che nel buio della sua mente
si aprirono per scrutargli l’animo. In quelle iridi piene dei
colori della vita, Farhiad scorse ogni cosa, tutto ciò che
era accaduto da quando aveva perso l’uso della vista, e il
cuore gli si strinse in una morsa d’acciaio. Vide Malik
prendere il comando di Mugaroth e la sua progressiva decadenza dovuta
alla siccità, ne vide le vittime tra cui Sarah, la sua
adorata sorella, suo marito e il piccolo Kashir. Rivide il lungo
viaggio dei superstiti di Mugaroth tra le dune del deserto e la morte
di Thalai, l’arrivo all’orfanotrofio e la sua nuova
partenza conclusasi con l’attesa di Tekharia. Infine, rivide
tutte le persone cadute sotto il filo della daga che gli aveva liberato
la strada, seguendo le indicazioni della sua mano, fino a quel giorno,
il giorno del giudizio.
Lo sguardo di Makal si ritirò dalla sua mente con un
profondo sospiro che sembrava venire dalla terra stessa, per poi
tornare al suo riposo. Il vento carezzò le guance del
veggente e gli sussurrò all’orecchio in un
linguaggio che solo lui poteva comprendere, poi scappò via,
veloce come una preda inseguita da un cacciatore, spegnendo alcune
fiaccole con la sua fuga e aprendo uno dei pesanti battenti che stavano
all’ingresso del tempio.
All’esterno si sollevò un tramestio di voci
intimorite, ma nessuno osò varcare la soglia di quel luogo
sacro rimasto in profondo silenzio.
-Grazie divina Makal.- disse il cieco dopo qualche istante, tornando a
chinare il capo. -Fino a che lo riterrai opportuno sarò il
tuo umile servitore. Veglierò sulle vite di questi uomini,
come tu hai richiesto.-
Passarono altri lunghi attimi di tesa quiete, fino a che il veggente
non riportò la schiena dritta e si voltò in
direzione della sua compagna, che gli fu accanto in pochi rapidi passi.
Un castello bianco.
Occhi bui che vedono
lontano.
Un passo incerto.
La spada sostituisce la
daga.
-Farhiad, stai bene?- domandò lei, posandogli una mano sulla
guancia.
-Sì, Tekharia.- rispose lui, mettendo la mano sulla sua. -La
divina Makal mi ha concesso il perdono per tutte le vite che si sono
spente lungo il nostro cammino. Ora, possiamo proseguire.-
affermò, permettendo la fuga di una lacrima che si perse
nell’intreccio delle loro dita.
-Va bene.- disse semplicemente la ragazza, sorridendogli. -Ti
seguirò sempre e ti proteggerò, lo scopo della
mia vita è questo.- aggiunse, rinnovando la promessa che li
aveva uniti tempo addietro.
.:[-----]:.
Seduto su di un grande scranno di legno chiaro, dall’ombra
del suo copricapo bianco, l’uomo dal viso gentile continuava
a scorgere la verità grazie alla Vista donatagli da Makal,
Dea della bontà e della rinascita. Al suo fianco, si ergeva
la sua unica difesa, leggermente malferma sulle gambe che erano state
ferite molti anni prima, la ragazza dagli occhi rossi come il sangue e
corti capelli neri, non più macchiati dalle malevole mani
del divino Khan.
Il vento caldo del deserto smuoveva le tende leggere, che con pigrizia
non si opponevano al suo volere, lasciando entrare quel consueto e
dispettoso ospite. Quel soffio odorante di sabbia si aggirò
in ogni angolo del candido castello, finché non raggiunse
gli abiti scuri orlati d’oro e d’argento dei suoi
due abitanti. Risalì le loro gambe, un lembo di stoffa dopo
l’altro e carezzò il viso del veggente,
scostandogli una ciocca castana.
Di nuovo, è tempo.
E così
finisce.
La guerra è
terminata, Farhiad ha finito il suo viaggio e ha potuto iniziarne un
altro, con Tekharia sempre al suo fianco.
Mi è stato ordinato chiesto di scrivere altro su di
loro, sequel, spin-off, insomma una marea di cose e non escludo che un
giorno possa tornare a lavorarci su. Mi è piaciuto davvero
molto scrivere di Farhiad e Tekharia, specie di loro due insieme.
Infatti, mi è quasi dispiaciuto mettere il punto finale a
questa storia, perché mi sono affezionata. È raro
che due personaggi (partoriti dalle mie dita) mi prendano
così tanto e mi diano tutta questa soddisfazione,
perciò sarà un piacere tornare a scrivere su di
loro prima o poi.
Per concludere,
ringrazio tutti quanti voi lettori, anche quelli silenziosi (dei quali
spero di ricevere un parere, che esso sia positivo o negativo, anche
tra molti mesi, nessuno sarà mai in ritardo). Ringrazio chi
mi ha aiutata nei sei lunghi mesi che sono serviti per la stesura di
questa storia, chi l'ha commentata prima e chi la commenta ora con la
sua pubblicazione.
Grazie mille a tutti
quanti!
See ya!
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