III
– L’uomo triste e la principessa di pezza. [Hohenheim]
Lo studio
era tetro. L’unica fonte di luce era una piccola lampada ad olio,
che rischiarava la piccola stanza con una luce giallina e tremula.
Hohenheim
aveva bisogno di stare in quella stanza con le persiane
sbarrate, seduto curvo sulla sua scrivania.
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
Non
sapeva che ora fosse, poteva essere anche già calata la notte, non
era importante. Le finestre dovevano rimanere oscurate, lui doveva
rimanere nascosto, rintanato nella sua tana.
Quella
vita era così ingiusta ed intollerabile! Aveva vissuto per centinaia
e centinaia di anni, e nel momento in cui gli era parso di trovare
finalmente ciò che cercava si era ridotto in quello stato. C’era
tensione in lui, il suo sesto senso gli diceva di stare all’erta,
perché il Piccolo Uomo nell’Ampolla di certo non si era fermato,
non dormiva, lui tramava, ingarbugliava, disfaceva, confondeva le sue
tracce, complottava, spostava le sue pedine, ne era certo… E lui
cosa faceva invece? Si era lasciato trasportare mollemente dalle
acque tranquille e sicure della vita familiare.
In quei
pochi anni in cui si era imposto di rilassarsi non aveva fatto altro
che sentirsi in colpa. Paradossale, no?
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
Con la
coda dell’occhio era perennemente all’erta in ogni istante: tutti
potevano essere dei nemici, il mondo era un luogo ostile, lo aveva
imparato a proprie spese, e di anni per apprendere ne aveva avuti fin
troppi.
Era tanto
tempo che non usciva più dalla casetta di Resembool. Il mondo ormai
lo aveva visitato tutto palmo a palmo.
Avvertiva
ansia. Perfino il silenzio con cui cercava di circondarsi alla fine
era assordante e lo innervosiva in modo terribile. Non
esisteva nulla che non lo facesse impazzire di preoccupazione: dal
vento al buio, dalla folla al vuoto, dalle risate al pianto. Si
sentiva delirare e si isolava, tutto poteva essere una minaccia in
quel mondo crudele. Passava così le giornate in quello scuro studio
che sapeva di aria stantia, di polvere e di vecchio, proprio come
lui.
Non
sapeva dire nemmeno da quanto tempo si fosse rifiutato di vedere
Trisha, forse erano passate ore, forse addirittura giorni. Gli era
evidente di essere un gran codardo, oltre che un incapace.
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
Lei non
lo disturbava mai, come se comprendesse a sua volta la gravità della
situazione. Era proprio una moglie devota, che provava con tutta sé
stessa a compiacerlo e ad aiutarlo… Era straordinaria nella sua
infinita semplicità.
Hohenheim
una cosa la ammetteva perfettamente: non aveva mai
provato un tale sentimento per nessun altro al mondo. Strano a dirsi,
si era innamorato proprio di lei, che era così poco appariscente,
senza alcun tipo di istruzione, spensierata come se fosse rimasta
bambina. Lui, con tutte le conoscenze che aveva acquisito, provava un
amore trascendentale e profondo per una donna che aveva difficoltà
persino a scrivere una lettera formale, e le cui conoscenze
matematiche e scientifiche si fermavano alle quattro operazioni,
possibilmente senza numeri decimali.
Quando le
aveva confessato la verità sulla sua longeva vita lei aveva sorriso,
solo sorriso, quella povera, piccola, ignorante Trisha Elric,
Principessa di Pezza nel suo piccolo mondo di polvere…
La verità
era che lei non capiva proprio nulla. Per quanto si sforzasse non era
in grado di comprendere il pericolo che la circondava da quando lo
aveva conosciuto, e Hohenheim prima o poi sarebbe stato costretto a
prendere dei provvedimenti. La cosa lo terrorizzava, eppure un giorno
avrebbe dovuto andarsene per proteggerla, per non vederla morire.
Doveva solo convincersi…
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
L’imponente
uomo si asciugò le gote tirando nel frattempo su con il naso, ingoiò
lo spesso nodo che gli si era formato in gola e si alzò dalla sedia
scricchiolante. Il suo passo era incerto e lento, stanco, come se
sentisse sulle spalle il peso di tutti gli anni che aveva vissuto e
di tutte le anime che aveva assorbito involontariamente dopo essere
stato ingannato. No, non sarebbe più successo, nessuno lo avrebbe
più tradito.
Aprì la
porta lievemente, permettendo ad una lama di luce artefatta di
entrare della stanzetta. Era sera o notte, evidentemente.
«Trisha…»
Il suo
richiamo era basso e roco, lamentoso.
«Trisha,
dove sei?»
Avvertì
un rumore di passi e aspettò.
La donna
arrivò in poco tempo e sul suo viso pallido e insalubre poteva
notare un’espressione sollevata e felice. La sua pelle emanava
costantemente l’odore tipico e malsano della malattia: odorava
lievemente di sudore, di latte e di cavolo.
Povera
Principessa degli Stracci, non capiva proprio nulla…
«Finalmente
sei uscito da lì… Volevo portarti la cena, ma avevo paura di
disturbarti, e così l’ho lasciata in cucina. Ho fatto una minestra
di cereali, però sarà diventata fredda, se vuoi mangiare vado a
darle una scaldata veloce…»
«Hai
chiuso le imposte?»
La sua
domanda affettata non la colse nemmeno tanto di sorpresa, era
abituata a quel genere di domande.
«Sì,
caro, ho chiuso tutto come al solito, stai tranquillo… Non
succederà nulla… Non piangere…»
Come
faceva ad esserne così sicura? Era evidente che fosse troppo
ottimista, Trisha. Ottimista, infantile, bellissima, incolta, malata.
Non riusciva ad adirarsi con lei per la sua ingenuità, anche se
avrebbe voluto. L’emozione che provava maggiormente era un profondo
senso di angoscia e di paura che potesse succederle qualche
disgrazia. Il Piccolo Uomo nell’Ampolla conosceva le sue debolezze,
sapeva che il suo più grande desiderio era stato quello di avere una
famiglia, e ora che era riuscito ad ottenerla viveva nel terrore che
quell’infame potesse fare a pezzi tutto ciò che amava.
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
Trisha
era meravigliosa come un angelo anche in quel momento.
La sua voce era delicata, il suo sorriso delizioso. Non c’era una
singola parte di lei che non adorasse, dai suoi capelli al modo
impacciato con cui gli chiedeva di aiutarla nelle situazioni più
disparate. In quel momento non c’era nulla di più gradevole alla
vista della curva dolce del suo ventre carico di vita. Era in attesa
del suo bambino, il suo secondo figlio. Come poteva pensare, la
povera Trisha, che quella sottile barriera di pelle e tendini potesse
essere una protezione sufficiente per lui? Chiunque avrebbe potuto
ferirli entrambi, far loro del male, e la malattia già la consumava
irrimediabilmente da tempo… Possibile che non se ne rendesse conto
da sola, che dovesse pensarci lui? Era così nervoso e
preoccupato… Aveva desiderato quei figli con tutto sé stesso, non
poteva perderli… Amava già alla follia anche quello che ancora
doveva vedere la luce, nonostante le difficoltà e i pensieri crudeli
che continuavano incessantemente a tormentarlo. Amava Edward, il suo
primogenito nato circa un anno prima, a dispetto di tutto quello che
gli sembrava di percepire: quel bambino così piccolo pareva non
essere in alcun modo legato a lui, viveva esclusivamente in simbiosi
di sua madre.
«Edward…
Sta dormendo?» chiese timidamente ora che gli era venuto in mente il
figlio.
«No, sta
gattonando per casa, penso che sia giusto che faccia le sue scoperte…
Però tra poco lo metto a dormire… Anche io sono molto stanca…»
rispose lei sorridendo, prima di pendergli una mano umida di lacrime
e di appoggiarla dolcemente sul suo ventre gonfio «Oggi non ha
smesso un attimo di scalciare! Ho bisogno di riposare… In più Ed
consuma tutte le mie energie.»
«Hai
visto che lui con me non ci vuole stare. Non gli piaccio.»
«Ma sei
suo padre, non puoi non piacergli! Secondo me devi solo passare più
tempo con lui… Non lo prendi mai in braccio, non gli racconti le
favole, non lo fai addormentare… Perché non ci provi almeno? Io so
che tu lo ami… Però glielo devi dimostrare…»
Povera,
piccola, ignorante Trisha.
Hohenheim
aveva un figlio che già lo odiava, lo aveva letto nei
suoi occhietti dorati così intelligenti. Non sapeva spiegarsi
nemmeno troppo bene come facesse a presagire una cosa del genere, era
quella solita maledetta sensazione che non smetteva un attimo di
tormentarlo… Eppure nonostante tutto, si era promesso che non
avrebbe mai smesso di proteggere il suo piccolo Ed…
Non
avrebbe avuto il coraggio di assistere anche alla sua morte, quando
questa era la punizione spietata a cui il destino (o forse era meglio
dire Il Piccolo Uomo nell’Ampolla?) lo aveva condannato… E ciò
lo spaventava, aveva il terrore che gli riempiva l’animo al solo
pensare che sarebbe stato inevitabile, e li avrebbe visti spirare
tutti quanti. Come avrebbe voluto proteggere i suoi cari anche dalla
Morte…
Non
poteva fare a meno di pensare che alla fine fosse solamente colpa
sua. Con il suo egoismo, con la sua voglia smodata di avere una
famiglia, aveva condannato la dolce Trisha e i suoi figli ad una vita
difficile e pericolosa.
Sì, era
stato uno stupido a lasciarsi trasportare in quel modo dai suoi
sentimenti… Per il suo bene non avrebbe mai dovuto dichiararsi
durante quella serata estiva, non avrebbe dovuto baciarla, sfiorarla,
fare l’amore con lei, permettere a quei bambini infelici di venire
al mondo… Ora era tutto troppo difficile e doveva sbarrare le
finestre e chiudersi in quello stupido studio a fare i conti con i
propri demoni, mentre nella sua testa i pensieri contrastanti
lottavano furiosamente. Voleva rinchiudere sua famiglia nel suo
piccolo nido sicuro, eppure sapeva che quell’oppressione avrebbe
potuto spezzare il cuore della sua giovane moglie, oltre che il suo
fisico già affaticato e cagionevole.
Con
questi pensieri in mente si voltò lentamente scostando la sua mano
piccola e leggera.
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
«Mi
dispiace per tutto questo, Trisha… Io non volevo… Non voglio
farti soffrire… Non voglio che Edward mi disprezzi… Tutti a
questo mondo mi odiano. Prima o poi lo farai anche tu…»
«Non ti
odio, caro… Non potrei mai odiarti…»
Lei
sorrideva ignara, cercando di consolarlo.
Lo
accompagnò nella stanza appoggiandosi al suo fianco forte, beandosi
del suo calore, pronta a confortarlo amandolo ancora una volta,
regalandogli il suo corpo nudo e morbido nelle forme.
Trisha
Elric era una moglie amorevole e devota al proprio
marito.
Hohenheim
pianse. Pianse tutto il tempo abbracciato
spasmodicamente al corpo fin troppo perfetto di lei, mentre due
piccoli occhi dorati ed intelligenti scrutavano le ombre protagoniste
di quella scena surreale, che di lì a poco si sarebbe persa
nell’oblio della mente di bambino di poco più di un anno.
Hohenheim
non se ne accorse mai.
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
A
Disturbo
paranoide di personalità:
è
un disturbo di personalità
caratterizzato
dalla tendenza persistente ed ingiustificata
a
percepire e interpretare le intenzioni, le parole e le azioni degli
altri
come
malevole, umilianti o minacciose per la propria persona
o
per le persone a cui il paranoico vuole bene (figli, genitori,
famigliari...).
Il
mondo esterno è vissuto come ostile e guardato con diffidenza e
sospettosità,
con
conseguente predilezione per uno stile di vita solitario.
Tutto
questo porta le persone che soffrono di questo disturbo ad avere un
atteggiamento ipervigilante (ricercano segnali di minaccia, di
falsità e di pericolo).
La
sensazione che si vive è quella dolorosa di essere escluso, in
quanto non voluto,
di
essere emarginato, e prevarranno ansia, tristezza, senso di
solitudine e astenia,con la conseguente tendenza ad isolarsi, a
ritirarsi dal mondo.
Gli
individui con questo disturbo possono sospettare, senza reali motivi,
che il partner sia infedele o gli altri familiari li disprezzino.
La
sensazione di minaccia non viene mai considerata come una fantasia o
un’ipotesi, ma come un dato di realtà assoluto e certo.
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