Fiori di lino

di Altariah
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"Sta arrivando l’estate.” Disse Marco, tirando con un dito il proprio colletto. Ormai le camicie cominciavano a stare scomode per via del caldo.
Jean annuì in silenzio, lanciando uno sguardo verso il campo di lino davanti a loro che sembrava stagliarsi fino alle montagne.
“Sono fioriti in anticipo.” Constatò il moro, mentre si protendeva in avanti per strappare un fiore dalla distesa verde e azzurra. Mancavano ancora diverse settimane all’inizio della nuova stagione, ma al clima sembrava non importare.
“Mi piace qui.” Affermò sempre Marco con un sorriso imbarazzato. Aveva così tanta voglia di parlare… parlare di qualsiasi cosa, ma Jean sembrava più distante del solito. “A te?” Domandò poi, provando fastidio per la sua stessa insistenza.
“Hm?” Jean si voltò, incontrando il viso tranquillo dell’amico. C’era qualcosa di strano in quella giornata; sentiva che quel cielo pulito e quel calore fossero niente di più che un ricordo lontano. Come se ormai la sua vita fosse composta unicamente da inverno ed autunno… come se non ci fosse più spazio per il sole e per i fiori di lino, adesso. Sì, ma quando era precisamente “adesso”?
Il biondo aveva cercato di capire perché quel momento gli sembrasse così strano, finendo per ignorare il suo compagno. Si pentì per questo, una volta che lo ebbe realizzato, e sperò che Marco avrebbe avuto la pazienza di ripetere la domanda che gli aveva fatto.
Il ragazzo dai capelli neri snudò i denti in un lieve sorriso, comprensivo come sempre. “Dicevo… a te? A te piace questo posto?”
“Sì.” Sorrise Jean, sollevato. In quella risposta così breve c’era anche un ricordo, una sensazione bella e vivida che lo accompagnava dall’infanzia. Quell’immagine era composta da petali ormai trasparenti e steli scoloriti, sottili come capelli. Erano custoditi tra le pagine di un libro di poesie. Gli piaceva la sensazione dei fiori secchi sotto le dita, amava alzarli delicatamente e appoggiarli alla finestra della cucina per vedere la luce che ne filtrava attraverso. Ed intanto, la signora dal viso paziente ma segnato dalla stanchezza sedeva su una vecchia sedia di legno chiaro, cucendo vecchie calze e posando lo sguardo sul figlio. Vegliava su di lui e, se lui voleva, gli raccontava storie. 
“Mia madre teneva dei fiori di lino dentro un libro.” Raccontò, assecondando ciò che la memoria gli diceva. “Dovevano avere un significato per lei, mi ci lasciava giocare, ma si accigliava sempre quando li prendevo tra le mani.”
Marco si sedette accanto a Jean, così vicino che le loro spalle si toccavano.
Il biondo riprese a raccontare, dopo un leggero sospiro. “Il tempo aveva tolto tanto a quei petali, ma riuscivano ad essere così belli. Li trovavo anche più belli di quelli vivi. Erano diventati qualcosa di più. Mia madre diceva che a differenza degli altri fiori, loro sarebbero rimasti, come un simbolo.” Si voltò verso il ragazzo dai capelli neri ed osservò il suo sguardo attento. “Scusa, sono solo un sacco di stronzate. Perché mai dovrebbero interessarti queste cose?” Ridacchiò tra sé e sé nervosamente, e all’improvviso si accorse di non riuscire più a sostenere gli occhi di Marco dentro i suoi.
“Non hai mai parlato di tua madre.” Sorrise con tenerezza, sulle guance decine di lentiggini scure che assecondarono la sua nuova espressione. “Dev’essere una donna meravigliosa.”
Detto questo, Marco rigirò un paio di volte il fiore raccolto prima tra le dita, e poi lo avvicinò al viso di Jean. Quest’ultimo non si ritrasse affatto, così il moro poté infilare lo stelo tra i suoi capelli biondi, proprio sull’orecchia destra. Jean lo lasciò fare volentieri.
“Perfetto.” Sospirò. “Mi hai fatto diventare una bellissima principessa.”
Il moro rise di gusto, senza staccare un momento gli occhi dal compagno. “Milady” Resse il gioco.
“Marco…” Iniziò a dire Jean, quando entrambi ebbero smesso di ridere “perché mi hai portato qui?”
“Venivo qui da bambino. Devo per forza avertelo già raccontato. Volevo solamente passare una giornata libera fuori dall’Accademia e lontano dalla gente.” Rispose, semplicemente. Ma non era la risposta che il ragazzo dai capelli chiari voleva, e con tutta probabilità Marco lo sapeva benissimo.
A Jean venne l’impulso di chiedergli il motivo che l’aveva spinto ad invitarlo per andare lì insieme, il motivo che l’aveva spinto ad invitare proprio lui. Dopo aver aperto la bocca per parlare, però, la richiuse subito. Che gli importava, dopotutto? Lì si stava bene. Sentiva il tepore del giorno di inizio maggio attraverso i vestiti. Decise che, per quello strano momento fuori dal tempo, l’unica cosa importante fosse stare bene.
“È il mio periodo dell’anno preferito, questo. Più di tutto, amo il sole.” Decise di confessare, alla fine, lasciando da parte domande più scomode, come quella che gli era balenata nella mente poco prima. Non era da lui fare conversazioni futili sul tempo, ma improvvisamente parlare divenne una necessità. Voleva sentire le risposte di Marco, la cadenza delle sue parole.
Fu allora che Jean iniziò a percepire una sensazione di angoscia improvvisa, che aveva iniziato a permeare tutto il suo piccolo mondo. Nasceva e moriva all’altezza del suo cuore, gli stringeva la gola.
Ma il ragazzo dai capelli neri rimase sereno. Si voltò di più verso di lui e sussurrò: “Pioverà.”
“E questo chi te l’ha detto?”
“Sta piovendo anche ora.” Adesso il moro non lo guardava più. Evitava i suoi occhi con attenzione, e fissava gli steli d’erba sotto le sue gambe.
Jean rise. Non era da Marco un comportamento simile, non sembrava neppure che lo stesse prendendo in giro, ma allora cosa stava dicendo?
“Fino a prova contraria non c’è nemmeno una nuvola in cielo.” Ironizzò il ragazzo dai capelli biondi, senza capire se stesse reggendo una battuta o chissà che altro. Sperò vivamente di riuscire a chiudere quello strano discorso senza significato in cui erano finiti.
Marco annuì e socchiuse gli occhi.
Stettero immobili ed in silenzio per alcuni minuti, osservando il campo di lino afflosciarsi ritmicamente sotto delle folate di vento più forti di altre.
Più il vento schiacciava gli steli, più a Jean mancava il respiro. Ma ora iniziava a capire cosa stesse succedendo. Poi, quando il dolore e l’ansia furono troppe e non riuscì più a resistere, fu Jean a parlare.
“Mi dispiace.” Bisbigliò, agitato e confuso, mentre alcune lacrime nascevano incontrollate agli angoli degli occhi. La sensazione di paura non lo aveva lasciato, volteggiava sulle sue spalle come uno spettro e gli portava via tutto, lentamente. In quel momento per lui “tutto” era composto solamente da cielo, da fiori e da Marco. Voleva le mani del moro tra le sue, voleva avere la certezza della sua stretta, per un motivo che non riusciva ancora bene a capire. “Puoi stringermi le mani?” Supplicò quasi, e Marco dolcemente assecondò la sua richiesta.
“Va tutto bene.” Provò a rassicurarlo il moro, il quale però non si trattenne e pianse. Pianse sulla testa bionda di Jean, sul suo viso, sulle loro mani.
“Mi dispiace. Sapevo tutto, tu non me lo hai mai nascosto, e nonostante questo, io ti ignoravo. Perdonami.” Singhiozzò con fatica, sforzandosi di non versare nessuna lacrima. Riuscire a non piangere non lo rendeva più forte dell’amico, ma non importava.
Il ragazzo biondo prese il viso di Marco tra le mani e lo guardò con l’ammirazione più vera e genuina che avesse mai provato. Asciugò l’umidità dalle sue lentiggini e gli diede un bacio sulla palpebra chiusa dell’occhio destro. Lo strinse, lo cullò tra le braccia come non aveva potuto fare quando di lui rimaneva solo un cumulo di carne e ossa.
“Avrei voluto baciarti, prima della mia ultima missione.” Confidò Marco a Jean nell’orecchio.
A quel punto Jean non riuscì più a trattenersi e pianse a sua volta, lasciandosi andare; quasi non riusciva a respirare.
“Calmati, calmati.” Marco cercò di prendere il controllo della situazione. “Calmati e guardami.”
Il ragazzo più giovane obbedì, senza riuscire a staccare le mani da quelle del moro.
“Io sono diventato le ali che porti sulla schiena.” Bisbigliò dolcemente. “Non è colpa tua. Non lo è mai stata. Tua madre aveva ragione, quei fiori sono diventati un simbolo, prima erano semplicemente fiori.”
“Non lasciarmi, Marco.” Gli chiese con disperazione, ma questi stavolta non poté seguire la sua richiesta, per quanto l’avrebbe voluto.
“Puoi cercarmi nella pioggia.”
 
Jean aprì gli occhi, arrossati dalle lacrime che avevano finito per inzuppargli il cuscino. Si mise in ginocchio sulla branda, respirando a fatica, cercando di darsi un contegno per fermare i singhiozzi.
Doveva essere prima mattina. Il sole era sorto da poco, a giudicare dalla fioca luce che penetrava dal piccolo spazio sotto le ante della finestra.
Quando aprì gli infissi, vide la cosa più bella che il mondo potesse regalargli.
Stava piovendo a dirotto.








Credo di non essere mai stata così terrorizzata per pubblicare una storia. Non so, sto tremando. In questo fandom mangiano i bambini? JeanMarco è la classica ship che mi ha tenuta sveglia la notte, volevo scrivere su di loro ma non avevo idee. Poi una piccola illuminazione, e mi sono buttata su questa one-shot. Non è niente di trascendentale ma ora ho un peso in meno sullo stomaco. Perdonate eventuali errori. Man mano li sistemerò, appena li scovo. Maledetti.
Grazie mille per aver letto! 


ps. L'immagine di copertina l'ho buttata lì di fretta con la tavola grafica giusto perché poveri, scrivo una storia su di loro e non faccio una copertina? Nowwayy
Ringrazio le due prime signorine che hanno avuto la pazienza di leggerla in privato :3 Gna-




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