Eliezer era stanco.
Appollaiato sulla sporgenza di un cornicione del
settimo piano scrutava i tetti di Roma e le sue strade, invisibile e
indisturbato. A volte gli mancavano gli spazi aperti e ariosi delle
campagne irlandesi, le sconfinate distese desertiche
dell’Africa o dell’Australia, il nulla degli
oceani, dove tutto si riduceva a un mondo fatto solo di sfumature blu.
Gli mancava la solitudine – quella fisica: la solitudine
spirituale lo perseguitava già da millenni.
Eliezer era stanco di essere solo: lo era stato
per tutta la vita, sin da quando, draghetto neonato, aveva visto la
luce per la prima volta, in un mondo che all’epoca conosceva
ancora la Magia e le creature come lui, ormai estinte e considerate
solo pura fantasia. Eppure doveva proprio a questa solitudine la sua
salvezza: nato e quasi subito abbandonato a causa del candore accecante
delle sue squame e del rosso intenso dei suoi occhi – un
drago albino era malvisto nelle comunità dei draghi,
perché era come il sole nel cielo: la prima cosa che tutti
notavano, e un pericolo per l’intero branco – aveva
vissuto per secoli in clandestinità, nascosto agli occhi dei
suoi simili e di ogni altro essere vivente.
Quando si era deciso a uscire dalla propria tana,
otto o nove secoli dopo la sua cacciata dal branco, ormai in grado di
gestire la Magia intrinseca della sua specie e di mutare la propria
forma naturale con quella degli uomini, aveva scoperto con orrore di
essere realmente e irrevocabilmente solo: i draghi erano stati
sterminati, al pari di molte altre creature, e la Magia era stata
dimenticata. I suoi simili erano estinti e gli umani gli erano
sconosciuti: non aveva più nulla al mondo. Peggio ancora:
non aveva neanche più la
speranza di essere
compreso, accettato, amato. Ne aveva avuto la certezza quando aveva
tentato di integrarsi con gli esseri umani: anche da loro era guardato
con sospetto a causa della pelle nivea, dei capelli dal riflesso
perlaceo e da quegli occhi che più di tutto erano la sua
croce, rossi come l’Inferno, come il fuoco che sgorgava con
naturalezza dalle sue fauci. La sua dannazione lo seguiva anche in
forma umana.
Così Eliezer si era dato da fare. Si
spalmava fuliggine sui capelli e fango sulle guance per mascherare quel
candore che caratterizzava il suo intero corpo, teneva sempre gli occhi
socchiusi e lo sguardo basso perché nessuno notasse le sue
iridi scarlatte, e si era abbassato a fare i lavori più
umili, più degradanti, pur di avere la
possibilità di avvicinarsi a qualcuno, di trovare un padre,
un amico, un’amante.
Non era servito: nonostante il suo aspetto in
tutto uguale a quello degli uomini, nonostante le sue accortezze, gli
esseri umani percepivano d’istinto che in Eliezer
c’era qualcosa di diverso e lo tenevano a distanza,
trattandolo con sospetto. Ed Eliezer era sempre solo.
Col passare dei secoli, Eliezer si era rassegnato
a vivere ai margini della società. Lavorava per guadagnarsi
il pane, e nulla di più. In fondo, che altro gli serviva?
Non aveva una famiglia; non era soggetto alle malattie né
all’invecchiamento; non poteva neanche essere ferito, come
aveva scoperto quando un incauto ladruncolo aveva cercato di derubarlo
e pugnalarlo, nel Basso Medioevo. Soltanto alla maniera dei vecchi
cacciatori di draghi qualcuno avrebbe potuto ucciderlo, ma
quell’arte era ormai andata perduta. Eliezer era condannato a
millenni di vita solitaria, senza la consolazione di un po’
di compagnia o di una briciola d’affetto. Ormai si era
rassegnato: non c’era nulla che potesse fare.
Quel giorno di dicembre, umano ma invisibile,
Eliezer osservava l’umanità che si muoveva sotto
di lui, persone che interagivano, amandosi o detestandosi, e
sentì di nuovo, per la prima volta dopo tanto tempo,
l’antico morso della solitudine.
Chi non abbia mai provato una vera e totale
solitudine non può comprendere i sentimenti di Eliezer; chi
non sia mai stato completamente solo pur trovandosi circondato dalle
persone, chi non sia stato ignorato da ogni altro essere vivente, chi
abbia conosciuto, almeno una volta, la rassicurante sensazione che si
prova nell’essere oggetto dell’attenzione altrui
– anche di quella di uno sconosciuto, e per un solo, fugace
momento – non ha idea di quanto fosse feroce la
consapevolezza di essere un povero, misero granello di polvere nelle
vastità dell’Universo.
Eliezer lo sapeva; e neanche riconoscere di essere
una creatura maestosa e leggendaria, intrisa di Magia fino alla punta
degli artigli, poteva aiutarlo. Solo una cosa poteva: scendere tra gli
uomini.
L’aveva fatto spesso, Eliezer. Quando il
peso del silenzio diventava troppo per le sue spalle, si rendeva
visibile e si mescolava agli altri esseri umani, ignorando le occhiate
che puntualmente gli venivano rivolte e beandosi della vicinanza di
esseri viventi diversi da se stesso. Era solo una vicinanza fisica,
è vero; ma per uno spirito tormentato come il suo, era
comunque un balsamo.
Così Eliezer protese le dita verso
l’appiglio più vicino e iniziò la
propria discesa. Anche in forma umana, conservava la
capacità di aggrapparsi alla minima sporgenza e arrampicarsi
senza alcuno sforzo. In breve tempo raggiunse la strada, si nascose in
un angolo riparato e chiuse gli occhi: sentì la propria
Magia scorrere in rivoli lungo tutto il suo corpo, pizzicando
piacevolmente. Quando riaprì gli occhi e tornò
sulla strada, ebbe la certezza di essere tornato visibile: le occhiate
e le risatine di un gruppo di adolescenti e gli sguardi stralunati di
alcuni passanti glielo confermarono.
Fingendo di non accorgersene, Eliezer
iniziò a camminare tra la folla a testa alta: le persone si
scostavano al suo passaggio, facendogli spazio, e lui attraversava
quella improvvisata terra di nessuno con l’orgoglio di chi sa
di avere una croce sulle spalle e la trascina con fierezza.
Quello che Eliezer ancora non sapeva è
che a volte la solitudine finisce all’improvviso.
*
Gloria avanzava sul marciapiede con il passo svelto e l’aria
distratta di chi ha molto da fare. Le braccia cariche di pacchi e
pacchetti le impedivano di risistemarsi gli occhiali da vista che le
erano scivolati sul naso: mancavano pochi giorni a Natale, e come ogni
anno lei aveva rimandato l’acquisto dei regali
finché non aveva proprio più potuto sottrarvisi.
Camminando urtò parecchie persone;
alcuni si voltarono infastiditi, ma di fronte al sorriso genuino che
campeggiava sempre sul suo volto, nessuno trovò il coraggio
di rivolgerle parole scortesi. Erano la forza di Gloria, quel sorriso e
quel perpetuo buonumore: era amata, circondata da amici e famiglia,
aveva un lavoro che faceva con passione e nessun motivo per essere
scontenta. Quando era nata, figlia tanto desiderata e finalmente avuta,
era subito stata avvolta dall’amore e dalla premura dei
genitori; il suo carattere estroverso e la sua naturale
sensibilità l’avevano resa capace di accattivarsi
le simpatie altrui senza sforzi; la gentilezza con cui trattava gli
altri era sempre stata ripagata. La bambina era fiorita in una ragazza
vivace e popolare, per poi tramutarsi in una donna che, seppure
normale, era a suo modo una privilegiata. Una privilegiata che non
aveva mai sperimentato la solitudine, la cui gioia di esistere e vivere
non era mai stata offuscata da nulla.
Gloria era un raggio di sole.
E come un raggio di sole in una giornata piena di
nubi, attirava l’attenzione: non perché fosse
bellissima o fuori dall’ordinario, ma perché
c’era qualcosa, in lei, che metteva allegria. Camminava tra
la gente e non c’era una sola persona che non si voltasse a
guardarla almeno per un attimo, beandosi di quel calore passeggero che
scaldava senza bruciare.
Infatti, proprio perché vi era sempre
stata immersa, Gloria non riusciva a capire quanto fosse piacevole il
delicato, perpetuo tepore dell’amore altrui: non aveva mai
conosciuto il freddo, quindi non capiva appieno cosa fosse il calore.
Ne era circondata senza trovarci nulla di sorprendente e lo emanava
senza neanche saperlo.
Era sicura di sé, Gloria, e delle sue
idee, ma quello che la vita non le aveva mostrato, non lo comprendeva:
la
sua
vita le aveva riservato soltanto amore tenero, confortevole, privo di
rischi, e lei non riusciva a immaginare che nella vita reale potessero
esistere quei grandi amori tragici, brucianti, trascinanti di cui
parlavano tanti libri. L’amore distruttore di Catherine e
Heathcliff la faceva sorridere di incredulità; di fronte
alle traversie di Jane e Mr. Rochester scuoteva la testa; la tragica
fine di Edoardo e Ottilia non suscitava in lei alcuna compassione.
Ascoltava le sue amiche parlare dei loro innamorati, dei sentimenti che
provavano, e non riusciva a non pensare che esagerassero; osservava le
coppie che la circondavano prendersi e lasciarsi, e trovava prive di
senso le scene tragiche che inevitabilmente si verificavano. Per
Gloria, l’amore non poteva mai distruggere.
Quello che Gloria ancora non capiva è
che talvolta sotto la cenere può esserci ancora abbastanza
brace per darti fuoco.
*
Per Gloria proseguire si stava rivelando sempre più
complicato, perché la gente si accalcava sul marciapiede e
tutt’intorno. Finalmente raggiunse un punto in cui sembrava
esserci un po’ di spazio e decise di approfittarne: mentre
tentava contemporaneamente di raddrizzarsi gli occhiali, riacchiappare
un pacco che stava per caderle e frugare nella borsa si
dimenticò di guardare avanti.
Peccato che davanti a lei ci fosse qualcuno.
L’urto fu inevitabile. Gloria
finì a terrà in un groviglio di abiti e buste che
si sparpagliavano ovunque: il cappello le scivolò sugli
occhiali, lasciandola temporaneamente accecata, mentre il pavimento
gelido sotto le gambe le provocò un gran brivido.
Due mani salde ma gentili la afferrarono per le
braccia e la rimisero in piedi, per poi scostarle il berretto dagli
occhi.
«Mi scusi, mi scusi, non
l’avevo proprio vista… sono così
sbadata…» balbettò Gloria, spostandosi
i capelli dal viso e guardandosi intorno alla ricerca delle proprie
cose. «Sa, oggi è
impossibile farsi
largo in mezzo alla folla, non c’è verso di
passare… neanche stessero sgomitando per un posto in prima
fila a uno spettacolo mai visto!». Le stesse mani che
l’avevano sollevata le restituirono una bracciata di pacchi,
che lei tentò di afferrare con una mano sola, mentre con
l’altra smanacciava verso il marciapiede per recuperarne
altri. «Grazie! E insomma, quando finalmente ho trovato un
po’ di spazio mi sono distratta…»
Gloria tacque per un istante: aveva sollevato lo
sguardo sulla persona che aveva urtato e che ora la stava aiutando, e
aveva incrociato due occhi di un colore impossibile.
«Oh, wow! Sono lenti a
contatto?» chiese la ragazza, sporgendosi verso
l’uomo e scrutandolo attentamente.
Eliezer si ritrasse, a disagio. «Manca
qualcosa?» si costrinse a chiedere.
«Oh, chissà!».
Gloria controllò intorno ai propri piedi e poi tra le
proprie braccia. «Pare di no. Ma sei bianco! Come fai ad
avere una pelle del genere?» aggiunse, curiosa.
«È sempre stata
così» rispose lui, sempre più in
imbarazzo: la gente lo stava fissando, se possibile, persino
più di prima, e avrebbe voluto andarsene di lì.
«E gli occhi?»
continuò Gloria.
«Anche gli occhi». Eliezer
cercò disperato un varco nella folla; gli parve di scorgere
un punto in cui non c’erano molte persone accalcate, ma
quando tentò di sgusciare via, Gloria allungò una
mano – miracolosamente senza far cadere nulla – e
agguantò Eliezer per il polso, trattenendolo.
«Ehi, aspetta! Dove scappi? Visto che ti
ho urtato e mi hai anche aiutata, volevo offrirti un caffè
per scusarmi e ringraziarti. O magari preferisci un tè? A me
il tè piace. Con i biscotti, poi…».
Scorse l’espressione stralunata di Eliezer e si mise a
ridere. «Scusa. Parlo troppo, vero? Non posso farci niente,
è più forte di me, quando comincio non
c’è modo di farmi smettere…».
Gloria si morse le labbra per evitare di scoppiare di nuovo a ridere.
«L’ho fatto di nuovo. Avanti, accetta la mia
offerta… se sei fortunato, mi scotterò la lingua e
riuscirò a non parlare per trenta secondi!»
«Io… io…»
farfugliò stordito Eliezer, sentendosi in trappola.
Gloria ne approfittò senza ritegno.
«Perfetto. Andiamo, conosco un posto carino e
tranquillo!» decise, trascinando Eliezer in mezzo alla folla.
*
Eliezer non era tipo da frequentare bar. In effetti Eliezer non era
tipo da frequentare posti in cui ci fossero altre persone, il che, nel
ventunesimo secolo, equivaleva più o meno alla maggior parte
dei luoghi sulla terra emersa.
Sebbene Gloria avesse scelto un bel locale,
Eliezer si sentiva come un animale allo zoo. Forse dipendeva dal fatto
che si erano seduti a un tavolo accanto a una grande vetrata. O magari
dalla gente che si era fermata dall’altro lato della suddetta
vetrata, con il naso schiacciato sulla superficie trasparente per
osservarlo meglio.
«Ehi!».
L’esclamazione rabbiosa di Gloria e la forte botta che aveva
dato con la mano al vetro fecero sobbalzare i curiosi. «Che
avete da guardare? Sciò!»
Riluttanti, gli sconosciuti si allontanarono lungo
il marciapiede, evitando le occhiatacce della donna.
«Così va meglio,
vero?» disse Gloria, di nuovo allegra. «Certa gente
proprio non la capisco. Nessuno fa tutte queste scene se vede una
persona con la pelle nera, e si comportano come imbecilli solo
perché tu hai la pelle bianca. Be’, non
“bianca” nel modo in cui la intendono di solito, ma
proprio bianca bianca. Ah, ce li porta due cappuccini, per
favore?» aggiunse, rivolta a un cameriere che passava accanto
a loro. Lanciò un’occhiata tranquilla al suo
compagno. «Scusa, ho ordinato anche per te senza neanche
chiederti di cosa avevi voglia».
Di
tornare su un cornicione dove nessuno possa vedermi, ecco di cosa ho
voglia! urlava una voce nella testa di Eliezer. Ma,
sconvolto e stordito com’era dalle chiacchiere di quella
donna, non sarebbe riuscito neanche a balbettare una cosa del genere,
figuriamoci gridarla.
«Ma parli ogni tanto?»
continuò imperterrita Gloria, incurante del disagio di lui.
«Non ti mangio mica, sai, e non è che possa
parlare solo io!»
«Si direbbe il contrario»
replicò Eliezer con voce flebile.
«Ah, ma allora ce l’hai
ancora, la lingua!» ridacchiò lei, per nulla
turbata dalle parole scortesi dell’altro. «Allora,
io» disse, indicandosi il petto, «sono Gloria. Ora
sentiamo: com’è che ti chiami?».
«Eliezer» rispose
l’interpellato, rassegnandosi: quell’umana era una
furia, e non aveva alcuna speranza di tenerla a freno. Tanto valeva
assecondarla: così magari si sarebbe stancata e lui avrebbe
avuto l’occasione di scappare.
«È un nome strano»
commentò Gloria.
«Anche tu sei strana»
ribatté Eliezer, sulla difensiva, prima di rendersi conto
della situazione: lui, un drago albino, peraltro ultimo della propria
specie, stava dicendo a un’umana qualunque che era lei quella
strana. Eliezer si mise a ridere.
«Che c’è di
divertente? Fa’ ridere anche me!»
protestò la donna.
«Pensavo che è ipocrita, da
parte mia, definire “strano” qualcuno»
rispose il drago.
«Oh, sciocchezze. Ho conosciuto gente
molto più strana di te» tagliò corto
Gloria. «Oh, grazie» sorrise
all’indirizzo del cameriere che aveva appena portato loro i
cappuccini.
Eliezer preferì non rispondere;
zuccherò il cappuccino e ne bevve avidamente una sorsata,
gustandolo. Era raro per lui fare una cosa tanto normale come fermarsi
in un bar a bere qualcosa – e di sicuro mai in compagnia
– quindi gli sembrava tutto speciale. Continuò a
bere, tenendo gli occhi fissi sulla tazza, e quando li
risollevò trovò Gloria che lo fissava apertamente.
«Che
c’è?» farfugliò mentre la
poca tranquillità riacquistata svaniva rapida.
«Niente» rispose placida
Gloria. «È solo che penso di non aver mai visto
nessuno bello come te. Inizio a capire perché la gente ti
fissa».
«La gente mi fissa perché
sono diverso» disse mesto Eliezer.
«Sì, forse»
concesse Gloria. «Però non si può
negare che nel tuo essere diverso, sei bellissimo».
Eliezer arrossì. Non aveva mai
incontrato nessuno – né tra i draghi,
né tra gli umani – per cui il suo aspetto fisico
fosse una cosa buona, e quei complimenti lo imbarazzavano.
«Grazie» balbettò.
Gloria si sporse in avanti, scrutandolo con gli
occhi socchiusi. «Ti ho messo in imbarazzo?»
chiese. «Sì, ti ho messo in imbarazzo»
si rispose da sola un istante più tardi. «Non
capisco come sia possibile. Sono sicura che te lo dicano spesso. Che
sei molto bello, intendo, non che ti hanno messo in imbarazzo. Certo,
se reagisci sempre così, allora di sicuro ti diranno anche
questo…»
«Nessuno mi dice che sono
bello» la interruppe Eliezer, mentre le chiazze rosse sul suo
volto aumentavano. «Nessuno mi parla mai, a dire il
vero».
«Forse dipende da te. Ci hai mai
pensato?» rispose Gloria. «Sembri più
timido di un bambino. Pare che tu abbia persino paura di guardare le
persone negli occhi!»
«Come posso guardare la gente con
questi
occhi?» replicò disperato Eliezer, indicandosi il
volto. «Sono orribili, mettono paura!»
«Sono unici» rispose piano
Gloria. «Ed è difficile che le persone comprendano
la bellezza di ciò che è raro o unico».
Eliezer rimase senza parole. Mai nessuno gli aveva
parlato come stava facendo Gloria. Per la prima volta si sentiva
accettato; per la prima volta non si sentiva solo. Stava sperimentando
quel tepore a cui Gloria era tanto abituata e con cui circondava gli
altri senza nemmeno rendersene conto. Quasi automaticamente, il drago
protese una mano e sfiorò quella di lei: dapprima timoroso,
poi con maggiore audacia, fino a stringerla.
«Non ho mai osato sperare che esistesse
qualcuno come te» le disse.
Stavolta fu Gloria ad arrossire: Eliezer la stava
fissando e sembrava incantato, come se non avesse mai visto niente di
simile. Qualche volta Gloria aveva visto delle persone fissare con
quell’espressione un’opera d’arte, o
recitare una preghiera, e la sconvolgeva che uno sguardo simile potesse
essere rivolto proprio a lei.
Gloria abbassò gli occhi ed Eliezer
sorrise, ricordando un vecchio proverbio dei draghi:
a volte i fuochi più
piccoli possono scaldare più di un intero incendio.
*
Quando Eliezer si era separato da Gloria, quel pomeriggio poco prima di
Natale, era certo che non l’avrebbe mai più
rivista. Quel pensiero gli faceva male al cuore e aveva tentato con
tutto se stesso di soffocarlo, di relegarlo in un angolo della propria
mente, di convincersi che avrebbe fatto meglio a superare in fretta la
cosa perché se anche Gloria avesse voluto vederlo di nuovo
– e nonostante le emozioni provate quel giorno, Eliezer non
avrebbe scommesso un soldo su quell’eventualità
– lei era comunque umana: sarebbe morta in un battito di
ciglia, secondo i suoi standard di drago.
Ovviamente Eliezer aveva capito ben poco di
Gloria, e cioè che quella donna era tanto ostinata quanto
chiacchierona.
Eliezer era seduto su un prato a Villa Borghese,
un paio di giorni prima di Capodanno, invisibile come sempre: a occhi
chiusi prendeva dei profondi respiri dal naso, annusando
l’aria. C’era odore di pioggia, e lui si
augurò che facesse abbastanza freddo perché ci
fosse anche un po’ di neve. Amava la neve – le
distese innevate della Siberia e quelle ghiacciate dei Poli erano gli
unici luoghi in cui non si fosse sentito fuori posto, mimetizzato
com’era con le sue scaglie bianche in mezzo al bianco
– e avrebbe voluto averne intorno qualche fiocco senza dover
volare altrove.
Era immerso in questi pensieri quando
sentì un rumore di passi e una voce stranamente familiare.
«Eliezer?» chiamò
la voce. «Eliezer, lo so che sei qui. Non chiedermi come ma
lo so. Forse è un sesto senso, o magari ho sviluppato un
superpotere! Qualcuno potrebbe aver messo un siero per incrementare le
mie capacità mentali, in quel cappuccino. O magari mi hai
fatto un incantesimo…»
Eliezer sospirò. Anche se non ne avesse
riconosciuto la voce, quel fiume di chiacchiere non poteva arrivare che
da una persona. Si decise a tornare visibile e aprì gli
occhi, in attesa.
«Eccoti, finalmente!»
sbottò Gloria quando lo trovò. «Potevi
anche darmi un indizio su dov’eri!»
«Ero certo che i tuoi superpoteri ti
avrebbero guidata molto meglio di me» la prese in giro prima
di rendersi conto di quello che stava facendo: stava
scherzando. Aveva
appena fatto una battuta.
Gloria sedette accanto a lui sull’erba.
«Allora, Elie, ti sono mancata?»
Il drago arrossì. Quella donna era
sfacciata in modo incredibile, e questo lo mandava in confusione ancor
più della sua semplice presenza.
«Io… cosa… perché?»
farfugliò.
«Prendi fiato, Elie» lo
rabbonì Gloria. «Ti stavo solo stuzzicando un
po’!»
La donna scoppiò a ridere tenendosi lo
stomaco, mentre gettava indietro la testa e il cappello di lana
scivolava via, lasciandole liberi i capelli biondo scuro. Eliezer si
scoprì a fissarla e si sentì come se stesse
volando: provava lo stesso senso di libertà, la stessa
euforia in fondo allo stomaco, insieme a qualcos’altro che
non sapeva identificare.
Gloria si buttò di schiena sul prato e
tese una mano verso di lui. «Mi fai compagnia?»
chiese. «Visto da qui, il cielo è
bellissimo».
Eliezer si sdraiò e sbirciò
il cielo riflesso negli occhi di Gloria. Aveva sempre pensato che il
posto più bello da cui guardare il cielo fosse il cielo
stesso, ma non ne era più tanto sicuro.
*
Con il passare dei giorni, Eliezer scoprì che,
così come gli esseri umani sembravano essere in grado di
percepire che in lui c’era qualcosa di diverso, Gloria aveva
la capacità di percepire la sua presenza e basta. Dopo
quell’incontro al parco, tante altre volte la donna
l’aveva trovato quando lui era invisibile e nascosto; e se
all’inizio il drago aveva pensato che fosse solo una
coincidenza, a un certo punto si era dovuto ricredere.
Una notte di gennaio particolarmente fredda,
Eliezer, dopo la mezzanotte, si era rifugiato in un boschetto in uno
dei tanti parchi di Roma. Lì, nascosto a occhi indiscreti,
si era spogliato e fissava il cielo buio attraverso le fronde degli
alberi. Ormai era da parecchio che si era confinato in quella forma
umana, e di recente il desiderio di volare era diventato
insopprimibile. Quindi aveva pensato che non ci fosse nulla di male in
un giretto nella gelida aria invernale, quando nessuno poteva vederlo
spiccare il volo.
Eliezer chiuse gli occhi e sentì il
proprio corpo cambiare, le ali spuntargli in mezzo alla schiena, mentre
tornava alla sua forma naturale. Era appena tornato alla sua vera
altezza – oltre quattro metri – quando un forte
fruscio di foglie lo riportò alla realtà.
«Elie! So che sei qui, ma non capisco
che ci fai in mezzo agli alberi a quest’ora di
notte!» disse la voce di Gloria, vicinissima. Eliezer fu
preso dal panico: non poteva tornare umano – il passaggio da
una forma all’altra richiedeva alcuni minuti che lui ora non
aveva – e non poteva spiccare il volo, perché in
quel caso Gloria l’avrebbe visto. Ma non poteva neanche
restare fermo dov’era, perché non poteva sperare
che la donna non notasse un enorme drago albino alto quattro metri e
dalla stazza di alcune tonnellate fermo in mezzo agli alberi. Insomma,
Eliezer non vedeva via d’uscita.
«Eliezer!» tuonò
ancora la voce di Gloria. «Per quale motivo dobbiamo sempre
giocare a nascondino io proprio non lo capisco…»
Gloria si interruppe: era appena sbucata nello
spiazzo in cui si era rifugiato Eliezer, e si era trovata di fronte il
drago. Eliezer alzò il muso verso il cielo, decidendo che
ormai tanto valeva alzarsi in volo e sparire.
«Oh mio Dio!»
esclamò Gloria, senza fiato. Mosse qualche passo verso il
drago e lui iniziò ad agitarsi, spaventato sebbene lei non
potesse nuocergli in alcun modo. «Oh no, no, ti prego, non
avere paura!» lo supplicò la donna. «Non
voglio farti del male – non credo neanche che potrei,
insomma, tu sei enorme e io confronto a te sono una
formica… ma tu… tu sei vero?»
Eliezer sbuffò, sofferente e anche un
po’ incredulo. Ma sul serio Gloria gli stava chiedendo se era
vero?
Invece di scappare? Quella donna doveva avere qualche rotella fuori
posto.
Intanto Gloria si era avvicinata ancora di
più; Eliezer la sentì trattenere il fiato e si
rese conto che, distratto dai propri pensieri, aveva abbassato il muso
per guardarla. Girò subito il collo verso un’altra
direzione, ma aveva l’impressione che ormai il pasticcio
fosse fatto.
«Eh no, non ci provare!
Guardami!» disse Gloria. Quando il drago non
obbedì, non si fece scrupoli a dargli un pugno: Eliezer,
talmente sorpreso dal grado di follia che Gloria stava raggiungendo
– insomma, chi mai prenderebbe a pugni un
drago? –
finì per fare proprio quello che lei voleva.
Gloria si specchiò in quegli occhi
rossi, e anche se al posto suo nessun altro avrebbe creduto a quello
che vedeva, nella sua mente non passò nemmeno per un istante
l’idea che potesse essere tutto uno scherzo, o
un’allucinazione.
«Elie, sei tu?»
bisbigliò Gloria.
Eliezer non vedeva cos’avrebbe potuto
fare per smentire l’intuizione – giusta –
che Gloria aveva appena avuto. Spiccare il volo? Ruggire? Incenerirla?
Non aveva senso. Così abbassò il muso fino a che
i suoi occhi non furono alla stessa altezza di quelli di lei.
«Lo sapevo che eri tu»
mormorò Gloria, senza fiato, afferrandogli il muso squamoso
tra le mani e appoggiandovi la guancia. «Lo sapevo che eri
speciale, lo sapevo che eri unico».
Eliezer mugolò piano, lasciandola fare.
Il tocco di Gloria sulle sue squame era caldo: gli ricordava il fuoco
con cui sua madre lo scaldava quando era ancora nell’uovo,
aveva quella stessa carica, quella stessa capacità di
rassicurarlo, di farlo sentire accettato, voluto, amato.
Il drago si chinò fin quasi a sdraiarsi
sul suolo freddo e spinse appena Gloria con la testa.
«Che c’è,
Elie?» bisbigliò lei. Eliezer la spinse di nuovo e
accennò con la testa alla propria schiena. «Vuoi
che salga?». Gloria si mise a ridere, un po’
isterica. «Che vuoi fare, portarmi in groppa come un
cavallo?»
Eliezer mugolò più forte e
agitò le ali, rischiando di sradicare parecchi alberi.
Gloria sgranò gli occhi, comprendendo finalmente le sue
intenzioni.
«Oh no, questo è molto, molto
peggio!» disse.
«Vorresti… vorresti…
volare con
me sulla
schiena?»
Il drago emise un verso rauco e profondo, poi
appoggiò la testa a terra e la fissò con occhi
imploranti: voleva volare e voleva farlo con Gloria.
«Oh, e va bene»
sbuffò lei. «Hai vinto. Ma non farmi cadere! Non
voglio morire sfracellandomi al suolo da chissà quale
altezza. A proposito, quanto in alto puoi arrivare? Non senti freddo? E
poi…»
Eliezer grugnì forte e
sbuffò: piccole volute di fumo fuoriuscirono dalle sue
narici, e Gloria gli fece la linguaccia.
«Ho capito, salgo» si arrese;
andò verso il fianco di Eliezer e cercò cauta un
modo per salirgli in groppa. Stanco di aspettare, Eliezer la
afferrò per il cappotto con i denti e torcendo il lungo
collo se la depositò all’attaccatura tra le
scapole. Attese che Gloria si sistemasse e trovasse un buon appiglio
alle creste ossee che gli spuntavano sul retro del collo, poi
spiccò il volo.
All’iniziò non
sentì che le urla di lei: di paura, di
incredulità, di eccitazione. Gloria urlava e la sua voce
andava persa nel vento e nei poderosi colpi d’ala del drago,
che facevano fischiare l’aria intorno a loro. Eliezer si
beava nella sensazione del volo: ogni tanto saliva di quota e
attraversava ciuffi di nuvole, immergendosi in quel bianco lattiginoso
e umido. Di solito volava al di sopra di strati compatti di nuvole o
addirittura
dentro
le nuvole, in modo da mimetizzarsi, ma quella notte non ce
n’erano abbastanza. Ogni volta che si tuffava in una nuvola
sentiva le urla di Gloria trasformarsi in risate, e ben presto ci
furono solo quelle: non c’erano più la paura e lo
sconcerto dell’essere in groppa a un drago, ma solo
l’euforia del volo. Quella Eliezer la conosceva bene: era
l’unico momento in cui si sentiva quasi felice, e aveva
voluto ardentemente che anche Gloria sperimentasse quella sensazione
totalizzante, in grado di far dimenticare qualsiasi altra cosa.
Volarono a lungo alla luce della luna, che si rifletteva sulle squame
di Eliezer facendole brillare d’argento.
Sentendo Gloria tremare di freddo sulla sua
schiena, Eliezer tornò verso terra e planò di
nuovo al sicuro nel boschetto. Gloria scese dalla sua schiena e si mise
in disparte mentre il drago si acciambellava tra gli alberi: lentamente
le ali, le creste ossee e gli artigli si ritirarono, le squame si
appiattirono e lisciarono fino a tornare soffici ed Eliezer
tornò alla sua forma umana. Mentre si rivestiva, Gloria gli
si avvicinò e prima che lui potesse capire cosa stesse
accadendo, lo baciò.
Quel bacio era persino meglio che volare. Come il
tocco delle mani di Gloria, sulla pelle di Eliezer le labbra di lei
erano calde, bollenti, infuocate: avevano lo stesso calore, la stessa
intensità delle fiamme, e per la prima volta nella sua
lunghissima vita, Eliezer si sentì a casa tra le braccia di
qualcuno.
Eliezer schiuse la labbra, lasciando che fosse
Gloria ad approfondire il bacio, ad afferrarlo, a piantare le unghie
nella sua pelle candida: lui si limitò ad abbracciarla,
quasi temendo che da un momento all’altro la donna potesse
scappare.
Ma Gloria non aveva nessuna intenzione di
andarsene: continuò a baciarlo, togliendogli
l’aria, e più lo baciava più aveva
voglia di non staccarsi, e il tocco delicato delle mani di Eliezer
sembravano infiammarla, riempiendole il petto di calore tanto da farla
annaspare…
Gloria si staccò dalle labbra di
Eliezer e lo fissò: al di sotto della pelle ogni vena, ogni
capillare spiccava, brillando violenta attraverso
l’epidermide nivea, quasi fossero pieni non di sangue ma di
fuoco.
«Sei meraviglioso»
sussurrò la donna, ammaliata. «E sei
caldissimo!» aggiunse quando si rese conto che le braccia di
Eliezer scottavano: era come toccare dei tubi di metallo pieni
d’acqua bollente.
«Sono un drago» rispose lui
con notevole calma. «Abbiamo il fuoco dentro, e quando siamo
felici, il nostro fuoco canta».
«Quanti altri draghi ci sono in
giro?» gli domandò Gloria, curiosa.
Eliezer s’incupì.
«Nessuno» rispose. «Io sono
l’ultimo. Con la mia morte, la mia specie si
estinguerà».
«Ehi, ehi, ehi» disse severa
Gloria, afferrandogli il volto nonostante fosse bollente e
costringendolo a guardarla negli occhi. «Ascoltami
attentamente. Primo: non voglio sentirti parlare di morire. Secondo:
sì, sei l’ultimo della tua specie, ma in un certo
senso, sei il primo. Da te, la tua razza può
rinascere».
«E chi mai vorrebbe stare con
me?» disse amaro Eliezer.
«Io, per esempio» rispose
dolcemente Gloria. «Te lo giuro, Eliezer: tu non sarai
l’ultimo dei draghi».
Alzatasi in piedi, Gloria si sfilò
lentamente il giaccone sotto gli occhi confusi di Eliezer. Seguirono il
maglione e le scarpe, poi i pantaloni e la maglietta: Gloria rimase
seminuda nel freddo della notte invernale, guardando Eliezer negli
occhi senza vergogna. Tornò a sedere accanto al drago e si
strinse a lui, scaldandosi contro il suo corpo.
«Gloria» mormorò
Eliezer quando le labbra di lei sfiorarono di nuovo le sue.
«Che stai facendo?»
«Sai perché ho accettato di
salire sulla tua schiena, prima, mentre eri
un… un… drago?» rispose lei.
«Ti ho guardato negli occhi e ci ho visto soltanto una cosa:
il desiderio di volare con me» proseguì.
«Volevi che io provassi quella sensazione meravigliosa, una
sensazione che non avrei potuto immaginare neanche nei miei sogni
più vivaci. In queste settimane, di te ho capito una cosa:
che sei sempre stato solo. Quindi adesso voglio essere io a farti
provare qualcosa che credo tu non abbia mai sperimentato
prima». Gli prese le mani e se le portò sui
fianchi, poi gli baciò la linea della mascella e
tornò a guardarlo negli occhi. «Voglio che tu
sappia cosa si prova a fare l’amore con qualcuno che ti
ama» sussurrò.
Eliezer scosse la testa, allarmato.
«Gloria, non si può» disse frenetico.
«Tu non capisci. C’erano storie tra la mia gente,
su quello che accadeva quando draghi e umani si… si univano.
Voi siete così fragili, così
delicati… potrei ferirti, potrei spezzarti le
ossa… ucciderti…». Deglutì a
vuoto. «Ci sono state altre donne, in passato, ma non provavo
per loro quello che provo per te. Ero così infelice,
così indifferente, che la mia parte di drago era
quasi…quasi morta, mentre ora la sento forte, forte come
quasi mai l’ho sentita, e temo quello che potrebbe farti.
Quello che io potrei farti».
Gloria si specchiò nelle iridi rosse
che aveva di fronte, e in quelle di lei Eliezer vide solo fiducia.
«Non ho paura, Elie» sorrise.
Gli passò le braccia intorno al collo e lo strinse a
sé. «Fai l’amore con me».
Eliezer chiuse gli occhi e si abbandonò
a Gloria. Sentì le sue mani sfiorarlo e spogliarlo e vide i
suoi occhi guardarlo con reverenza mentre lui la faceva sdraiare
sull’erba e le sfilava i pochi indumenti che ancora
indossava. Baciò ogni centimetro della sua pelle e ogni
volta che la assaporava sentiva il proprio sangue infiammarsi sempre di
più, diventare simile a lava ardente, e accendere ogni parte
del suo corpo.
Sotto di lui, Gloria non riusciva a spostarsi
né a chiudere gli occhi. Nonostante Eliezer stesse
diventando incandescente, nonostante lei si sentisse bruciare, il
piacere che provava e la meraviglia dell’osservare quel corpo
brillare dall’interno come una stella la tenevano inchiodata
dov’era. Era sicura della propria scelta: neanche le prime
scottature che le dita di lui le stavano lasciando sulla pelle potevano
farle cambiare idea.
Un gemito della donna in cui si mescolavano
piacere e dolore bloccarono Eliezer.
«Gloria» bisbigliò,
fermandosi per un istante: amava Gloria, non poteva farci nulla, e ora
che aveva baciato e toccato il suo corpo morbido e accogliente, temeva
di non riuscire più a fermarsi. La guardò negli
occhi. «Io… io credo che dovremmo
smettere».
«No». Il sussurro disperato di
Gloria lo colpì quanto le sue mani, che si aggrapparono a
lui nonostante ormai fosse come toccare il metallo incandescente.
«No, Elie. Ti prego, non ti fermare».
Come poteva resistere a quella supplica? Eliezer
se lo chiese, mentre l’eco di quelle parole si spegneva nel
silenzio della notte. Non poteva: era questa la verità. Lui,
che non era mai stato accettato per quello che era e che si era sentito
inadeguato per tutta la propria lunghissima vita, dopo tanta solitudine
aveva finalmente scoperto cosa significasse essere amato
incondizionatamente: Gloria gli aveva fatto assaggiare quel nettare ed
Eliezer sapeva che non sarebbe riuscito a fermarsi, che
l’egoismo avrebbe prevalso, spingendolo a berne ogni goccia,
anche se questo significava distruggere la donna che gli aveva fatto
quell’incredibile dono – e anche se farlo lo faceva
sentire gretto e meschino, proprio perché anche lui
l’amava.
«Mi dispiace»
mormorò mentre diventava un’unica cosa con lei.
Strizzò le palpebre e lacrime bollenti caddero dai suoi
occhi sul volto di Gloria come pioggia.
«A me no» rispose Gloria,
stringendolo a sé con tutta la forza che aveva.
«Non potrei mai pentirmi di questo, Elie. Giurami che non
macchierai quello che abbiamo con degli stupidi rimorsi».
Ormai Eliezer non poteva fare nulla se non
annegare in Gloria: le sue parole, il suo totale abbandono, il suo
amore, sgretolavano ogni tentativo del drago di tirarsi indietro.
Quanto più sentiva quel sentimento così forte
travolgerlo come un’onda e sommergerlo, togliendogli il
fiato, tanto più il fuoco che gli scorreva dentro cresceva,
rendendolo simile a una fiamma viva.
E quando la loro unione fu al culmine e ognuno
ebbe riversato tutto se stesso nell’altro, Gloria sorrise.
Sorrise senza rimpianti mentre il suo corpo martoriato dal calore si
disfaceva lentamente in cenere sotto gli occhi di Eliezer e quel che
restava di lei si mescolava al pianto dell’uomo che amava.
Chiuse gli occhi, Eliezer, quando della donna che
aveva condannato a morire soltanto perché l’aveva
amato non rimase che cenere. Chiuse gli occhi e per un attimo si
concesse di fare proprio quello che Gloria gli aveva chiesto di non
fare: biasimò se stesso. Si odiò per essersi
concesso il lusso di amare l’unica persona che avesse mai
potuto ricambiarlo, si detestò per averle permesso di
innamorarsi, si disprezzò per non avere avuto la forza di
strapparsi da quella dolcezza mai provata prima e salvare
così Gloria.
Riaprì gli occhi, Eliezer, e vide
fluttuare davanti a sé uno sciame di scintille infuocate che
sostavano ostinate davanti a lui, quasi a ricordargli la promessa
fatta. L’uomo si asciugò le ultime lacrime e le
scintille si mossero: si sollevarono verso l’alto come
sospinte da un vento gentile e si allontanarono, diventando minuscole e
sparendo una alla volta. E nel momento stesso in cui anche
l’ultima scaglia di luce non fu più alla portata
degli occhi di Eliezer, una nuova stella si accese nel cielo sopra la
sua testa: una stella bianca e luminosa circondata da un alone rosso
come il fuoco, che sembrava brillare rassicurante nella sua direzione.
Inginocchiato a terra, Eliezer capì che
ormai restare umano non aveva più senso: lasciò
che il proprio corpo tornasse alla forma originale, quella stessa forma
che solo poche ore prima aveva svelato la sua natura più
profonda a Gloria.
E quando fu tornato quello che era stato in
origine, il drago sollevò il muso e ruggì al
cielo.