contest metal 1
Chop Suey!
I cry when
angels [deserve to] die
I Atto
Here you go create another fable
Il bambino si
guardò attorno, avanzando impaurito nel lungo corridoio
davanti a sé.
Fece un passo, i piedi scalzi che tamburellavano leggeri sulla moquette
colorata, mentre la luce soffusa della lampada – una sola
lampada – illuminava le porte socchiuse.
Il ragazzino si grattò il naso, togliendosi poi i
ciuffi castani dalla fronte.
Se c’era una
cosa che detestava era quella di trovarsi sempre Lì, e dover
sempre ripetere quella scena.
- Kankuro – si sentì
chiamare, e, nonostante l’avesse sentita centinaia di volte
ormai, il suo cuore mancò di un battito.
- Mamma – rispose, con quella
vocina infantile che non gli apparteneva da tempo.
Ma Lì gli
apparteneva sempre.
Perché
Lì lui non poteva fuggire.
- quante volte ti ho detto di non
disturbare papà mentre lavora? – ripeté
la voce gentile nell’oscurità, vicina a lui.
Ma in realtà
fin troppo lontana.
Ma Lì tutto
era creato per farlo impazzire.
- Ma papà è tornato
e non mi è venuto a salutare – rispose, il visino
ancora infantile che si piegava in una smorfia.
E chissà perché quella porta anonima ora era lo
studio del padre, e quel corridoio buio era la sua vecchia casa.
La voce di donna si incrinò, silenziosa.
Perché
Kankuro sapeva che Lì tutto poteva accadere.
- vieni a giocare con me? –
disse poi – ma lascia stare il papà –
Kankuro sentì un dolore all’altezza del petto, e
ricordò, vagamente, che da bambino aveva urlato e svegliato
Gaara, che dormiva nell’altra stanza.
- certo mamma – rispose invece,
trascinandosi verso l’oscurità, cercando con gli
occhi scuri il volto dell’altra.
- Ma voi non andrete via vero?
– si ritrovò a mormorare, afferrando una gonna [comparsa da dove, poi?
] che profumava di fiori.
Alzò lo sguardo verso l’alto.
Sempre più in
alto.
Lì lui era
pazzo.
- andremo via quando ti sveglierai
– e un volto chiaro, sottile, etereo gli sorrise.
E due occhi azzurri lo accarezzarono.
Lo sai benissimo che
è Qui che devi tornare, sembrarono sussurrare.
E Kankuro maledì quel suo corpo da bambino, che non gli
permetteva di stringere il corpo fragile della madre né,
tanto meno, di sfondare quella porta socchiusa e urlare al padre che se
avesse osato morire di nuovo [E ancora una volta non per mano
Sua] Lui sarebbe rimasto Lì per sempre.
- e papà non
partirà più, vero mamma? –
Lei sorrise
Perché era l’unica cosa che Kankuro ricordava di
lei.
Un sorriso su una foto.
Una tenda che svolazzava.
E il telo che la copriva
nella stanza d’ospedale.
- se tu rimarrai qui –
Kankuro le afferrò la mano, trattenendo un singhiozzo.
Perché sapeva che il suo incubo stava per finire.
E che la dose era stata troppo leggera.
Anche questa volta non era morto.
[I, cry, when angels deserve to
die]
II Atto
Wake up
Aprì un solo occhio, il corpo ancora intirizzito dalla droga.
Cercò invano di rotolare su un fianco, biascicando poi con
le labbra sporche di bava un – dannazione-
Non era morto, questo sicuramente, dato il suo alito pesante che gli
rimbalzava in faccia dal cuscino, e se una parte di lui, quella che ricordava che, da
qualche parte, almeno due occhi avrebbero pianto per lui,
l’altra si malediva, chiedendosi perché tutto
dovesse essere così complicato.
L’anta della finestra sbatté di nuovo,
ricordandogli, nonostante tutto, che era ancora marzo, e che a marzo
era ancora inverno.
Riuscì a sollevare il braccio intorpidito, sfiorandosi la
fronte sudata e i capelli sporchi.
Puzzava di fumo ed alcool e gli abiti della sera prima erano
accatastati ai piedi del letto, gettati senza riguardo.
Se quella era diventata davvero la vita di Sabaku no Kankuro, posato
fratello mezzano della ricca famiglia Sabaku, nonché
promettente studente di ingegneria meccanica, allora aveva ragione a
smettere di viverla.
E lui ci stava provando
disperatamente da mesi.
- che cazzo di ore sono? – si disse poi, mentre il suono di
un clacson rompeva l’aria fredda e quello di una frenata
brusca si aggiungeva nel silenzio.
Si sollevò, facendo oscillare la testa pesante, rimpiangendo
di non avere i soliti analgesici sul comodino.
Chissà se
facevano ancora effetto?
Accese l’abat jour e la luce rossastra si diffuse per la
camera spoglia del lussuoso appartamento.
Era pur sempre un Sabaku.
E
l’eredità dei suoi genitori non erano solo degli
incubi in cui suo padre si chiudeva in una stanza e sua madre sorrideva.
- le quattro – sibilò poi, schiantandosi sul letto
e facendo cigolare le molle usurate.
Il vento si infilò tra le ante socchiuse della finestra,
trascinando l’odore muschiato della pioggia.
Kankuro chiuse nuovamente gli occhi, appena prima che il temporale
iniziasse a scrosciare.
III Atto
Why have you forsaken me
In your eyes forsaken me
In your thoughts
forsaken me
In your heart forsaken me
-
ridammi il mio pupazzo o chiamo mamma! –
strillò il ragazzino, muovendo le mani verso la sorellina,
distesa sul divano.
- I giochi sono di tutti e due, scemo
– rispose lei, sorridendo ad occhi socchiusi, mostrando le
prime prove del suo famoso ghigno diabolico.
Il ragazzino si morse un labbro, scattando in piedi – e io
chiamo mamma, Temari –
- e io chiamo mamma,
Temari! – gli fece il verso l’altra,
giocherellando con le braccia del vecchio pupazzo, per poi iniziare a
tirare il bottone che gli faceva da occhio.
- non rompere Karasu! – piagnucolò Kankuro,
mangiando le consonanti e ingurgitando la R.
Il suo nemico mortale, che osava sfidarlo persino quando si presentava
e con la faccina concentrata sibilava un “KankuLo”
decisamente poco elegante.
- non lo sto rompendo, io ci gioco
– rise Temari, passandosi tra le manine paffute il pupazzo
– e comunque io sono la maggiore –
ghignò – ho tanti anni così!
–
Piegò, non senza qualche difficoltà, le dita a
formare un tre incerto, negli occhi una vena sadica, la stessa che un
giorno l’avrebbe resa famosa.
Kankuro abbassò gli occhi verdi, le guance gonfie di
imbarazzo – un giorno saprò contare anche io
- biascicò con tono lagnoso –e allora
vedrai che…-
Dlon.
Il ragazzino si voltò di scatto, seguito da Temari, che
balzò seduta.
Conoscevano quel suono.
- sono a casa –
tuonò una voce maschile, abbandonando le chiavi sul tavolo
d’ingresso.
Kankuro si sollevò da terra, inciampando nella palla di
Temari, sorridendo.
- papà!- urlò poi,
la gola secca dalla gioia.
Temari lo sorpassò, fiondandosi nel corridoio ed incrociando
lo sguardo di Karura, ferma sullo stipite della cucina, il grosso
pancione che pendeva rigido sul corpo esile.
Il padre li guardò serio, togliendosi
l’impermeabile zuppo – datemi il tempo di
asciugarmi – disse poi, calmo – torno dopo due
settimane e quello che trovo sono due selvaggi? – disse
ancora, scrutando la stanza disordinata.
Temari abbassò colpevole lo sguardo e Kankuro,
più semplice nei suoi due anni, gli rivolse un sorriso
ancora sdentato.
- al mio ritorno fatevi trovare come i
miei bambini –
Karura ondeggiò la testa, rientrando in cucina.
E un lampo illuminò il viso raggiante di Kankuro, ancora
preso a fissare la porta dello studio del padre, lì dove
spariva sempre.
- un giorno diventerò come papà! Forte, bello e
buono–
Bagnato, infelice ed egoista.
Prima
classificata al contest Metal di Laly & Hipatya.
Grazie, semplicemente alle giudici, rapidissime e gentilissime (__)
Complimenti alle altre partecipanti, e alle mie colleghe di podio jess_elric e kymyt! ^^
N.B. La fic è una lunga oneshot. Ho deciso di dividerla in
brani più brevi, per facilitare la lettura.
Ci saranno
diversi pairing di sfondo. Ma la fic è centrata
più sul rapporto, qui estremizzato, trea i fratelli del
deserto.
Fatemi sapere cosa ne pensate ^^
Roberta
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