DRIPPING REALITY
PREMESSA:
questa oneshot non è tutta farina del mio sacco. In realtà, sarebbe
una specie di “missing moment” della longfic intitolata L'incanto
di un sogno di ceramica e scritta dalla cara Luxie_Lisbon.
Consiglio a chiunque di leggerla perché mi ha veramente colpito –
tanto che, appunto, ho sentito la necessità di spendere qualche riga
per ringraziate l'autrice di aver partorito una cosa tanto bella e
toccante! Non vorrei dilungarmi tanto e non vorrei farvi spoiler
sulla trama, quindi lascio parlare questa piccola oneshot. Buona
lettura!
DRIPPING
REALITY
Si
trovavano entrambi l'uno di fronte all'altro, senza dirsi nulla.
Erano così vicini che i loro respiri, per qualche istante, parvero
intrecciarsi a diventare una cosa sola. Ad un tratto, il ragazzo
dagli splendidi capelli biondi si scostò, indietreggiando di qualche
passo con la bambola di porcellana stretta fra le braccia. Non
sembrava spaventato, né tantomeno inorridito. Nei suoi occhi si
riusciva solamente a percepire un velo di curiosità mista a
malinconia. Il giovane che gli stava di fronte piegò appena il capo
da un lato, vedendo la piccola bambola dai capelli argentei muovere
le piccole manine, cercando di divincolarsi dalla presa del
proprietario mentre continuava a ripetergli che, se l'avesse stretta
ancora un po', probabilmente le si sarebbe frantumato il petto. Il
più alto dei due sorrise divertito, sedendosi su una panchina di
legno immersa nel verde della radura che la sua mente aveva plasmato
unicamente per lui. Chissà se anche l'altro riusciva a vederla...
Ad
un tratto, una farfalla si posò sulla spalla del piccoletto. Egli
non fece una piega, ma ruotò impercettibilmente il capo ad osservare
quel piccolo insetto dalle ali tremolanti. Allora era reale.
Riusciva a vederla anche Takanori, da quanto Akira, immerso nel suo
mondo irreale, poteva
notare.
«Secondo
te perché le farfalle sono così belle, pur essendo insetti?»
domandò il ragazzino dai capelli biondi, carezzando i capelli
soffici della bambola che teneva affettuosamente fra le braccia.
Osservò l'elegante farfalla fino a che essa non si staccò dalla sua
spalla, prendendo il volo e andando a posarsi sul volto dell'altro
giovane; ma quando questi provò a sfiorarla con la mano, l'unica
cosa che i suoi polpastrelli trovarono fu la punta del suo naso
leggermente fredda a causa della temperatura di metà stagione. Come
poteva quella creatura essere irreale se anche Takanori l'aveva
vista? Ma anche se lo scricciolo l'avesse veramente vista... come
aveva fatto a parlare? E soprattutto, come aveva fatto Akira a udire
la sua voce e a riconoscerla nonostante non l'avesse mai sentito
parlare prima d'ora? Riempiendosi l'aria di polmoni, chiuse gli
occhi. Espirò. Inspirò ancora. Trattenendo il fiato, riaprì
lentamente gli occhi. Davanti a sé, Takanori c'era ancora; era
sempre nella stessa posizione, ma qualcosa in lui era cambiato. I
suoi vestiti. Non indossava più i blandi vestiti che usava per
passeggiare nei corridoi della clinica o il solito pigiama che ad
Akira tanto piaceva. Indossava un completo elegante e allo stesso
tempo accattivante, da colori sgargianti e inserti in metallo, come
borchie e catenelle. In testa portata uno strano cappello, simile ad
un cilindro.
Akira cercò di
sostenere il suo sguardo come se nulla fosse, rendendosi conto che
anche il colore dei suoi occhi era cambiato: da un caldo e
rassicurante color cioccolato erano diventati di un freddo e
cristallino color ghiaccio. Chiuse ancora una volta gli occhi, troppo
spaventato da quelle sue iridi glaciali per rispondere alla sua
domanda. Per fortuna, quello gli bastò per vedere Takanori tornare
il ragazzino di sempre, quello dall'aspetto insicuro e dagli occhi
paradossalmente rassicuranti. Trasse un sospiro di sollievo e cercò
le parole giuste per rispondergli. «Il paragone tra insetti e
farfalle è simile a quello tra esseri umani e angeli, non credi?»
mormorò a sua volta Akira, non riuscendo a capire se quella scena si
stesse svolgendo unicamente nella sua testa o se anche l'altro
ragazzo riusciva a sentire ciò che stava dicendo. «Insomma,
trascorrere un'intera vita da vermi per poi ricevere un paio d'ali
con cui spiccare il volo, anche se per poche ore...» continuò,
alzando poi lo sguardo sul biondo. Con stupore, s'accorse che dalla
sua schiena spuntavano un meraviglioso paio d'ali da farfalla. Erano
enormi, coloratissime, e avevano due lunghe code che puntavano verso
il basso. Se non si sbagliava, erano le ali della Coda di rondine,
una delle più grandi farfalle esistenti al mondo. A Takanori
donavano davvero molto... più ancora di un paio d'ali piumate da
angelo.
«Tu
credi... credi che io debba ancora liberarmi dalla mia crisalide?»
mugolò ancora il ragazzino,
tenendo la bocca serrata mentre un brivido lo attraversò da capo a
piedi. Nel frattempo, la bambola che teneva fra le braccia sparì,
venendo sostituita da un bozzolo formato da migliaia di filamenti
argentei.
Akira
esitò, osservando le onde incresparsi sulla riva mentre Takanori
dava le spalle sole che, giunto ormai il tramonto, scompariva
lentamente dietro l'orizzonte, riflettendo gli ultimi raggi nelle
acque limpide e quiete della vastissima distesa marina. Il mare...
quanta nostalgia in quella sua ennesima visione. Era davvero un
peccato che il ragazzo dai capelli biondi non potesse assistere a
quello spettacolo... forse. Akira sentiva, sapeva
che i suoi occhi acquosi vedevano qualcosa. Ma cosa, precisamente?
«Takanori, tutti noi dobbiamo ancora rinascere. Ma per farlo,
bisogna prima morire.» sentenziò freddamente, vedendo quelle sue
grandi ali spiegate che, come cenere, venivano delicatamente sospinte
via dal vento. Il mare sfumò, il paesaggio divenne sempre più
indistinto fino a venir schiacciato dal peso della realtà. E così,
i due si trovarono ancora nella stanza d'ospedale di Akira –
quest'ultimo seduto sul bordo del letto e il compagno di
convalescenza in piedi di fronte a lui.
Dopo
tanto tempo, ecco che gli fu concesso un momento di lucidità. Un
breve, effimero istante di lucidità. Un attimo nel mondo reale, nel
mondo mortale – quel mondo in cui le ferite sanguinavano e le
delusioni amorose erano ancor più dolorose di un pugno in pieno
stomaco. Quel stramaledetto mondo dal quale Akira cercava sempre,
disperatamente, di fuggire. Quel mondo che rifiutava quelli che erano
come Akira, etichettandoli come “pazzi” o “disturbati mentali”
e rinchiudendoli in quelle strutture insieme ad altri esseri
difettosi. Sì,
difettosi era la parola giusta per descriverli. Sorrise sconsolato,
guardandosi intorno, studiando per bene le pareti asettiche della
stanza e dando una rapida occhiata fuori dalla finestra socchiusa,
godendosi la fresca brezza di metà stagione che, facendo svolazzare
blandamente la tenda, giungeva a carezzargli premurosamente il viso.
Ormai sazio di
quella realtà, tornò a posare lo sguardo su Takanori, accorgendosi
che la sua bambola dai capelli argentei non era ancora tornata: quasi
certamente si trovava ancora al sicuro nella sua crisalide.
«Akira...
ma io ho paura di morire. Io non voglio morire. Non ancora.» pigolò
il piccoletto con voce spezzata dal pianto, mentre le sue labbra
ancora rimanevano immobili e dai suoi occhi cominciavano a stillare
le prime lacrime. Lacrime che sembravano vere, tremendamente reali.
Era tornato indietro nel tempo, precisamente a quando era ancora un
bambino di otto anni. In quel dannato giorno in cui aveva perso
tutto, oltre alla voce. Si strinse la crisalide al petto, chiudendosi
in se stesso per cercare in ogni modo di nascondere le lacrime dietro
ai capelli.
Akira soffriva a
vederlo così. Proprio non voleva che Takanori stesse così male.
Come se non avesse già altro per cui soffrire. Come se la sua testa
non fosse abbastanza colma di pensieri negativi e dolorosi. Alzandosi
dal letto, tese un braccio nella sua direzione. Con il pollice e
l'indice, gli sollevò delicatamente il mento, sul quale spiccava un
grande neo bruno. Le lacrime erano già passate oltre alle sue guance
arrossate e si stavano inesorabilmente avvicinando alle dita di
Akira. “Fa che siano vere, fa che siano vere...” pregò dentro di
sé il ragazzo. Ed ecco che la lacrima venne a contatto con la pelle
del suo polpastrello. Era calda. Umida. Volendo avere un'ulteriore
certezza, sollevò le dita e se le portò alle labbra. La lingua
captò qualcosa di salato e, allo stesso tempo, dolce. Non c'era
dubbio, quelle lacrime erano reali. Takanori stava piangendo.
Takanori stava soffrendo. E lui non poteva far niente per aiutarlo
perché si trovavano entrambi nella stessa situazione.
Istintivamente, lo
abbracciò. Lo strinse forte a sé, fino a che non sentì i suoi
singhiozzi vibrargli contro il petto. Chiuse le sue debole spalle in
un abbraccio e affondò il naso nei suoi capelli morbidi e fini,
chiudendo gli occhi e godendosi il suo buon profumo che gli rimase
impresso nella mente. Intanto, seppur avesse gli occhi chiusi,
davanti a lui si ritrovò ancora nella radura, illuminata dai primi
raggi dell'alba. Li riaprì quasi improvvisamente, disturbato da uno
strano rumore proveniente dall'incavo che i loro due ventri quasi
attaccati l'un l'altro formavano. Rivolse lo sguardo verso il basso,
trovandosi coi piedi affondati in una distesa d'erba verde e fresca.
Si scostò appena da Takanori e vide che la crisalide che teneva in
mano s'era spezzata, e da essa usciva la piccola manina di porcellana
della bambola. La piccolina, sbarazzandosi in fretta della crisalide,
tornò ad accucciarsi fra le braccia del proprietario, sorridendo
serafica ad Akira che, chiudendo gli occhi per l'ennesima volta,
desiderava solamente tornare nella realtà.
«Takanori, l'unica
certezza che abbiamo è proprio quella della morte. Quello che si
trova dopo, la nostra seconda vita da farfalla, è ancora da
scoprire. Ma non devi aver paura...» cercò di rassicurarlo,
cercando la sua spalla ad occhi chiusi. Quanto si sentiva idiota.
Come poteva anche solo provare a consolarlo quando vivevano in due
mondi paralleli? Akira poteva morire più e più volte nel suo mondo
che non esisteva, nel mondo in cui tutto gli era concesso, ma che ne
sarebbe stato di Takanori, condannato per sempre a vivere una sola
vita – la vita mortale del verme? Un nodo gli serrò la gola.
Riaprì gli occhi e le visioni tornarono a farsi più vivide che mai.
Ora,
sulle labbra del biondo era posata una farfalla dalle ali blu,
immobile. Un'altra era posata sulla sua spalla, dalle ali gialle e
arancioni, e un'altra ancora, più grande e maestosa era posata nel
punto esatto in cui doveva palpitare il suo cuoricino guasto, facendo
fremere impercettibilmente le sue ali grande e scarlatte. C'era una
quarta farfalla: era nera e le sue ali sembravano fatte di velluto.
Noncurante dello sguardo di Akira, stava graziosamente con le zampe
posate su un higanbana
ordinatamente sistemato dietro il piccolo orecchio di Takanori,
succhiandone avidamente il nettare. Chissà perché la sua mente
continuava a partorire farfalle... sarà stata la prima curiosa
domanda di Takanori, sarà stata quella prima farfalla che s'era
posata sulla sua spalla.
Ad
un tratto, Akira sentì qualcosa di piccolo e caldo posarglisi sul
palmo della mano. Trattenne il fiato quando realizzò di cosa si
trattava; le dita del ragazzino si intrecciarono alle proprie,
stringendole morbidamente, con i polpastrelli pallidi affondati nel
dorso della sua mano.
“Non
esisti, non esisti.”
Da dove veniva
quella voce? Dalla bambola di porcellana? No. Da Takanori stesso? No.
Da uno degli infermieri che era passato nel corridoio? No. Dalla
testa di Akira? Sì. Sì, senza dubbio. Era un brutto segno. Le voci,
le voci non dovevano cominciare. Non dovevano rovinare tutto. Quando
Akira cominciava a sentire le voci, voleva dire che la ricaduta era
ormai prossima. Abbassò lo sguardo, cercando di respirare ad un
ritmo regolare. Il cuore gli palpitava all'impazzata, si sentiva
sull'orlo del collasso fisico e nervoso. Non voleva andare in
iperventilazione e tachicardia di fronte a Takanori, non voleva
deluderlo. Doveva proteggerlo, non poteva farsi vedere così debole.
Non l'avrebbe tollerato. Quando aprì gli occhi, vide che la bambola
di porcellana era sparita per l'ennesima volta e al suo posto era
apparso un voluminoso mazzo di gigli bianchi e candidi come la neve.
Da uno di esso vide sbucare un piccolo ragno nero che, passo dopo
passo, divenne sempre più grosso e le sue zampe si fecero più
lunghe, fino a che non raggiunse la mano nivea di Takanori. Le fauci
si preparavano a mordere quella carne tenera.
“I
gigli non sono adatti al tuo mondo che non esiste.”
Akira scacciò quel
ragno dalla mano del ragazzo, incontrando poi i suoi occhi
spaventati. Quest'ultimo ritrasse la mano, nascondendola nella veste
della bambola che ancora una volta stringeva al petto. Nonostante
tutto, non indietreggiò di neanche un passo. Rimase di fronte al
giovane che viveva in un mondo che apparteneva solo a lui. Lo osservò
con curiosità. Piegò le labbra in un sorriso. «Quel ragno era
proprio brutto, vero?» sorrise il piccoletto, mentre nei suoi
occhi si celava un orrore represso e sempre bruciante.
Il ragazzo che gli
stava di fronte non perse tempo a farsi domande. Non gli importava se
Takanori avesse effettivamente visto o meno quell'orrido animale. Non
gli importava sapere se quello scricciolo gli stesse realmente
parlando o se fosse ancora frutto della sua fervida immaginazione
distorta. Non gli importava niente. L'unica cosa che gli importava
era che fosse lì, accanto a sé. Le braccia gli si strinsero ancora
contro quel suo corpicino fragile. Se lo premette contro e lo trovò
così indifeso e spaurito che si sentì le lacrime agli occhi. «Non
voglio che tu te ne vada... rimani con me...» sussurrò Akira al suo
orecchio, mentre le lacrime gli rigavano vergognosamente il volto.
Non s'era mai trovato a piangere per nessuno se non per se stesso, in
quel suo disgustoso mondo in cui era sovrano indiscusso del nulla più
totale.
«A... A-ki...
A—ki-ra...»
Quel balbettio
indistinto era reale. Oh sì che era reale. Akira l'aveva
percepito sulla propria pelle, aveva sentito le labbra di Takanori
sfiorargli l'orecchio. L'aveva sentito, l'aveva sentito! E l'aveva
adorato. Aveva adorato la sua voce appena roca, aveva adorato quel
breve suono intermittente ed incerto. Aveva adorato il modo in cui il
proprio nome era stato pronunciato, così timidamente. Ma di tutte le
cose che aveva adorato, quella che più adorava era Takanori stesso.
Quella piccola testolina bionda che aveva amato sin dal primo momento
che era apparsa nei suoi pensieri, quel suo sguardo spento e
distaccato, quella sua bambola di porcellana che di tanto in tanto
prendeva vita e con la quale si lasciava andare a delle lunghe
chiacchierate...
«Takanori, rimani
con me...» ripeté ancora una volta, inspirando a pieni polmoni il
profumo dei suoi capelli, più potente di qualsiasi farmaco. Aveva
l'odore della realtà, il profumo della libertà. Intorno a lui, ecco
che tornarono le quattro pareti della stanza d'ospedale. Per la prima
volta in tutta la sua convalescenza, quel posto gli sembrò
familiare. Perché insieme a lui c'era Takanori.
«Sei
tu che devi rimanere con me, Akira... con me in questo mondo ingiusto
e... freddo.» disse il
piccoletto, accoccolandosi al sicuro fra le sue braccia, strusciando
il volto contro il suo petto, simile ad un gattino. «Promettimi
che farai di tutto per uscire dal tuo mondo... e per stare con me,
nel nostro mondo...»
sussurrò ancora, mentre Akira
sentiva le sue lacrime inzuppargli la maglia che indossava.
«Sì, Takanori...
sì che te lo prometto. Se solo tu ti impegni a mantenere a tua volta
una promessa, però.»
«Quale
promessa?»
«Voglio che tu
pronunci ancora il mio nome. Sempre. Voglio sentirti parlare con me,
voglio che tu mi dica tutto. Adoro la tua voce e credo di non poterne
fare a meno, scusami.»
«Ma...
Akira, io ti sto già parlando.»
«Oh... hai ragione.
A volte mi chiedo dove abbia la testa...»
E fu in quel momento
che dalla schiena di Takanori spuntarono ancora un paio di maestose
ali da Coda di rondine – le più belle che Akira avesse mai visto.
Holà!
Siete ancora tutte intere? Mi mancava da morire scrivere un po' di
angst, ma come potete vedere sono riuscita finalmente a placare la
mia sete (almeno in parte, eh...). Comunque, per chi non avesse
ancora capito [SPOILER] Akira è schizofrenico, mentre Takanori non
parla perché affetto da una forma piuttosto grave di mutismo
selettivo [/SPOILER] e... beh, ancora una volta vi consiglio di
leggere la fanfiction di riferimento!
Cosa
posso dire, mh... beh, se non altro spero vi sia piaciuta! So che non
è molto (in fondo sono tre paginette scritte in una serata in cui mi
sentivo particolarmente ispirata, lol), ma spero che vi abbia
comunque lasciato qualcosa... almeno un brividino... forse... ?
Non
so se qualcuno li ha colti, ma ci sono dei riferimenti ad alcune
canzoni dei DIR EN GREY (sì, perché quei cinque vecchi rompipalle
sono sempre fra i piedi): la Coda di rondine è citata in MACABRE
e le frasi “Non esisti, non esisti / I gigli non sono adatti al tuo
mondo che non esiste” sono prese da Soshaku, una delle loro
ultime canzoni. Per quanto riguarda il titolo della oneshot... beh,
non servono spiegazioni!
Vorrei
ringraziare ancora infinitamente Luxie_Lisbon per avermi permesso di
pubblicare questa oneshot e le auguro tanta ispirazione per
continuare presto la longfic! Muoio dalla voglia di conoscerne gli
sviluppi!
Alla
prossima, people! Ultimamente sono parecchio ispirata per scrivere
oneshot, a trovare il tempo ne scriverei una al giorno... quindi,
aspettatevi di tutto che magari torno presto... chi lo sa!
Un
bacio e un abbraccio a tutte, grazie di supportarmi sempre! Se riesco
ad andare avanti come sto facendo, è proprio grazie a voi.
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g.
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