Prologo
Pubblicare
su un fandom nuovo mi mette sempre una paura
boia, credo sarà una cosa che non mi
toglierò mai (no, nemmeno se Pablo
Neruda comparisse in sogno solo per dirmi: e pubblicala!).
Vaneggiamenti a parte... Wow. Slam Dunk è il primissimo
fandom che ho
silenziosamente frequentato da quando ho scoperto EFP e riuscire a
postare una
fan fiction mi sembra quasi la realizzazione di un sogno. Questa
ha più di due anni. No, non
sto scherzando. È abbastanza banale, forse piena di
cliché ma è la boccata
d’aria che mi serve. Spero che con il procedere della storia
non saltino fuori
scene/situazioni già riprese in altre fan fiction. Sarebbe
alquanto
imbarazzante…
Detto questo, lascio alcuni punticini che ai fini della
storia non servono a nulla ma mi premeva scriverli (volendo potete
saltarli o
premere sulla X rossa, se non lo avete già fatto xD):
- Per
quanto sia una fan dello Yaoi (e Slam Dunk è un terreno
fertile), ho deciso di cimentarmi in una het perché mi sento
più a mio agio a
scriverne. Lo Yaoi per me resterà sempre quel momento in cui
ti passano un joystick,
magari mentre si fa una maratona di Zelda e ti trovi a rispondere: no
grazie, preferisco
guardare.
- Sono
prolissa. Quando distribuivano la capacità di sintesi,
ero a letto a dormire abbracciata alla pigrizia. Ho cercato di
stringare il più
possibile ma se dovesse darvi noia la lunghezza dei capitoli fatemelo
pure
notare :)
- Mi
sono concentrata più sulla psicologia dei protagonisti che
sulle scene effettive, questo perché la story-line segue
fedelmente il manga;
per fare un esempio, tutti sanno sicuramente come si è
svolta la scena del
pestaggio in palestra (insomma, quei momenti belli in cui Inoue ti
schiaffa un
Mitsui col taglio alla Renato Zero e poi sbam!, addio ovaie), non
avrebbe quindi
avuto senso che descrivessi la scena nel dettaglio.
- I
dialoghi sono… Ngh. Avete presente le cose in stile
“Robe…
Robe a caso”? Ecco, diciamo che a volte sembrano botte e
risposte messe lì
tanto per, anche se in realtà è stato fatto solo
per un mio gusto personale. A
mia discolpa posso dire che quando la scrissi ero nel mio periodo Tarantiniano (Oh, Quentin ♥)
e diciamo che Le Iene mi ha
abbastanza influenzata.
- Il
Prologo è quanto di più inutile e noioso esista
sulla
faccia di tutto Efp. Purtroppo non sono granché brava con
gli incipit e avevo
voglia di qualcosa che non partisse nel presente, con
l’introduzione di ogni
singolo personaggio. Vedetelo come un capitolo di transizione.
Mi
sto
scavando la fossa da sola, praticamente :/
- Mo
chùisle
è un termine gaelico irlandese preso dalla frase “A chùisle
mo chroí” che
tradotta verrebbe dire “Il battito del
mio cuore”. Ringrazio Clint
Eastwood e il suo Million Dollar
Baby
per avermi fatto scoprire una tale bellezza.
Direi che è tutto. Non mi resta che
augurarvi una buona lettura ♥
«Non
aprite agli estranei, non mandate a fuoco la casa e non--»
«Non
bevete la candeggina, lo sappiamo.» Akira sorride assonnato.
«E
non mangiate sul divano, sappiamo anche questo.» seguita
Shibahime,
giocherellando con la punta della lunga coda laterale.
Alla
luce del sole, i suoi capelli corvini freschi di tinta sono colorati da
venature
bluastre che risaltano il suo incarnato pallido. Akira nasconde un
sorriso
dietro il palmo della mano; sembra quasi una di loro.
Madoka
è tutta trafelata, tartassa Kyosuke Sendoh di continui
«Hai preso tutto? Ho
preso tutto? Abbiamo preso tutto?» che si perdono con la
risata svagata
dell’uomo.
«Oh,
andiamo tesoro, se hai dimenticato qualcosa lo compreremo
là!» si avvia verso
la macchina con le valigie, lasciandola a tamburellare la scarpa col
tacco
cinque.
«Ehi,
puoi sempre abbandonarla al primo scalo.»
«O
puoi buttarla giù dall’aereo.»
«Vedo
che il senso dell’umorismo lo avete anche appena
svegli» li interrompe la
madre, guardandoli poi con un sorriso enorme «Mi mancherete
molto, lo sapete?»
«Andiamo,
staremo via solo qualche mese.» si intromette il marito,
abbracciando
Shibahime.
«Papà,
hai la barba che punge.» si lagna la ragazza sotto le risate
dell’uomo.
Akira si
volta verso sua madre, ora con le braccia aperte «Tesoro mio,
se non ti abbassi mi
spieghi come faccio ad abbracciarti?» Akira ride scanzonato
sotto gli sbuffi di
sua madre.
«Akira,
ricordati di svegliarti.»
«Shiba,
ricordati di mangiare.»
«Sì,
sì.»
belano in coro, sventolando le mani.
Se
ne vanno qualche minuto dopo, lasciando loro un sacco di
raccomandazioni, numeri
di telefono da chiamare in caso di bisogno e una moltitudine di Vi voglio bene che non saranno
più
sprecati d’ora in poi.
Shiba
sbadiglia sonoramente, si dondola su e giù sul bordo della
veranda.
«Mh,
quindi siamo rimasti noi due.»
Akira
si massaggia il mento «Già…»
scappa di corsa «Il telecomando è mio!»
«Mh?!
Ma—No, ehi!»
Mo chùisle
Prologo
(In quattro
non si sta così male)
“Beh, siamo tutti pieni di ferite. Ce
le portiamo dietro per tutta la vita e alla
fine, ci uccidono.
Succede che lasciano un segno nello spazio. Nel
tempo. In
noi.”
-The
Will [1.02],
Six
feet under-
Sendoh
conosce Shibahime un mattino d’inverno, quando la neve non
fiocca più e suo
padre ha smesso di imprecare perché fa troppo freddo. Sua
madre ride
spensierata aggrappandoglisi al braccio, la mano libera stringe invece
la sua,
piccola e guantata; c’è una saldezza che non le
riconosce, come se avesse il
timore di vederselo scappare da un momento all’altro.
Ed
è ciò che Akira vorrebbe fare.
Madoka
lo ha svegliato con un’ora di anticipo e canticchiando lo ha
vestito di tutto
punto. Lei non canticchia mai, lo fa solo quando nonna Izumi se ne
torna a casa
o quando papà la porta fuori a cena in quel ristorantino in
centro che le piace
tanto.
Eppure
è sempre felice, ultimamente.
Irradia
ogni angolo di casa con i suoi sorrisi, le sue canzoni stonate e le
lacrime fra
le risate. Ricorda ancora di averla vista piangere mentre puliva la
stanza
degli ospiti, quella sempre chiusa con la carta da parati a fiori blu e
gialli
e al suo preoccupato «Mamma, che
cos’hai?» lei gli ha detto che era solo
felice.
Akira
non ha ben compreso, continua a dirsi che se una persona è
felice non può
piangere. A
lui capita quando perde una partita contro Koshino o quando si sbuccia
le
ginocchia perché scivola sul campetto da basket dietro casa.
Ma quando segna un
punto, quando suo padre lo porta in spalletta come se fosse un campione
dell’NBA, ride di cuore.
E
poi gli è tutto più chiaro.
È
durante un soleggiato pomeriggio di primavera che sua madre lo accoglie
sulla
veranda di casa, con i suoi grandi occhi scuri tutti rossi e un foglio
stretto
fra le mani rovinate dai lavori in giardino. Akira è rimasto
interdetto nel
vederla fremere -assomiglia alla minuta Shizuka, quella che si agita
sulla
sedia quando le maestre riconsegnano i compiti corretti- e prima che
possa
chiederle perché sia così strana, Madoka ha
aperto le braccia e dopo averlo
stretto in una morsa delicata gli ha sussurrato un tremante
«Presto avrai una
fratellino, non sei contento?» che lo indispettisce.
Pensa
che in tre si sta bene. E che sua madre, grossa come
un’enorme mongolfiera, non
sarà più bella come continuano a ripetergli i
suoi amichetti.
I
giorni passano fra chiamate ad amici e parenti, canzoni canticchiate
per i
corridoi e sempre più sporadici «Alza di
più le braccia quando tiri, altrimenti
non centrerai mai il canestro.» che suo padre era solito
rivolgergli quando
tornava da lavoro. Ora corre in casa, lo saluta di sfuggita,
è sempre chino su
carte da firmare mentre sua madre galleggia su di
un’invisibile nuvola rosa.
Si
curano poco di lui e dei suoi capricci, tanto che ha smesso di lagnarsi
per
ogni piccola cosa. Si prepara lo zaino da solo, non chiede
più aiuto a Kyosuke
per i compiti di inglese e smette di chiedere a sua madre di fare il
tifo per lui mentre sconfigge Michael
Jordan immaginari, nel campetto sul retro.
A
volte vengono degli strani Man in Black,
fanno domande su domande e scribacchiano qualcosa su enormi
quaderni neri e Akira, che assiste a tutto quello stringendo la gonna
della
mamma, continua a chiedersi dove lo abbia nascosto il fratellino
perché è
ancora magra come due mesi prima.
Ichigo
della terza sezione G ha raccontato a tutti che presto avrà
una sorellina e la pancia
di sua madre lievita giorno dopo giorno, come le torte di mele che la
nonna
sforna quando la vanno a trovare.
Una
sera ha chiesto a Madoka, mentre lo accompagnava a letto e gli
rimboccava le
coperte, dove lo tenesse nascosto perché aveva cercato
dappertutto ma non era
riuscito a trovarlo. Le ha addirittura sollevato il maglione,
tastandole il ventre piatto e lei ha riso di cuore.
Ha
scosso la nuca e gli ha scompigliato i capelli scuri «Non
nascerà come sei nato
tu. Saremo noi a doverlo andare a prendere.»
«A
prendere?»
Fa
ciondolare la nuca «Hai presente quando vai con
papà a comprare le caramelle?
Ecco, noi faremo così. Andremo in questo posto e prenderemo
un bambino.»
Akira
non capisce, non fa domande.
Cade
in un sonno agitato e sogna bambini vestiti come enormi caramelle che
urlano,
chiusi in gabbie di plastica.
Spera
che non prendano i bambini vestiti da Coca cola frizzantine.
Akira
le odia.
«Porca
miseria!»
Si
ridesta quando sua madre rischia di scivolare e avverte freddo quando
la sua
presa gli sfugge.
Li
segue in religioso silenzio su degli scalini ghiacciati e gli pare che
il
negozio che vende bambini sia più simile ad una chiesa che
ad un negozio vero e
proprio. Ha i muri scrostati e un’insegna fatta in legno che
pende sulle loro
teste.
Orfanotrofio
Sacro Cuore,
legge silenziosamente, storcendo il
naso quando vede una suora aprire loro la porta. Sembra un pinguino, ad
Akira
non piacciono i pinguini; sono sempre impettiti e quando scivolano in
acqua
vengono mangiati dalle orche. Almeno, così
c’è scritto nel libro sugli animali
che gli hanno regalato a Natale.
Ci
sono scambi di convenevoli che non segue, troppo impegnato a
crogiolarsi nel
chiacchiericcio che proviene da ogni stanza che si getta sul lungo
corridoio.
Ci sono un mucchio di scarpe e giacconi appesi sugli appendiabiti
all’ingresso,
che si estende per quasi un’intera parete.
Madoka
gli ha ristretto la mano e Akira smette di interessarsi al mondo che lo
circonda.
Ci
sono un sacco di bambini che corrono in giro sotto gli sguardi severi
delle
suore, scappano come topolini che non vogliono farsi prendere dal gatto
e
quando vengono acciuffati, sghignazzano o mettono il broncio.
Akira
corruga la fronte. Non sono vestiti come caramelle.
La
donna in tailleur che li sta accompagnando in questa specie di zoo,
affiancata dal
pinguino, si ferma davanti ad un’altra sala gremita di
bambine che starnazzano, giocano con le bambole o ridono per
sciocchezze. Lui
non le capisce, le femmine. Sono così… Stupide,
fastidiose, sempre a lasciargli
lettere cosparse di brillantini che gli si appiccicano alla divisa. Ma
la cosa
che più odia è essere costretto a giocare con
loro al “Principe azzurro che
salva la bella dal drago”.
A
parte che nessuno tra loro è bella, ma perché
è sempre Koshino quello che
finisce a fare il drago? Lui non vuole ucciderlo col righello e neppure
vuole
che Hiroaki sia il suo prode destriero!
E
poi la bella
ha sempre il brutto vizio di lasciargli viscidi baci sulla
guancia… Che. Schifo.
Si
rende conto di essere rimasto da solo quando la mano guantata torna ad
essere
fredda e della gonna a campana di sua madre non
c’è più traccia, così come
non
ci sono più i mocassini di suo padre, né la lunga
tonaca nera del pinguino.
Inizia
a tremare, lì dentro fa un freddo cane e quando crede di
essere diventato una
caramella anche lui, ecco che la scorge…
«Vai
a giocare con le altre bambine.»
«Non
mi va!»
E
lì che disegna, con la testa china sul foglio e i pastelli
sparsi sul tavolo. Una
cascata di rossi boccoli la incornicia, ricadono oltre il bordo del
tavolo come
stelle filanti. Si morde il labbro inferiore e si pulisce i
polpastrelli
sporchi sulla camicetta bianca, facendo venire una sincope alla suora
che
sorveglia la sala giochi.
«Non
te lo ripeto più: vai a giocare con le altre
bambine.» le intima severa,
scuotendola per una spalla. Quella seguita a disegnare, la ignora,
sembra un
giglio bianco in mezzo ad un mucchio di erbacce, come quelle che sua
mamma
estirpa quando va in giardino.
Al
terzo richiamo inascoltato, le strappa il pastello verde e il quaderno
di mano
per poi dirigersi verso uno schiamazzante gruppo di galline intente a
battibeccare su chi debba essere la Regina
della cucina. La lascia con il broncio e una bambola di pezza
senza un
occhio; le tira i capelli di lana con rabbia prima di scagliarla con
forza a
terra, imbronciandosi.
Akira
mangiucchia l’interno delle guance raccogliendo la bambola
finita vicino ai
suoi piedi, infilandosi in quel covo di vipere non senza un briciolo di
timore.
Alcune si accorgono di lui, parlottano e si danno gomitate prima di
ridacchiare
scioccamente. Vorrebbe che il drago-suora se le pappasse in un sol
boccone,
almeno le orecchie smetterebbero di dolere.
Si
dondola sui piedi quando la raggiunge, ma non lo guarda. Ricorda di
esserci
rimasto male quando posa la bambola sul tavolo e lei nemmeno lo
ringrazia, gli
sorride, gli dice qualcosa.
«Sai
come si dice in questi casi?» la bambina si acciglia, sembra
infastidita dalla
sua presenza «Si dice: grazie. La tua mamma non te
l’ha insegnato?» per tutta
risposta, spinge il giocattolo fino al bordo, lasciandolo cadere.
Gli
volta le spalle e Akira è tentato di lasciarla perdere, ma
poi la sente parlare
ed è come se il pentimento per essersi infilato
lì dentro sia scomparso «Sei
nuovo? Non ti ho mai visto qui.» esala apatica, scrutandolo
da capo a piedi.
Akira
si sente in gabbia, i suoi occhi scuri sono guardinghi e sembrano voler
incenerire i suoi abiti ben messi e le scarpe lucide.
Scuote la nuca «Sono qui con mamma e
papà.»
La
vede allargare gli occhi scuri e che non hanno il suo stesso taglio,
sono un
po’ più rotondi e meno allungati «Oh,
quindi non sei come noi.»
«Come
voi?»
«Sì…
Un orfano. Qui ci mettono i bambini che non hanno più la
mamma e il papà.
Quelli soli.» gli dice spicciola; le gambe corte dondolando
sulla sedia troppo alta.
«Oh,
ma io ce l’ho una mamma e un papà.»
«E
dove sono?»
«Non
lo so. Li ho persi…» alza le spalle
«Dobbiamo comprare
un bambino!» all’epoca non dà peso alla
manciata di parole che getta tra loro e non si cruccia per la piega
malinconica
che assumono i suoi occhi e le sue labbra. Sembra avvilita ma
l’unica cosa
a cui riesce a pensare è che non ha mai visto una bambina
così triste.
Osserva
la sua figurina e si chiede dove sia nascosto il cartellino con il
prezzo. Del
resto, un negozio che vende bambini non è poi
così diverso da un negozio che vende
verdure o articoli sportivi, no? Non c'è nessun codice a
barre sotto la sua frangetta spettinata, però «Che
strano colore…» mormora tirandogli i boccoli,
ricevendo un pizzicotto sulla mano. La
piccola si copre la nuca con entrambe le mani e quando si sente al
sicuro
comincia a pulire la zona in cui le sue dita si sono annidate per un
paio di
secondi «Scusa…» mormora piano,
sentendosi in colpa per neppure lui sa cosa.
Gli
ricorda una di quelle lucertole che mette all’angolo insieme
ai compagni di
scuola, quando si annoiano e non hanno voglia di sbirciare sotto le
gonne delle
compagne.
«Non
toccarli più, mi dà fastidio.» borbotta
stizzita.
«Scusa…
E’ che sono così strani!» ridacchia,
vedendola tranquillizzarsi un po’ «E’ la
prima volta che li vedo di questo colore. Nella mia scuola hanno tutti
i
capelli neri.»
Le
sue dita sottili scivolano fra le onde, si incastrano e il suo naso si
arriccia quando prova a districarle dai nodi. «Mamma
diceva che nessuno può toccarli. Solo lei può
farlo, sono il suo Sole.»
«E
la tua mamma dov’è ora?» glielo chiede
con curiosità e un breve sorriso ad
increspargli le labbra. Non ci vede nulla di male in quella domanda
eppure la
bimba reagisce con freddezza, aggrottando le sopracciglia e
appiattendosi
sempre più sulla sedia, quasi volesse diventare minuscola.
«I
maschi non possono stare qui. Se suora Kong ti scopre,
chiamerà il
Cane randagio.» lo
sussurra con fare
cospiratorio, cambia discorso così repentinamente da
lasciarlo interdetto.
Akira
è tramortito, sa di aver sbagliato ma non sa esattamente per
cosa «Il Cane randagio?»
Lei
annuisce e allarga le braccia mentre le dita tratteggiano una figura
enorme e
dai contorni tremolanti «Viene di notte, mentre stai
dormendo. Ti prende e ti porta via e quando
ha fame…»
«Quando
ha fame…?»
si dimentica della domanda che le aveva posto, è troppo
concentrato sul suo sguardo opaco e la tonalità
cantilenante della sua voce. Indietreggia un poco, trema quando la
sedia della bambina striscia, producendo un suono così
sinistro da fargli vibrare
l’anima.
I
suoi piedi toccano terra e si accorge di quanto sia bassa in confronto
a lui,
che all’età di otto anni è alto quasi
quanto un ragazzino delle medie. Ha dei
lividi e graffi sulle gambe lasciate scoperte perché le
calze sono troppo
larghe e le scivolano fino al polpaccio. Le
sue scarpe rotte fanno scricchiolare il legno mentre gli si
avvicina con
passo leggero e prima che possa spintonarla lontano, questa gli
è ormai ad un
palmo dal naso, sollevata sulle punte dei piedi pur di guardarlo negli
occhi.
«Quando
ha fame, ti prende e ti porta nella sua cantina--»
«E
poi…?»
«E
poi ti mangia, no?»
«Akira…»
gli sfiorano la spalla e l’urlo di terrore gli si mozza in
gola quando vede che
è solo sua madre. Gli sorride placida ma qualcosa non va nel
tremolio nei suoi
occhi. Sembra così stanca... «Che stavi
facendo, si può sapere?»
«Stavo
chiacchierando con lei.» la indica, sua mamma gli abbassa il
braccio.
«Sai
che non si indica, è maleducazione… Ah, ma
guardati. Hai il colletto tutto
spiegazzato» gli aggiusta la camicia, i capelli scuri, gli
bacia la punta del
naso. Lancia uno sguardo verso la bambina, ora in piedi e silenziosa
«Non la
stavi importunando, vero?»
Akira
vorrebbe strapparle quei suoi orribili capelli uno ad uno,
facendogliela pagare
per lo spavento che gli ha fatto prendere, ma sua madre la guarda
incuriosita «E tu come ti chiami?»
La
bimba guarda le loro mani intrecciate e Akira, preso da un moto di
cattiveria
che mai prima d’allora ha provato, le solleva leggermente,
quasi a sottolineare
che lui tornerà a casa con i suoi genitori mentre lei se ne
dovrà stare lì, da
sola, per chissà quanto altro tempo.
Ma
lei abbassa lo sguardo e subito il senso di colpa bussa al suo
minuscolo cuore.
«Shibahime.»
«Shibahime… E' davvero un bel nome, lo
sai?» sua madre sorride un poco prima di guardarlo con
amorevolezza «Coraggio Akira, dobbiamo andare. Saluta la
tua amica.»
«Non
è mia amica!» un pizzicotto dietro la schiena lo
fa sussultare «Ciao…»
piagnucola mogio prima di farsi trascinare via.
Volge
lo sguardo oltre la spalla e l’ultima cosa che vede
è la manina sporca di
pastello di Shibahime che fa su e giù.
In
macchina i suoi sono silenziosi, Madoka guarda fuori dal finestrino e
Kyosuke lo
guarda di tanto in tanto dallo specchietto.
Akira
sente la schiena bruciare lì, dove mamma lo ha pizzicato.
La
bambina dalle stelle filanti rosse diventa uno spettro dei suoi otto
anni,
viene accantonata come un brutto episodio da dimenticare, fino a quando
i suoi
non lo ritrascinano in quel postaccio e lui la rivede; è
sempre sporca e piena di lividi, sempre triste e sola. Gli ricorda una
di quelle orribili bambole di porcellana che nonna Izumi ha regalato a
Madoka per non ricorda quale festività -mamma la odia, prega
sempre che si rompa durante le pulizie-. Ed è in uno di
quegli incontri fugaci, in cui c'è solo uno sventolio di
mani tra loro, che comincia a pensare a come sarebbe bello tirarle i
capelli prima di andare a dormire, lanciarle
contro la palla da basket o costringerla a mangiare anche le sue
carote, perché
proprio non le sopporta.
Accade
così che un giorno si intrufola in cucina tutto sudato e
sporco di polvere,
dopo una partita vinta contro Koshino e per poco non fa venire un
infarto a
Madoka, che ha appena finito di pulire il pavimento.
«Mamma?»
«Sì,
tesoro?» è distratta, gli toglie la felpa dei Lakers con cipiglio severo, tutta
corrucciata.
E
le sorride, mostrando la fila di denti bianchi.
«Al
posto di un fratellino, posso avere una sorellina?»
Akira
è andato al Sacro Cuore altre cinque volte. Alla quinta
è uscito trascinando
Shibahime per un polso mentre lei tenta di azzannargli la mano.
Suo
padre gli dice di non farle male e sua madre ride come solo lei sa fare.
Si
accorge che in quattro non si sta così male.
♠
Note
noiose finali
(d'obbligo):
E
questo primo “capitolo” è andato.
Mi sono documentata sulle adozioni ma il tema
è vario e ostico, perciò l’ho molto
edulcorato e affrontato velatamente, se
così si può dire. Ho cercato di metterci tutta la
sensibilità possibile, se
dovesse darvi fastidio il modo in cui è stato trattato vi
prego di farmelo
notare. Ok che è una fan fiction ma, beh, non vorrei mancare
di rispetto a
nessuno, ecco.
Ringrazio di cuore chi non ha premuto subito
la X rossa o chi deciderà di dare un minimo di fiducia a
questa storia. Qualsiasi
critica o nota positiva è ben accetta perciò se
vi andasse di spendere cinque
minuti del vostro tempo, sappiate che ne sarei felicissima.
Alla
prossima!
HeavenIsInYourEyes
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