Otto più una
Medaglie.
«Radicalbero!».
«Cloyster,
Geloraggio!».
Collisione.
La palestra venne
squassata come se fosse stata percorsa da un terremoto quando i due
potenti attacchi, scagliati dai lati diametralmente opposti
dell’arena, cozzarono l’uno contro
l’altro.
Capopalestra e
sfidante sollevarono d’istinto le braccia per farsi da
schermo contro l’onda d’urto che si espandeva,
vestiti e capelli si agitavano come nel mezzo di una burrasca.
Per un lungo,
terribile istante non accadde nulla ed entrambi si protesero in avanti,
i muscoli tesi, verso quella cortina di polvere marrone che oscurava
loro la vista. Poi, sparato come da un cannone, un enorme, terribile
mostro dal corpo azzurro emerse dalla nube, il suo volo incontrollato
incalzato dai colpi continui di due enormi radici che lo seguivano come
fruste.
Con un sibilo di
sorpresa, il Capopalestra si gettò di lato, a terra, mentre
il suo pokémon fendeva lo spazio che lui aveva occupato solo
un attimo prima ed atterrava con uno schianto tremendo sul suolo della
Palestra.
L’uomo
ringhiò e si alzò di scatto, facendo leva con le
braccia. «Cloyster…» sibilò,
muovendo un passo in direzione dell’enorme conchiglia. Il suo
guscio, spaccato e piegato in più punti, stillava goccioline
di sangue verdognolo.
Con un gesto brusco lo
richiamò nella Poké Ball. Nessun ringraziamento,
nessuna parola di conforto.
Stringendo i denti per
la collera si voltò nuovamente verso il ring. Su di esso,
gli ultimi fili di fumo si stavano ormai diradando, e riusciva a vedere
le due figure che lo occupavano: una, enorme e possente, un mostro
implacabile, ansimava pesantemente fra le fauci zannute;
l’altra, umana, lo fissava con la vaga ombra di una
incomprensibile sorpresa negli occhi marroni.
Avevo
vinto.
La
prima Palestra che avevo visto, l’ultima che avevo
conquistato.
E,
guardando Venusaur in piedi davanti a me, provavo una strana,
incomprensibile malinconia.
Uno sguardo carico di
collera. Un sibilo.
«La Medaglia
è lì».
Non lo
feci. Non mi mossi. Non la presi.
Non
so tutt’ora il perché, ma in quel momento mi si
torsero le viscere.
L’allenatrice
mosse un passo in avanti, piano, ed allungò una mano come
per sfiorare con la punta delle dita la manica della giacca scura del
Capopalestra, che già le aveva voltato le spalle per
andarsene.
«Aspetta…».
L’uomo si
fermò bruscamente, senza voltarsi.
Silenzio.
«Cosa
vuoi?».
Si morse
l’interno della guancia, ammutolita.
Non sapeva cosa
dirgli. Cosa si può dire ad un uomo senza cuore?
«Stai bene,
Giovanni?» le sfuggì.
L’uomo si
voltò di scatto, ma non gridò, non se ne
andò. Rimase lì, immobile, a fissarla con il suo
sguardo di collera cieca.
«Cosa farai
adesso?» gli chiese piano, poco più di un
sussurro. Perché volesse saperlo, non lo capiva neanche lei.
L’uomo
chiuse gli occhi. Sorrise. Un sorriso amaro, pieno di ironia e
rassegnazione.
«Me ne
andrò. I miei… i sogni del Team Rocket sono
andati in fumo» si corresse, rapido e disinvolto. Ma, sotto
l’accusa e la durezza del suo tono, lei poté
giurare che per un attimo gli fosse tremata la voce. «Ho
perso di nuovo, sconfitto ancora una volta da una ragazzina. Non
potrò più presentarmi ai miei sottoposti. No,
d’ora in poi mi dedicherò solo
all’allevamento dei miei pokémon»
concluse.
Si ritrovò
a fissare il pavimento, di nuovo a corto di parole. Accanto a lei,
l’ombra del suo fedele Venusaur le ricordava di non essere
sola.
Non
può essere una ragazzina a sgominare una banda criminale.
No,
quello è un compito da adulti.
«Mi
dispiace». Glielo disse in un mormorio.
«Non
fare la sciocca» mi avevano detto. «Sei stata
grande!».
Ma
io ero solo una ragazzina.
Una
ragazzina che, stupidamente, si sentiva in colpa.
Giovanni non rispose
per un lungo istante, tanto lungo da farle dubitare che avesse sentito.
Lei spostò
nervosamente il peso da un piede all’altro. Cos’era
quel magone che le attanagliava il petto? Perché,
perché nonostante tutto non riusciva ancora a liberarsi di
quell’opprimente senso di colpa?
Strinse i pugni lungo
ai fianchi e Venusaur se ne accorse.
«Saar»
il pokémon le sfiorò piano il braccio con il
naso, preoccupato.
Lei lo
ricambiò posandogli la mano sulla fronte coriacea.
Stirò le labbra in debole sorriso carico di tristezza.
Venusaur non poteva
aiutarla.
Erano cresciuti
insieme. Giorno dopo giorno, avevano attraversato foresta dopo foresta,
esplorato città dopo città. Ma fra la bambina che
era partita dieci anni prima dalla città di Biancavilla con
un Pokédex nello zaino ed un Bulbasaur accanto sé
e l’allenatrice che presto avrebbe sfidato la Lega la
differenza era immensa. La fedele, coraggiosa, forte presenza del suo
Starter per la prima volta non bastava. Da creatura complessa quale era
l’homo sapiens, domande filosofiche, etiche e morali venivano
richiamate quasi di natura a rincorrersi e ad accavallarsi nella sua
mente; ed erano domande cui solo un altro membro della sua specie
poteva trovare risposta.
“È
eroe chi schiaccia gli altri nel suo cammino verso la giustizia?
…E
se domani cambiassero le leggi e decidessero che ad essere nel torto
sono io?”
Non
lo sapevo, ma quel pensiero non mi abbandonava.
Fu un suono strano
quello che sfuggì a Giovanni, a metà fra uno
sbuffo ed una risata. Lentamente, l’uomo scosse la testa.
Un sussurro
udibilissimo: «Sei proprio stupida».
Suo malgrado, lei
sorrise. Per qualche ragione, ci sono casi in cui un insulto
è meglio di un abbraccio.
«Dici?»
inarcò un sopracciglio. Nonostante le labbra incurvate, i
suoi occhi luccicavano di tristezza. «Oh, beh…
adesso si capisce, come ho fatto a vincere».
Voleva che Giovanni si
voltasse, che per una volta la guardasse con una luce negli occhi
diversa dal fastidio o dall’odio, così, sperava,
anche il macigno che portava nel petto si sarebbe un po’
alleggerito. Non di molto, giusto quel che bastava a lasciarla
respirare.
Lui si
voltò. «Prego?».
«Beh, magari
non è roba della tua generazione, ma nei manga, di solito,
sono proprio i ragazzini scemi gli… quelli che vincono
sempre. Fra una botta di culo e l’altra».
Stavo per
dire ‘sono proprio i ragazzini scemi gli eroi’.
Non
ci ero riuscita.
Nella
mia gola, quella parola si era bloccata come una enorme, disgustosa
matassa di capelli umidi e aggrovigliati.
Lo sguardo attonito di
Giovanni durò solo un istante, poi l’uomo rise.
Dapprima piano, le spalle scosse da singulti silenziosi; poi sempre
più forte, sguaiatamente, ma senza la minima traccia di
divertimento.
«Giovanni…?».
Lui scosse la testa e
lentamente si calmò. «Quella non è una
vittoria, è una casualità».
Batté le
palpebre. Eh?
«Tu sai
cos’è una vittoria?» le chiese
all’improvviso. Aveva un tono diverso, quasi dolce.
Esitò
mentre con gli occhi cercava aiuto nello sguardo di Venusaur.
«Una vittoria è…» si
interruppe, le sopracciglia appena corrugate. «Beh, dipende
dalle circostanze» disse infine. «Vinci quando
superi le difficoltà che ti si parano davanti, quando sei in
perfetta armonia con i tuoi pokémon, quando-».
Puoi
provare ad aggrapparti fino a farti sanguinare le mani, ma presto o
tardi scoprirai quanto sia inutile: dagli specchi prima o poi si cade.
°
Il suo nome svettava
su uno striscione in cima al Laboratorio Pokémon di
Biancavilla; sotto di esso: La Campionessa.
Caratteri verdi come
il suo Starter.
Quando si
appoggiò alla sua spalla, il grosso pokémon emise
un borbottio.
Affianco a lui, su un
alto tavolino, svettavano otto più una Medaglie luccicanti.
«Ci avresti
mai creduto?» gli chiese in un sussurrò.
«Ci siamo arrivati».
Il grosso, massiccio
Venusaur sbuffò dalle narici; un soffio d’aria
tiepido e fresco come la primavera.
Erano riunite
lì, attorno a loro, in quell’afoso giorno
d’estate, molte, molte persone, tante che stentava a credere
che fossero davvero tutte lì solo per lei. Eppure, in quella
marea di persone, i suoi occhi cercavano solo i volti mancanti.
Il suo rivale, a cui
aveva distrutto i sogni con le sue stesse mani.
Bruno il Superquattro,
il cui Machamp avrebbe portato in eterno le cicatrici delle Foglielama
di Venusaur.
E… Giovanni.
Avevo
vinto?
Credevo
di saperlo, ma speravo di sbagliarmi.
Forse,
dopotutto, sarebbe stato meglio non avere una risposta.
Sussultò
allo squillo che provenne dalla sua tasca, riemergendo dai suoi
non-sogni.
«Pronto?»
una stretta nel petto, all’altezza del cuore.
«Giovanni…!».
Tutto d’un
tratto, scoprì le tremava la mano.
«Sei
davvero una brava allenatrice»,
mi
avevano detto, quando le Frustate del mio piccolo Bulbasaur avevano
dimostrato di poter tenere a bada l’enorme Onix di Brock.
«Congratulazioni».
Ma dalla voce
dell’uomo, parve più una condoglianza che un
complimento.
«È
davvero l’allenatrice più potente di
Kanto»,
sussurravano
ora, gli occhi sgranati sulle riprese del Radicalbero del mio enorme
Venusaur che strangolava a mezz’aria il terrorizzato
Charizard del Campione.
Non riuscì
a dire ‘grazie’, prima che la telefonata si
chiudesse.
«Quando
le avrò conquistate tutte le metterò proprio al
centro, e in alto, così tutti le potranno vedere!»
aveva vagheggiato la me stessa di dieci anni.
«…E
ora?» chiese invece a Venusaur ed al vento.
Mi stupii,
perché non ebbi bisogno di cercare una risposta a quella
domanda.
Ora
sarei andata avanti, e basta.
Johto
mi attendeva.
…Ma prima era il
caso di cercare un cofanetto in cui nascondere tutte quelle Medaglie.
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