Comatose
Call me, wake me, embrace
me.
<< Non c’è
sangue >>
Sarebbe forse meglio, se ce ne
fosse?
Sarebbe forse più semplice, se lui fosse ritornato coperto
di sangue, privo di vita?
Forse, in quel caso, l’avrei
accettato. Me ne sarei fatta una ragione.
<< la speranza finirà per uccidermi. >>
***
Negli
oscuri meandri di quel periodo cosi terribilmente buio, ricordavo con estrema chiarezza, una chiarezza quasi
impressionante, quei giorni lontani in cui [se possibile, e se mai l’avesse avuto] la mia vita ancora pareva possedere un senso.
Erano giorni felici, quelli; giorni che passavano
senza lasciare traccia dietro di se, quasi scivolavano
via, accompagnati da quella lieve sensazione di benessere e felicità che
pareva sollevarti qualche centimetro più in alto del suolo e trascinarti via,
con se, fino al cielo. Erano giorni
in cui [lo sapevo, avrei dovuto saperlo che non
sarebbe durato] quasi mi sembrava di rivivere il periodo passato in compagnia
di Kaien-dono.
Tutto mi
appariva limpido, sereno, privo d’incertezze o imperfezioni; si rideva, si
stava in compagnia degli amici, ci si divertiva. Ogni tanto, quasi come un ombra gettata all’improvviso ad oscurare quel piccolo
universo perfetto, arrivava l’ordine di una missione. Si trattava perlopiù di hollow, giri di ronda sulla terra, o, in qualche rara ed
isolata occasione, un Menos.
Ed
ecco che si partiva, si stava via qualche giorno, e poi si ritornava. [si ritornava. sempre.] Senza neppure salutarsi o dirsi
addio, perdonare qualche piccolo litigio, o dirsi quanto bene ci si voleva.
Tanto si ritornava. Sempre.
Questo era
ciò in cui credevamo.
« Vai di già, Ichigo?. »
Lui, udita la mia voce, si voltò esibendo un lieve sorrisetto
seccato. «Prima vado, prima torno.»
Involontariamente sorrisi anch’io. [era cosi
facile sorridere, a quei tempi. Non doleva cosi tanto la mascella, nel tenere
forzatamente le labbra inarcate. Non ti si stringeva cosi tanto il cuore, nel
fingere che tutto andasse bene].
Quel giorno indossavo come sempre la mia divisa da shinigami
ed in mano stringevo l’elsa di Sode no Shirayuki, il cui nastro risaltava candido sulla stoffa
scura dell’hakama. Speravo che i tagli evidenti
provocatomi durante l’allenamento non si notassero
eccessivamente, ma, ovviamente, a lui non sfuggiva nulla; quasi come se, fino a quell’istante,
non avesse fatto altro che osservarmi.
Mi sorrise, ma fu quasi un ghigno. « Ti alleni ancora?.
»
« Ovviamente. Perché me lo chiedi?. »
Mi squadrò per un attimo, soffermandosi sui graffi evidenti sui palmi
delle mani. « Nulla. Stavo solo pensando che non dureresti
un secondo, contro di me ». Con naturalezza fece roteare
leggermente l’avambraccio destro all’indietro, come per saggiarne la
sensibilità, poi portò rapidamente la mano a stringere l’elsa di Zangetsu. Una tale velocità, probabilmente, sarebbe bastata
a segnalarmi l’esattezza delle sue parole, eppure –com’era ovvio- lo contraddissi.
Irritata mi sporsi verso di lui. Lo tirai per il bavero della veste,
costringendolo a chinarsi alla mia altezza. « Voglio proprio vedere, moccioso.
Sfidiamoci qui, adesso! ».
Fece per tirare fuori la spada dal fodero ma, come colto da un’ urgenza improvvisa, rinunciò. « Devo andare. » Cavolo. Da quando era cosi
ligio al dovere?. Prima che io potessi protestare e senza neppure
rivolgermi uno sguardo si allontanò, Zangetsu in
spalla, in direzione del portale.
« E quando… »
« Quando sarò tornato.
Allenati e poi, al mio ritorno, combatteremo » si voltò, sul suo viso c’era di
nuovo quella specie di ghigno caratteristico. « diciamo
che … è una promessa».
E io non potei far altro che
restare a guardare, mentre mi salutava agitando il braccio e scompariva rapido
attraverso il senkai.
« Buon giorno a te, Hanatarou. »
« Oh, b-buongiorno a lei, Rukia-san! ».
Ennesimo dannatissimo giorno, ennesimo saluto
vuoto. Ennesima domanda pronunciata con voce smorzata, come ogni giorno,
ennesima risposta sempre, maledettissimamente
uguale.
« Come sta? »
Attimo di esitazione. Sospiro [vuoto.] «Come
ieri. Mi dispiace, Rukia-san. »
« Non scusarti, Hanatarou. Tu stai facendo il
possibile. »
« C-certo. » Tornò alla propria occupazione,
ma non era concentrato quanto prima; mi rivolgeva un occhiata
furtiva, di tanto in tanto, come se mi controllasse.
Stavolta fui io a sospirare. « Avanti, cosa c’è? ».
Saltò su, imbarazzato, dopodichè chinò il capo
e prese a fissarsi le mani. « Nulla, Rukia-san. Mi
domandavo solo… lei sta bene?. »
Stavo bene?. Ci meditai un attimo, ma decisi
che non fosse il caso di inquietarlo.
« Certo, Hanatarou. Sto benissmo
».
Suppure fosse palese il suo scetticismo alle mie parole, Yamada annuì e si piegò sul corpo addormentato che aveva di
fronte, circondandolo poi con una cupola di kidou; io
mossi qualche passo incerto verso di lui e per un po’ –attimi che mi parvero
eterni- rimasi ad osservare in silenzio quella
persona, i suoi occhi serrati ormai da troppo tempo.
Scrutai con attenzione il suo viso [lo stesso che in quel giorno tanto
lontano da sembrare appartenuto ad una vita precedente mi aveva mostrato quel
suo ghigno familiare] rischiarato ora dalla luce verdastra del Kidou, disteso in un espressione neutra,
quasi come fosse sprofondato in un sonno profondo e sereno.
Eppure lui non stava dormendo; avevo avuto fin troppo, dannatissimo tempo per
comprendere ed accettare questa semplice verità.
« Ehm, R-Rukia-san,
io avrei finito. »
Mi accorsi di essermi incantata solo quando la vocetta tremante di Hanatarou mi
riportò bruscamente alla realtà. Esausto si passò una mano sulla fronte
imperlata di sudore, dopodichè, alzati gli occhi verso di me, restò a fissarmi in attesa di una risposta; fu in quel momento che, nel
vederlo cosi affaticato, capì: lui, a modo suo, ce la stava mettendo tutta;
perchè proprio come me desiderava che tornasse.
« Perfetto, Hanatarou. » mi sforzai di
rivolgergli un sorriso che non apparisse vuoto. « Grazie per tutto ciò che fai ». A quelle parole il suo viso si illuminò e le gote pallide si tinsero di rosso, riuscendo
a strapparmi l’ombra di un sorriso; era assurdamente facile renderlo felice.
Mi sforzai di ricordare quale fosse il sapore
della felicità. Dolce? Fresco, effervescente?. Io
l’avevo mai provato? Ero convinta di si, ma non
riuscii a capire quando. Anni prima? Secoli prima?
O forse, in una vita precedente
di cui conservavo solo ricordi sbiaditi?
Persa nel turbinio di quei pensieri, riuscì a percepire vagamente la
presenza di Hanatarou alle mie spalle; se ne stava
aggrappato allo stipite della porta, incerto, meditando se parlarmi o no.
« R-Rukia-san…, » la
sua voce tremante mi giunse in un sussurro. Strinse di più le mani sul legno,
ispirò a fondo per farsi coraggio.
« Lei sta davvero bene, Rukia-san? ».
Per un attimo rimasi immobile, il mio sguardo puntato nel suo.
Improvvisamente mi guardava con occhi severi, insoliti, quasi accusatori.
Un sospiro. « Certo, Hanatarou, tranquillo. Va
tutto bene ». Rincuorato, la sua maschera dura si sciolse in un sorriso
luminoso: mi rivolse un piccolo inchino, per poi scivolare rapido fuori dalla stanza.
Va tutto
bene.
Quando fui sicura che se ne fosse
andato, che non potesse assolutamente sentirmi, portai entrambe le mani alla
bocca nel tentativo di non vomitare; quante volte, ormai, l’avevo ripetuto? Va tutto bene. Va tutto bene.
Quelle parole, da sole, parevano riuscire in qualche modo a rassicurare
le persone. Come se un va tutto bene avesse potuto cambiare le
cose.
Come se lui avesse potuto svegliarsi, semplicemente con un “Va tutto
bene”.
Lo ricordavo, oh, eccome se lo ricordavo… quando
erano gli altri a dirlo a me, va tutto bene. Ricordavo
la notte di pioggia appartenuta ad una vita precedente, ricordavo la
voce soffocata di Kaien-dono, in punto di morte,
sussurrare “Va tutto bene, Kuchiki”. Ricordavo Renji, durante la battaglia invernale, rassicurarmi sulle
sue ferite da cui sgorgavano fiotti di sangue vermiglio. “Va tutto bene, Rukia, tranquilla”. Ricordavo come Ichigo, prima di andare
in battaglia, mi avesse sorriso in quel modo che
amavo, annunciando solenne “Andrà tutto bene”.
Eppure
Kaien-dono era morto, Renji
non si era ancora del tutto ripreso da quelle ferite, e Ichigo… soffocai un altro conato di vomito.
Ichigo era vivo, dopotutto.
Era questo ad importare, no? Che non fosse morto. Quando muori è tutto finito, se sei vivo, invece, puoi
ancora…
Involontariamente, strinsi i pugni tanto da conficcarmi le unghie nella
pelle. Lui sarebbe
tornato, me l’aveva promesso. Mi aveva promesso che avremmo
combattuto… e Ichigo Kurosaki
manteneva sempre le sue promesse. Senza accorgermene, ripensando alla sue parole le labbra mi si piegarono in un sorriso:
impercettibile, certo, ma era pur sempre un inizio.
Dovevo crederci.
Sospirai una, più volte, dopodichè mi avvicinai
al suo letto e, come ogni giorno, presi posto sul minuscolo sgabello sistemato
alla sua destra. Controllai la mia espressione tentando di soffocare ogni
traccia di amarezza e, con la mascella che doleva per
lo sforzo, gli rivolsi un sorriso.
« Ciao, Ichigo. Come ti senti oggi?. Hanatarou sta lavorando davvero tanto per te, sai, credo
che dovremmo ringraziarlo. E… ah, già ». Mi sforzai di
apparire entusiasta. « Ieri Inoue mi ha detto di
salutarti da parte sua. Sai, è molto impegnata, ma mi ha promesso di passare da
te, un giorno… quindi non pensare che i tuoi amici ti abbiano dimenticato, eh.! ». Moderai il tono della voce, sperando ardentemente che
non mi tradisse. Che lui non capisse che
non era quello, il motivo per cui Inoue
non era mai passata; [che non capisse che lei non era forte quanto me e che
proprio non ci riusciva, a vederlo cosi.]
« Sai… mi sto allenando tantissimo in questi mesi. Ricordi la promessa
che mi facesti prima di andare? Ecco, sono intenzionata a vincere. Perciò, caro Kurosaki, farai
meglio ad allenarti anche tu, quando sarai tornato, » risi. « o ho paura che
non dureresti un secondo, contro di me !». La mia voce
rimbombò come il tonfo di un sassolino gettato nel silenzio. Fu strano,
assurdamente strano, vederlo restare immobile a quelle
parole. Una parte minuscola di me aveva sperato ingenuamente che avrebbe
reagito, che mi avrebbe strillato “Ah, si? Sfidiamoci subito, allora!”.
A quel punto, cominciai a temere seriamente che il mio cuore non avrebbe
retto all’ennesima delusione. Che avrebbe finito per frantumarsi, prima o poi, temevo che avrei
urlato, che sarei impazzita.
Eppure lui sarebbe tornato, avrebbe mantenuto la
promessa, avremmo combattuto lanciandoci insulti scherzosi come accadeva un
tempo, e…
E io sarei morta, se questo non
fosse accaduto presto.
Sarebbe stata la speranza, ad uccidermi?.
O forse sarebbe stato il passare dei mesi che, lenti e inesorabili, si
ammassavano sulle mie spalle deboli?.
Quanto tempo avrei resistito ancora, prima di
cedere?.
Forse qualche
mese, forse un anno. O forse qualche istante.
« E’ gia ora di andare, » sospirai,
sollevandomi dallo sgabello. Mi avvicinai, cauta, gli sfiorai la guancia con la
punta delle dita; un gesto che solo qualche mese prima mi sarebbe parso
impensabile, ma che in quella situazione mi appariva stranamente necessario, come fosse un unico modo per
stabilire un contatto, per dirgli “Io sono qui”, imprimergli il mio calore fin
dentro le ossa e sperare che lo percepisse.
Con dolcezza seguì il contorno del suo viso fino alla fronte, immersi le
dita fra i capelli e mi meravigliai di quanto fossero
ancora morbidi e lisci dopo tanti mesi. Avevano proprio un buon profumo: un
odore familiare che ogni giorno, quando ancora abitavo nel suo armadio,
ispiravo a pieni polmoni pensando che, se il concetto di vicinanza avesse avuto un profumo, sarebbe stato certamente quello.
Con prudenza avvicinai di più il viso per udire il suono lieve e
rassicurante dei suoi respiri che, seppur lenti, erano prova
evidente che il suo cuore battesse ancora.
A quel punto, cosi vicina a lui, mi pareva impossibile trattenere il
groppo che mi stringeva la gola, perciò evitai di meravigliarmi
quando la voce mi uscii vagamente strozzata e scossa dal pianto.
« Quanto torni? ». Fu quasi un sussurro. « non
sai quanto mi manchi, Ichigo…per favore. Torna presto.
»
Avrei mai smesso di sperare?. La risposta mi
giunse immediata, ma con una chiarezza impressionante.
No, mai.
« Renji! ».
Urlando e sbracciando per farmi notare, corsi incontro
al mio migliore amico che se ne stava placidamente seduto sotto l’ombra
refrigerante di un grosso albero.
« Uff, finalmente, » sbuffai, quando lo raggiunsi,
piegata sulle ginocchia per riprendere fiato. « Eri qui, allora. Ho chiesto al
Capitano Unohana, mi ha detto
che avevi ricevuto il permesso di uscire un po’… ».
« Era pure ora, sai. Sono ferito, mica invalido! ». Rise, e io con lui.
« Quando ti dimetteranno? ».
La sua espressione si fece scocciata. « Boh.
Dicono di volermi impedire
di fare qualcosa di pericoloso prima di essere completamente guarito. In tempi
di pace, mi chiedo, cosa diamine potrebbe accadermi! ».
Sussultai, e lui se ne accorse. Abbassò il capo, amareggiato, i ciuffi rossi gli adombrarono
gli occhi.
« scusa, » sussurrò « Scusa davvero, Rukia.
Sono stato un idiota ».
Sospirai. Un sospiro rassegnato, amaro. « Fa niente. Cerca solo di star
bene, almeno tu ». Mi pentii immediatamente del tono accusatorio con cui lo
dissi. Quando alzai gli occhi per scusarmi, lo trovai
che mi fissava. Lo sguardo mesto, come mai l’avevo visto prima d’ora; pareva
davvero un cane bastonato.
« lui…, » biascicò, confusamente. « Ichigo
come sta? ».
Mi voltai. Non volevo che vedesse i miei occhi diventare lucidi.
« come sempre, » riuscii a
dire, soffocando il groppo che mi stringeva la gola.
Alle mie spalle sentii un gemito soffocato, che capii essere la voce di Renji. « Quant’è? ». Era poco più di un sussurro, ma riuscii a
percepire tutto il dolore intriso in esso.
« Sei mesi ».
E questo era tutto.
Rimanemmo in silenzio, come tentando di assimilare un tempo cosi lungo
che non credevamo di avere realmente vissuto.
I giorni, i mesi, si susseguivano tutti cosi dannatamente uguali… come
facevamo a distinguerli, prima che la nostra vita finisse?.
[Perché era finita. Stavamo forse vivendo, in
quel momento?.]
Incapaci di dire altro perdurammo in quel
silenzio colmo di dolore; io istintivamente mi aggrappai a lui con tutte le mie
forze, artigliando la stoffa kimono come a trattenerlo. [non
mi ci volle molto per capire quanto desiderassi aver fatto lo stesso con
Ichigo, quel giorno, avergli impedito di andare]. Dopotutto, era tutta…
« E’ tutta colpa mia. » sussurrò Renji, quasi
in sincrono coi miei pensieri.
Per un attimo rimasi interdetta, tentando di capire a cosa si riferisse,
poi sbuffai, irritata. « per favore, non ricominciare con la storia “se fossi
andato insieme a lui”. Ti prego, Renji.
Eri ferito: non potevi. Punto. »
Annuì, senza dire altro. Si sbagliava, Dio, se si sbagliava…
era mia, unicamente mia, la colpa.
C’ero io li. Io avrei dovuto
corrergli incontro, dirgli “non voglio che tu vada”, costringerlo a restare… però infondo, chi avrebbe potuto prevedere un
finale del genere?.
Scossi il capo. Non era una giustificazione.
[Dopotutto, anche Kaien-dono…]. Restai impietrita, nel ricordare come quella
notte lontana anche lui se ne fosse andato, cosi,
senza che io riuscissi a fermarlo. Aveva resistito, nonostante la spada
piantata in petto e il sangue che gli riempiva i polmoni, solamente per dirmi
“Mi dispiace, Kuchiki.
Grazie. Ti lascio il mio cuore”.
Soffocai a stento un altro conato di vomito. Mi costrinsi a pensare ad
altro, almeno per non allarmare Renji…
non mi avrebbe aiutata scoppiare a piangere all’improvviso.
« Come vanno le ferite?, » domandai,
improvvisamente in colpa per non averglielo ancora chiesto, presa com’ero dai
miei problemi.
La sua espressione si addolcì –probabilmente aveva intuito che stessi per cadere in pezzi-. « Meglio, molto meglio. Mi
danno solo un po’ di noia quando sto sdraiato. »
« Sono…» contai mentalmente. « almeno otto, nove mesi
che sei in convalescenza. Era anche ora che guarissi. »
« Già, ma ricordi anche tu com’ero ridotto dopo la guerra, no? E’ gia un
miracolo che abbia ancora due braccia e due gambe. »
Fui presa da un impeto di panico, nel ricordare l’altro periodo buio
della mia vita; quei giorni infernali che seguirono alla fine della guerra,
colmi di panico per la sorte di coloro che amavo.
« Temevo che saresti morto, » sussurrai, col cuore in gola. « le tue
condizioni erano disperate. »
“Per fortuna,” mi dissi “c’era Ichigo”. Ricordavo alla perfezione come lui fosse stato la mia spalla
su cui piangere, il mio bastone di conforto, durante quei giorni bui. E ricordai perché adesso
fosse mio dovere assisterlo con tutte le mie energie, non lasciarlo solo un
attimo, badare a lui come lui aveva badato a me.
Se anche Ichigo non si
fosse mai svegliato, io… avrei continuato ad andare da lui, giorno dopo giorno,
fino alla mia morte.
Glielo dovevo.
« Vado, » sussurrai, alzandomi di scatto. « chiamami, se mai avessi bisogno di un po’ di compagnia. »
Lui sospirò, sarcastico. « Lo stesso vale per te, scricciolo. »
Trascorsi il mese successivo impiegando tutte le mie energie
nell’assistere Ichigo.
Non lo lasciavo solo neppure un attimo… trascurai
addirittura gli allenamenti. La sede della quarta brigata era –in un certo
senso- divenuta casa mia; tutti si erano abituati, ormai, a vedermi entrare ed
uscire con naturalezza e a qualunque ora del giorno.
Per alcuni versi fu un mese molto tranquillo, stare accanto ad Ichigo mi
rilassava; probabilmente, non sarei riuscita ad allontanarmi da lui per più di
qualche ora. Volevo proteggerlo… e soprattutto volevo
esserci, quando avrebbe aperto gli occhi.
[Perché li avrebbe aperti. Ne ero
certa.]
Il giorno del suo compleanno, il quindici di quel Luglio terribilmente
torrido, gli portai una foto della sua famiglia.
« Me l’hanno data loro, è per te. » sussurrai.
« non preoccuparti, non ho detto assolutamente nulla sulle tue condizioni. Solo raccontato, come sempre, che sei molto impegnato, anche se non
credo che se la berranno ancora a lungo. »
Sistemai con cura la foto sul comodino, appoggiata alla lampada in modo
che stesse in piedi.
« Buon compleanno, Ichigo. Vorrei tanto che tu fossi qui, per
festeggiare insieme ». Presi la sua mano grande e fredda fra le mie, tentando
inutilmente di riscaldarla. [La giornata era torrida,
eppure]. Poco più tardi gli cantai “Buon Compleanno”, a bassa voce, come fosse una ninna-nanna.
Che stupida, pensai, cantargli una ninna-nanna quando
desideravo che si svegliasse.
Comunque, fu più
o meno cosi che io e Ichigo trascorremmo il suo diciassettesimo compleanno.
Ogni tanto, capitava che qualcuno venisse a farci visita: Renji, il tenente Kusajishi, Ikkaku, Ishida, una volta
addirittura Inoue e, ovviamente, Hanatarou,
che non mancava di tentare [inutilmente, ma preferivo non dirglielo] di
“curare” Ichigo. [esisteva una cura?.]
Un cambiamento alla mia routine ormai collaudata avvenne
quando il Capitano Ukitake comparve nella
minuscola stanzetta che ormai mi era familiare.
Era sorridente, come sempre, con quell’aria un
po’ mesta che lo contrassegnava. “Si sieda, prego” gli avevo suggerito,
porgendogli una sedia. Chiacchierammo del più e del meno per un po’, fingendo
quasi che il ragazzo addormentato alle nostre spalle non si trovasse
all’interno della stanza.
Poi, alll’improvviso, il Capitano Ukitake rivolse lo sguardo su di lui.
« E, dimmi… come sta Ichigo-kun?
».
Un sospiro, la mia solita reazione a quella domanda. « Come sempre, Ukitake-taicho. »
« Mi dispiace, » sussurrò lui, piano.
« anche a me, » risposi di riflesso.
Rimanemmo per qualche attimo in un silenzio imbarazzato; il Capitano Ukitake si tormentava le mani in grembo, lanciandomi ogni
tanto occhiate furtive… lo stesso comportamento di Hanatarou qualche mese prima, perciò capii.
« Deve dirmi qualcosa, Capitano? ».
Lui distolse lo sguardo per un attimo, in tensione,
poi annuì piano. Quando lo riportò su di me, i sui
occhi non erano più quelli di un Capitano delle tredici Gotei:
erano quelli di un padre.
« Kuchiki… ascolta. Vedo che ti stai dando
davvero molto da fare per Ichigo-kun, e ne sono
felice. Però, vedi… ». Restai in
attesa. Però?. Il Capitano, ansioso,
fece qualche respiro. « però, Kuchiki,
credo che dovresti distrarti. Non ti fa bene… prendertela cosi a cuore.
Sei… come ossessionata, Kuchiki ». Quasi
non prestai attenzione al resto della frase. I miei occhi si erano
offuscati, all’improvviso; lo fissavo in volto, senza davvero capire. Voleva…
voleva che mi allontanassi da Ichigo?.
« Vedi, Kuchiki, in questo
periodo stai trascurando parecchio i tuoi doveri alla brigata. Per
carità, » si affrettò a giustificarsi. « non è mica questo il problema. E’ solo
che… mi preoccupi, Kuchiki. Forse, tornando a
lavorare, riusciresti a … distrarti un pò ».
Pronunciò le ultime parole in un soffio, quasi volesse
togliersi al più presto quel peso dal cuore. Mi fissò, preoccupato, mentre mi
dedicavo ad analizzare ciò che aveva detto, trovarvi un senso. Mi stava chiedendo di… abbandonare
Ichigo, -al solo pensiero sentii la testa girare pericolosamente-,
lasciarlo solo?
« Andiamo a parlarne fuori, » suggerii. « Non voglio che… non voglio che lui senta. » Ukitake-taicho
mi guardò come fossi matta, ed in effetti lo ero. Ero
impazzita, decisamente.
A passi strascicati ci dirigemmo fuori dalla
stanza; mi chiusi la porta alle spalle, con delicatezza, lanciando un ultima
occhiata all’interno. Il Capitano mi guardava preoccupato.
« Kuchiki…, » cominciò, ma lo interruppi.
« Ukitake-taicho, mi dispiace, non posso
lasciare Ichigo da solo. Vede, si sentirebbe triste, e
poi… ». Sorrisi; un sorriso inquietante, associato alla mia
espressione. « e poi, non vorrei che lui si svegliasse
quando io non ci sono ».
A quelle parole il viso del Capitano si corrugò, facendolo apparire più
anziano di quanto non fosse. Nel suo sguardo –improvvisamente vuoto- vidi la
morte.
« Kuchiki, tu…, » sussurrò, la voce piatta,
grigia. « tu speri ancora che lui si svegli? ». Lo disse con voce sofferente,
la stessa che avrebbe usato se mi avesse detto “stai morendo”. In quel momento
non capii la sua sofferenza. Non capii che per lui, che mi considerava come una
figlia, doveva essere davvero troppo vedermi
in quello stato, rincorrere un fantasma, assistere un morto –ricacciai indietro quella parola-. Ichigo era vivo.
Rimasi immobile, a fissare il vuoto, finchè la
voce di Ukitake-taicho non
mi scosse. Stava parlando… mi sforzai di ascoltare.
« Kuchiki, devi provare a staccare. Allenati,
vieni alla brigata, partecipa a qualche missione di routine… qualsiasi cosa, ma falla, per favore! Non restare qui a morire insieme
a lui. Ichigo-kun non…
avrebbe voluto ». Quelle parole, in qualche modo, mi smossero.
Le rivisitai una per una, con attenzione. Morire insieme a lui. Non so come, ma
nella mia follia mi parve una bella prospettiva… tranne un solo, essenziale
particolare. Lui non era morto. Non ancora, almeno.
« Kuchiki… ».
Scossi il capo, decisa. « No, Capitano. Lui è vivo. E
si sveglierà, anche se non so quando… ». Alzai gli occhi, incontrando quelli di Ukitake-taicho. Erano lucidi.
« Per favore, Rukia, » sussurrò. Rimasi
sorpresa: prima d’ora non mi aveva mai chiamata per nome. « per favore. La
speranza finirà per ucciderti ».
Quelle parole, probabilmente, sono l’ultima
cosa che ascoltai con razionalità. Ricordo poi che cominciai a piangere… e
ricordo di come mi stupii di riuscire di nuovo a
farlo; fino a quel momento, per quanto la mia voce fosse rotta dai singhiozzi,
per quanto il groppo in gola fosse ingombrante… non era mai scesa neppure una
lacrima. Ricordo Ukitake-taicho, nel tentativo di
calmarmi, ricordo che cominciai a urlare…
« Kuchiki, che hai? Per favore, calmati! ». La
voce preoccupata del Capitano mi arrivava smorzata, offuscata, cosi come ogni
altra cosa che stesse accadendo attorno a me. Mi ero
rannicchiata su me stessa, la testa premuta sulle ginocchia, strette a loro volta
dalle mie piccole braccia.
« Non posso, non posso… », biascicai, mentre le
lacrime mi entravano in bocca. Sentire il loro sapore salato sulla lingua, dopo
tanti mesi, fu quasi un sollievo. « non posso lasciarlo, non
posso », continuavo a ripetere. « l’ho già lasciato andare una volta… se
lo lasciassi di nuovo, io… ». Sollevai
gli occhi, lucidi e gonfi di lacrime, i miei sussurri si trasformarono
in urla. « Anche Kaien-dono…
ho lasciato andare anche lui! Non l’ho fermato! E’ colpa mia… se solo io l’avessi… Non posso, io… Non posso lasciare morire anche
Ichigo! ». Lo sguardo di Ukitake,
improvvisamente, si fece compassionevole. Forse accadde perché nominai Kaien-dono… o forse, riuscii in qualche modo a fargli
comprendere le mie ragioni. A poco a
poco le mie urla rotte dai singhiozzi si calmarono, e caddi in una sorta di incoscienza. Riuscii ad avvertire la stretta di due
braccia forti e un profumo familiare invadermi le narici. « Ci penso io, la lasci a me » annunciò una voce roca,
conosciuta, che immediatamente mi fece sentire al sicuro.
E, beandomi di quella serenità
improvvisa, crollai in un sonno profondo.
Ripresi conoscenza… non so dire esattamente quante ore dopo. Non
ricordavo nulla della mia scenata, ne di ciò che
avessi detto, o fatto: conservavo l’immagine della morte nello sguardo di Ukitake-taicho, la sensazione delle braccia forti che mi
stringevano, lo strusciare della stoffa calda del kimono sulla pelle…
istintivamente, sbarrai gli occhi. Inizialmente mi apparvero
solo mille sagome sfocate... misi a fuoco, con fatica. Sentivo gli occhi
arrossati e appiccicosi, le guance in fiamme, la gola secca. Quando
l’ambiente che mi circondava fu apparso –era un qualunque ambulatorio della
quarta brigata- mi sforzai di ricordare cosa fosse accaduto. Il Capitano Ukitake era venuto a trovarmi, mi aveva
consigliato di lasciare per un po’ Ichi…
« Ichigo! », urlai, colta da un’urgenza improvvisa. Dov’era?. Si era forse svegliato, mente io dormivo?.
Qualcosa si mosse dietro di me, facendomi sobbalzare. Mi voltai, ansiosa, e… tutto mi si sciolse dentro. D’istinto, mi gettai
fra le braccia dello shinigami che mi stava di
fronte, tentando di trattenere le lacrime che minacciavano di fuoriuscire.
« Renji, » singhiozzai, premendo il viso
contro il suo petto. « che cosa… dovrei fare, ora?… ».
Mi concentrai sul suo respiro calmo e regolare, sul battito costante del suo
cuore, tentando in qualche di calmarmi. Lui rimase in silenzio, ad accarezzarmi
la schiena come fossi una bambina piccola, sussurrandomi ogni tanto di stare
calma; fu cosi che feci.
Presi a respirare più lentamente, scossa dai singhiozzi, le mani strette
attorno al petto di Renji. Lui continuava a
sussurrarmi qualcosa
come “E’ tutto a posto”, “piangi, ti fa bene”, ogni volta che percepiva il mio
respiro farsi irregolare.
Bastava il suono roco e familiare della sua voce a calmarmi. In quel
momento istintivamente pensai ad Ichigo, sforzai il cervello nel tentativo di
ripescare il suo volto, i momenti in cui mi parlava, dal pozzo dei miei
ricordi… che immensa tristezza, rendermi conto di aver dimenticato il suono
della sua voce.
Ci provai ancora, ma fu del tutto inutile: Il suo volto, l’espressione
accigliata e i capelli arancioni mi comparivano
davanti, vividi come non mai… ma era un’ immagine prova
di rumori; la sua bocca, sorridente, articolava le sillabe del mio nome senza
però emettere alcun suono.
Fui presa da una tristezza enorme, un dolore più grande e più sordo di quello
che avevo provato nel corso degli ultimi mesi; probabilmente, se non ci fosse
stato Renji a tenermi insieme, sarei caduta in pezzi.
« Ren…ji? »
sussurrai, ma temetti di non aver emesso alcun suono.
« dimmi ». Sospirai di sollievo. Come avrei fatto senza di lui?.
« forse il Capitano ha ragione, sai. » la mia voce era atona, sfiancata
dal lungo pianto. « devo prendermi una pausa. Sto impazzendo ».
Lo sentii sbuffare, ma non capii se di sollievo o rassegnazione. « Fa
come credi ».
« tu cosa mi consiglieresti? ».
Alzai lo sguardo verso di lui. Sorrise, un ombra
di malinconia che inizialmente non capii gli attraversò il viso. « E’
…l’affetto » sussurrò, piano. Nonostante chinasse il capo,
notai il lieve luccichio nei suoi occhi. « anche se te
ne vai, ciò che conta davvero è il tuo affetto per lui ».
Come avrei potuto dargli torto?
Istintivamente l’abbracciai, tentando di alleviare lo spesso strato di
malinconia che ricopriva entrambi i nostri cuori: spezzati, distrutti,
frantumati, ciò che bramavamo non era altro che un briciolo d’amore… lo stesso
che, impossibile, irrealizzabile, ci aveva lentamente annientati.
Nel caso di Renji, l’amore per me. Nel mio caso quell’amore
bruciante, assoluto, verso il ragazzo dalla chioma arancione che, ignaro,
perpetuava nel suo interminabile sonno.
« La vita continua, » mi rassicurò Ukitake-taicho,
la mattina prima che partissi in missione, mentre mi congedavo da lui e dai
miei pochi amici rimasti. « Fatti coraggio, Kuchiki. Anche questa passerà, vedrai ».
Gli sussurrai un rapido “grazie”, prima di dirigermi verso Renji. Se ne stava un po’ in disparte, gli occhi bassi e le
braccia incrociate al petto. Mi schiarì la gola. « Renji, »
mormorai. Sollevò lo sguardo su di me, inquieto, mentre stringevo le nocche
fino a farle divenire bianche. Raccolsi tutto il fiato che avevo –abituata a
sussurrare com’ero, temevo di aver dimenticato come parlare in tono normale. « Renji, » ripetei nuovamente il suo nome, gli occhi lucidi e
le mie mani a stringere le sue, quasi lo implorai. « Non lascerai che lui rimanga solo, vero? ».
Era l’unica cosa a preoccuparmi. « gli sarai vicino, vero? ». Lo fissai negli
occhi, implorante, pregando che capisse. Lo vidi sospirare. Sul suo viso prima
inespressivo spuntò un ghignetto irritante, di quelli
che mi rivolgeva da bambino, mentre con una mano mi scombinò i capelli già
disordinati a causa del vento.
« conta su di me ».
Cosi, oppressa dal
senso di colpa che non smetteva di usare il mio cuore come un punching-ball, mi diressi verso la direzione indicatomi.
“Un lavoro da nulla”, aveva affermato il Capitano Ukitake,
per tranquillizzarmi. “Un hollow avvistato nei pressi
del Rukongai Ovest, distretto trentesimo. Ti ci mando solo per distrarti, è un lavoretto da studenti
dell’accademia”.
Facile, quindi. Sarei tornata in fretta, prima che Ichigo si svegliasse,
prim’ancora di accorgersi della mia assenza; credendo
fermamente in ciò, accelerai il passo.
Ricevetti la notizia quattro giorni dopo, al mio ritorno.
Ero entusiasta per il successo della missione, ma anche impaziente…
terribilmente impaziente di far ritorno nella minuscola stanzetta che da sette
mesi era la mia casa, impaziente di sedermi nuovamente accanto ad Ichigo e
rivedere il suo viso, parlargli, sfiorargli piano i capelli prima di andarmene ed
inebriarmi del suo profumo familiare; ero ansiosa di tornare alla normalità-
quella normalità fasulla fatta di sorrisi tirati, singhiozzi soffocati nella
notte e frasi costruite-, ma pur sempre la quotidianità della mia vita.
La desideravo, e stavo correndo a riprendermela.
Mi diressi svelta, quasi volai verso la sede della quarta brigata,
sforzandomi di non travolgere gli ignari shinigami
incrociati lungo il tragitto e domandandomi, intanto, se il Capitano mi avrebbe
perdonata per quel piccolo ritardo nel consegnare il
rapporto della missione; c’era qualcosa che avrei dovuto assolutamente fare,
prima.
Quando l’edificio ormai familiare spuntò all’orizzonte affrettai ancor
più il passo, impaziente come non mai, l’eccitazione del ritorno –seppur dopo una cosi breve separazione- perfettamente percepibile dalla
mia espressione e dai miei gesti.
Fu allora… che lo vidi.
Se ne stava un po’ in disparte, gli occhi bassi e le braccia incrociate
al petto… esattamente come l’avevo lasciato. Quando poi, avvicinatami di più, riuscii a scorgere il suo
volto… rimasi paralizzata. Non era come l’avevo lasciato. Non sorrideva
più. I suoi lineamenti in soli quattro giorni si erano come induriti: gli occhi
arrossati [come se avesse…pianto?],
le labbra strette e piegate verso il basso, i pugni serrati… e la morte nello
sguardo.
Non attese che lo raggiunsi; mi corse incontro, per poi gettarsi ai miei
piedi senza neppure guardami in volto.
« Renji, che… »
« mi …dispiace » singhiozzò lui, facendomi sobbalzare. Perché si scusava? Non ne compresi il motivo. « mi…dispiace immensamente…io non immaginavo che… ». Lo
interruppi.
« Renji,» sussurrai.
Rimase immobile. « Renji? Che
hai? ». Non si mosse; continuava a mormorare frasi
sconnesse, accasciato al suolo. Persi la pazienza. « Renji
» ordinai, e sollevai il suo viso.
Mi guadò, e… sbarrai gli occhi, incredula. Piangeva.
« Rukia, mi dispiace… io, lui… ».
Come in un lampo improvviso, uno spiraglio di razionalità, capii.
« No… » sussurrai, sconvolta.
« Rukia, lui…Ichigo è …peggiorato. Non sanno se ce la far…- ».
« NO! ». Renji sobbalzò al mio grido
disperato. Sentii le gambe cedere, vidi il suolo avvicinarsi pericolosamente;
mi abbandonai sul pavimento lucido e rimasi immobile, mentre tutto moriva
attorno a me. Quando il sole sbucò da dietro una
nuvola e prese a picchiare insensibile, squarciando il cielo di quel torrido
Agosto, quasi non me ne accorsi.
Stavo forse morendo? Ne fui grata, scongiurai anzi di morire il più
presto possibile; mi parve l’unica soluzione possibile
per sfuggire al dolore. Renji, a qualche metro da me,
piangeva silenziosamente, anche se non capii se lo facesse
per me, per Ichigo o semplicemente per se stesso.
Sentivo la testa girarmi vorticosamente. [O era
il mondo intero, ad aver cominciato a girare?]. “La vita continua”, aveva detto
Ukitake-taicho. Continua,
pensai, ma non per me. Non per
Ichigo.
« Scusa, » sussurrava intanto Renji, come
fosse una nenia. Mi accorsi solo in quell’istante che
non aveva smesso un attimo di ripeterlo. Come se… come se
fosse davvero lui il responsabile.
Socchiusi le palpebre. La morte era sopraggiunta troppo in fretta,
cogliendomi proprio quando credevo che tutto sarebbe
tornato a posto. « E’… colpa mia » gemetti, soffocando le lacrime nella mia voce. « non tua. Non avrei dovuto… ». Strinsi gli occhi
e conficcai le unghie nei palmi, ripensando a quanto fossero
state stupide ed insensate le mie azioni. « non avrei …dovuto…andare
via…! ». La mia voce salì di tono nell’ultima parte della frase, quasi
urlai. Accanto a me, percepii Renji irrigidirsi. Smise di mormorare, i
suoi occhi divennero vitrei per qualche secondo… poi, un lampo di
consapevolezza. Si sollevò, fulmineo, in un istante fu
accanto a me e, afferratomi le spalle, prese a scrollarmi con forza.
« ahia » mormorai, nonostante il dolore fisico non fosse nulla a
confronto della sofferenza che provavo. « Renji, che-
»
« Ho capito, Rukia!,
» strillò. Vidi qualcosa, una scintilla di vita nei suoi occhi, che mi
costrinse ad uscire dall’annebbiamento e prestargli attenzione. « Vieni con me,
» ordinò, e in un attimo mi prese fra le braccia cominciando a correre verso
l’edificio della quarta brigata.
Il vento freddo provocato dalla velocità mi si infranse
sul viso, restituendomi un minimo di lucidità. « Renji,
che.cavolo.succede! », sbottai. I miei nervi erano al limite.
« Rukia, ho capito » rispose lui, esaltato, e
non potei ignorare il tono speranzoso della sua voce. « Ho capito perché sta
male. Perché tu non
c’eri. Capisci? Sta semplicemente tentando di dirci che vuole te!
».
Sbattei gli occhi una, più volte, tentando di
far penetrare quella verità in tutte le cellule del mio corpo. Ichigo voleva me? Ripensai ad una conversazione col
Capitano Unohana, avvenuta tanti
mesi fa da parere lontana secoli interi. “Quando un individuo si trova
in stato di coma,” aveva detto. “ha bisogno di
qualcuno che gli stia vicino, che gli parli. Se dovesse sentirsi abbandonato potrebbe…”
« peggiorare, » mormorai, incredula. Renji
aveva ragione.
« Possiamo salvarlo! » urlò lui, entusiasta e speranzoso come me,
aumentando ancor più il ritmo della corsa. E in quel momento, intuendo quanto
la sua preoccupazione per la sorte di Ichigo fosse
sincera, sentii uno strano calore avvolgermi il petto. Somigliava a… gioia
soffocata? Una sensazione quasi dimenticata, che mi riportò ad un mucchio di
mesi prima, alla nostra piccola Arcadia privata.
E allora capii che per riaverla dovevo lottare. La desideravo, a tutti i
costi, ed allo stesso modo rivolevo indietro Ichigo: e litigare con lui,
combattere, prenderci a pugni, allenarci insieme nel do-jo
della mia brigata, uscire fuori di nascosto, durante
la notte, per poi ritrovarci entrambi a contemplare le stelle dalla cima di un
tetto.
« Ci siamo, » annunciò Renji, una nota ansiosa
nella voce. Non gli diedi torto: improvvisamente, sentii lo stomaco
attorcigliarsi in pose scomode ed il cuore battere pericolosamente. Tentai di
non farci caso.
Renji mi mise giù, senza
badare alla delicatezza, ed immediatamente schizzai verso la stanza ormai
familiare. Spalancai la porta, e lo vidi. Sdraiato
esattamente al centro della stanza, migliaia di tubicini trasparenti attaccati
ad ogni centimetro del corpo, Hanatarou che si
prodigava inutilmente di calmarlo. Il luogotenente Kotestu
armeggiava con un grosso macchinario, sul cui monitor non potei
fare a meno di notare i movimenti irregolari e spezzati della linea a zig-zag. E poi, guardai lui: quasi scoppiai a piangere, quando vidi
che muoveva le dita. Stringeva l’aria, le riapriva, le richiudeva nuovamente a
pugno.
« Si sta svegliando? » sussurrai, trattenendo l’eccitazione che
trapelava dalla mia voce.
Alle mie spalle, qualcuno sospirò. Mi voltai. « Capitano Unohana? ».
La guardai, e immediatamente capii che qualcosa non andava. Non era
felice. Anzi, pareva addirittura preoccupata.
« qualcosa…non…va? ». Sillabai, muta.
Lei mi guardò, l’espressione insieme angosciata e addolorata. « Mi
dispiace, Kuchiki-dono… stiamo facendo tutto il
possibile, ma le condizioni di Ichigo Kurosaki sono tragiche… potrebbe lasciarci ».
Non la lasciai finire di parlare. Con uno scatto repentino raggiunsi la
sorta di barella sulla quale riposava Ichigo; sentii gli occhi annebbiarsi di
lacrime. « Ascolta bene…tu », singhiozzai, aggrappata a lui. « hai promesso,
capito? Promesso! Ichigo Kurosaki mantiene le
promesse fatte, sempre! Se muori sei un bugiardo, uno…
uno …stolto! ». Aveva senso continuare? Stavo urlando
contro un morto?. La linea a zig-zag sul monitor si afflosciò, presto non sarebbe stata altro che una riga
dritta. Era finita.
Alle mie spalle sentii qualcuno, sicuramente Renji,
esplodere in un grido di dolore e scappare fuori, sbattendo rumorosamente la
porta.
Io ancora non riuscivo a muovermi… ne ad
arrendermi. Lui era uno che lottava fino alla fine, lo sapevo.
« per favore, » gli sussurrai all’orecchio. Una delle mie lacrime andò a
bagnargli la guancia. « ti imploro, Ichigo. Se non vuoi farlo per me, fallo almeno per la tua famiglia…
loro hanno bisogno di te, tutti ne hanno bisogno qui, senza di te noi… io… ».
Infilai la mia mano minuscola fra le sue dita, che smisero di stringere il
vuoto e si chiusero attorno al mio palmo.
« Incredibile, » mormorò il Luogotenente Kotetsu,
gli occhi sbarrati dinanzi al monitor. Lo guardai anch’io … e capii tutto. La
linea non si era appiattita, stava solo riprendendo la sua forma originale,
quella che indicava un cervello sveglio. Era
finita, certo, ma nel senso opposto.
« Com’è possibile, Capitano Unohana?. »
« Non lo so, Isane. Probabilmente, il forte
shock ha smosso il suo cervello… ».
Continuarono a bisbigliare, ma io non le ascoltavo più. Ero concentrata
sulla stretta ferrea della mano di Ichigo, sulle sue
palpebre che si strizzavano, come volessero aprirsi da un momento all’altro. «
puoi farcela, » lo incitai. Stavolta, la gioia nella mia voce era più che
evidente. « Coraggio, ci sei quasi ».
Ci provò ancora. Strinse le palpebre, le allentò di nuovo e riuscii a
sollevarle, anche se di poco. Ci provò altre due, tre volte, finché non fu
capace di scoprire le due fessure degli occhi. Erano proprio come li ricordavo…
caldi, castani e bellissimi.
Mi chiesi se riuscisse a vedermi. Mormorai il suo nome, fra le lacrime,
mentre un sorriso inconsapevole mi piegava le labbra. Gli accarezzai i capelli,
com’ero abituata a fare, senza smettere di pronunciare il suo nome.
« Ichigo, Ichigo, Ichigo, Ichigo, Ichigo ». Ero incredula, temevo quasi
che sparisse, che dovessi svegliarmi da un istante all’altro e tornare alla
cruda realtà… invece lui era li. E, soprattutto, era vivo.
« Fai passare, presto » annunciò il Capitano Unohana,
spingendomi via. Che dolore, abbandonarlo di nuovo.
Avevo bisogno di un overdose del suo viso, un overdose
di lui. Come potevano essere tanto crudeli da portarmelo via un'altra volta,
ora che l’avevo finalmente ritrovato?.
Mi resi presto conto che lui dovesse pensarla
allo stesso modo. Quando Capitano e luogotenente
spinsero via la barella, Ichigo non lasciò la mia mano; credevo fosse
incosciente, che non mi riconoscesse, eppure spostò il viso verso di me e vidi
i suoi occhi, non più annebbiati, colmi di consapevolezza.
Mosse le labbra, non riuscendo però ad emettere alcun suono. Si intestardì, come aveva fatto con gli occhi, provò più
volte fino ad emettere un gemito soffocato: lo capii dal suo sguardo e dal
movimento delle labbra, che stava chiamando il mio nome.
Riprovò, ostinato. « u…ki…a ». Avrei voluto dirgli di non sforzarsi, ma
non riuscivo a muovere un muscolo. La sua voce… come
avevo fatto a dimenticarla?.
« Ru…kia », mormorò, con fatica. Strinsi di
più la sua mano. « st…stai…qui ». In quel momento,
sentii una gioia tanto grande da farmi esplodere il cuore; come se per tutta la
vita non avessi atteso altro che quelle parole, come
se io stessa esistessi per quello. Per Ichigo Kurosaki e
nessun altro.
Mi guardai attorno… tutto brillava: Unohana e Kotetsu bisbigliavano animatamente fra loro, entusiaste. Hanatarou, quasi svenuto per la gioia, se ne stava seduto
sul pavimento a ciondolare. Renji… ero sicura che
fosse felice anche lui.
« Rukia ». Mi stupii che la voce di Ichigo fosse già cosi ferma; incredibile quanto imparasse
in fretta.
Sorrideva, orgoglioso dei risultati
ottenuti, mormorava per attirare la mia attenzione.
« Dimmi, » sussurrai.
Si fece scuro in volto. « vedi che n…non sono un bugiardo? ». Biascicò,
con fatica. Mi venne da ridere, fra le lacrime.
« lo so, lo so, stupido. Ora
riposati ».
Annuì e chiuse gli occhi. « lo
s…sai che io man… ».
« mantieni sempre le promesse. Ora lo so. Ichigo… grazie».
Epilogo.
La vita continua
« Yo, Renji! ».
Spuntai alle spalle del mio miglior amico, seduto sotto l’ombra di un albero. [lo stesso dell’altra volta. Ma era
tutto diverso, ora]. « Che fai di bello? ».
« Mi riposavo, prima che tu
arrivassi. Ora sto cercando di capire perché tu debba sempre rompermi le
scatole. »
Misi il broncio. « antipatico,» sbuffai.
Rise, mi premette la sua manona sulla testa. « non te la prendere, dai. Ti chiederei
dove tu stessi correndo, ma… come dire, è fin troppo facile intuirlo ».
Ridemmo entrambi. « Allora vado, Ren ».
Mugugnò, seccato. « Non chiamarmi cosi ».
« Reeen! », cantilenai, maliziosa,
trattenendomi a stento dallo scoppiare a ridere.
« Ma te ne vai o no, rompiscatole? », mi urlò
lui.
« Okey, capo ». Gli scoccai un bacio sulla
guancia e, lasciatolo basito e imbambolato, ripresi la mia corsa.
La vita
continua.
Schizzai attraverso i corridoi della quarta brigata, travolgendo il
povero Hanatarou che quasi rovesciò il vassoio che
portava. Gli urlai un “gomen nasai”
dietro le spalle, senza fermarmi, finché non raggiunsi la solita stanza.
Mi affacciai all’interno, sorridente.« Ohayo!
».
« Oss, Rukia. » Ichigo mi salutò senza neppure guardarmi, impegnato in una
serie di flessioni e piegamenti che ne mettevano in risalto i muscoli scolpiti;
il petto ancora ricoperto di bende, i muscoli delle braccia tesi e ben
visibili.
Con mia sorpresa mi ero accorta solo da un mese a quella parte di quanto
fosse bello. Il
suo viso, i suoi capelli bizzarri, il suo corpo allenato… amavo
tutto di lui.
“Per non parlare degli occhi, e della sua voce, e di quel sorriso… Dio, quanto lo amo”. Mi costrinsi a non
pensarci ed evitare cosi sguardi languidi che non mi si addicevano.
« Allora, come andiamo oggi? ».
« Meglio di ieri, grazie. La forza fisica mi sta tornando ».
Scoppiai a ridere. « ti è gia tornata, vedo.
»
Rise anche lui e si sollevò a sedere; quando i suoi occhi accesi
incontrarono i miei dovetti usare tutto il mio
autocontrollo per stringere i pugni e trattenere l’ondata di emozioni che il
suo viso mi provocava. Il modo in cui mi guardava… era come una scintilla.
« Non è tornata per niente, » sbuffò, seccato. « Sono molto più debole di quanto non fossi prima ».
Evitai di pensare a quanto la sua voce somigliasse
a una carezza.
Mi sedetti accanto al letto, com’era mia abitudine. « Perché
tanta fretta? Sei sveglio da appena un mese. »
« Lo so,ma… ». Incatenò il suo sguardo al mio;
provai a distogliere gli occhi, sapendo che sarei arrossita, ma fu tutto
inutile. Non ci riuscivo. O forse non volevo? Quando si avvicinò
di qualche centimetro, pensai che il mio cuore sarebbe esploso.
« ma…? », scandii, tanto vicina a lui da aver
perso ogni bagliore di razionalità. Il suo profumo nelle narici mi faceva
girare la testa.
Si avvicinò di più; era consapevole dell’effetto che mi faceva?
Respirò contro la mia pelle. « c’è …una promessa che devo assolutamente
mantenere ».
Author’ Corner;;
Finitaaaaaaaaaaaaaaaa! Non ci
credo ò____ò. Ecco, sono talmente dissanguata da non riuscire neppure a
scrivere per bene questo angolo autore
>______<”.
Innanzitutto non ho
riletto la fanfic, perciò segnalatemi eventuali
errori. Poi, riguardo la time-line… ehm, è qualche
mese dopo la fine della guerra con Aizen.
L’ispirazione mi è venuta da Comatose degli Skillet,
da me sempre associata all’Ichiruki per qualche
misterioso motivo XD.
Inoltre ho
appena finito di leggere The Host di Stephenie Meyer, e… mi è piaciuto
cosi tanto da provare, almeno nell’ultima parte, a scrivere utilizzando quello
stile XD. Lo so, non ci sono riuscita ;____;
Ora, i ringraziamenti:
Ringrazio B, che ha accettato di farmi da Beta e mi ha costretta a scrivere quando la voglia di farlo era andata a
farsi benedire. Ringrazio Yue e Tak,
che mi hanno aiutata via msn
e incitata a continuare. Ringrazio Giuli, che ha
detto di essere impaziente di leggere XD. Ringrazio tutte le altre blackberries, le
ringrazio per tutto: per gli scleri, per aver Ichirukieggiato insieme, per avermi fatto ridere e
continuare a farlo X3.
Ringrazio Ichigo e Rukia
di esistere, ringrazio Tite Kubo
per averli creati, ringrazio Fade to
black, la cosa più Ichiruki che
io abbia mai visto *______*.
E ringrazio la nuova beat collection dedicata a Ichigo e Rukia,
il cui pensiero mi da la forza XD.
Detto ciò, questa fanfic partecipa al contest di fanfiction Ichiruki indetto dal mio forum, il death
and strawberry.