Capitolo
6
Riza
Hawkeye era
intrappolata in quella cella. Non aveva alcuna idea di quanto tempo
fosse passato. Poteva pensare che fosse circa una settimana, eppure
non ne era sicura. I pasti non le venivano sempre portati, sempre che
quel pastone immangiabile potesse essere considerato cibo. Le
ricordava molto quello che veniva dato ai porci e alle galline,
eppure non faceva alcuna fatica a finire la ciotola ogni volta in
pochissimo tempo: era affamata e abituata a nutrirsi di quello che
trovava. Qualsiasi cosa per lei aveva un buon sapore, quando sentiva
lo stomaco contrarsi per ore e ore in cerca di sostanze nutritive.
La
cosa positiva era che nessuno veniva a disturbarla. All’inizio
aveva temuto le torture, aveva pregato l’Altissimo di darle la
forza della sopportazione, ma non ce ne era stato bisogno: non aveva
visto nessun boia, nessuno l’aveva mai spostata da quella cella
stretta, umida e buia, tanto che la paura che si stava insinuando in
lei, poco a poco divenne un’altra, ovvero quella che prima o poi
l’avrebbero dimenticata e lei sarebbe morta di fame e di sete,
trascurata da tutti, senza aver diritto a nessuno sepoltura.
Aveva
il terrore che persino Roy Mustang si scordasse di lei… Quando
l’aveva imprigionata, il suo sguardo era stato eloquente, non
cattivo, ma pietoso e forse addirittura invaghito. Quella cosa non le
piaceva per nulla. Non voleva attirare sguardi del genere su di sé,
erano impuri e si era sentita imbarazzata e fragile. Non le
interessava essere una bella donna, la Vanità non le apparteneva, al
contrario, la disturbava. La Superbia era un peccato grave da cui
spesso le donne si lasciavano contagiare, avide di gioielli, di
vestiti preziosi, perché? Per attirare gli uomini? Non era questo
che il Signore voleva da loro.
Riza
era convinta che non
avrebbe dovuto fingere di essere esteticamente migliore di come Dio
l’avesse fatta perché sarebbe stata amata così com’era
dall’uomo che il destino le avrebbe riservato. Se questo non fosse
mai successo voleva dire che questa era la volontà del Creatore e
lei non era nessuno per giudicare il suo operato. Di certo non poteva
essere quel Mustang che l’aveva fissata con sguardo così impudente
e lussurioso… Sì, era un bell’uomo, alto, con i capelli corvini
e luminosi, la barba rasata di fresco, una pelle della quale
ricordava addirittura il profumo e un viso particolare così come il
taglio degli occhi neri come pozzi profondi… Era un uomo
affascinante, tuttavia non riusciva a fidarsi delle sue promesse. Le
aveva detto che l’avrebbe aiutata, e invece l’aveva messa a
marcire in quella prigione!
Non
riusciva ancora completamente a capacitarsi del suo destino. Solo
pochi giorni prima batteva la strada piagata dalle malattia e
dall’incertezza. Se mai avesse commesso un piccolo furto, se mai
avesse fatto qualcosa di sbagliato, lo aveva solo fatto a nome della
sopravvivenza, e dopotutto in quel periodo tanto buio pieno di
rovesciamenti tanto netti ed evidenti non era di certo l’unica a
fare sciacallaggi del genere. Si sentiva colpevole e sporca di quel
peccato, ma le aveva provate tutte, invano, contrastando la sua
posizione sociale pur di raggiungere a un umile lavoro. Quella era
stata l’unica scelta e ora si rendeva conto di dover pagare un
prezzo non di certo leggero o basso per quei delitti. Per quanto si
illudesse di stare al sicuro in quella putrida cella, sapeva che era
soltanto una questione temporanea. Ascoltava i lamenti dei
prigionieri vicini, sentiva spesso provenire dai piani superiori le
urla di dolore dei torturati e tremava, rabbrividiva di terrore
nell’udire quelle voci strazianti dimenticate da Dio.
Presto
o tardi sarebbe arrivato il suo turno, sapeva perfettamente che tutti
gli Inquisitori promettevano una vana salvezza, quel tipo non doveva
essere poi tanto diverso dagli altri. Eppure al solo pensiero del suo
volto triste e nel contempo concentrato non poteva capacitarsi di
come potessero esistere maschere di ipocrisia tanto ben riuscite. Si
voleva convincere di essere disgustata perché si rendeva conto che
cedere per un solo istante l’avrebbe direttamente consegnata alle
braccia della morte. Per quanto timorosa, preferiva il giudizio di
Dio piuttosto che quello diabolico che riproducevano gli uomini. Non
si capacitava di credere come potessero esistere macchine tanto
infernali se non le avesse suggerite alla mente umana il Diavolo. Si
distraeva con quei pensieri, cercando di trovare la forza e la
volontà necessaria per andare avanti senza tentennare e dimostrarsi
debole. Sapeva perfettamente che quelle erano mere illusioni di una
realtà che non si poteva verificare. Non era di certo abbastanza
forte per abbandonare la percezione della carne per ritrovare la più
alta elevazione di Spirito, infatti prima di tutto era una
peccatrice, ma anche il suo semplice stato di essere umana non le
avrebbe mai permesso di raggiungere una tale altezza.
La
stava lasciando marcire, in modo che impazzisse prima del tempo, che
al solo sentire quell’oppressione e l’indecisione del proprio
destino l’avrebbe presto condannata alla Follia. Avrebbe tanto
voluto scappare da quell’incubo, tuttavia sembrava che non ci fosse
una via d’uscita, e lottava strenuamente contro quella
irrazionalità che la vedeva coinvolta in azioni omicide o nella
perdita del senno prima ancora del tempo.
Si
accoccolò così nel suo abito miserabile e sformato, finché ad un
certo punto non avvertì la porta della sua cella aprirsi
pesantemente. Era buio pesto, e la luce delle lanterne del corridoio
esterno che invase improvvisamente il cubicolo bastò a ferirle la
vista, tanto che dovette ripararsi con un braccio davanti al viso.
Non riuscì nell’immediato a capire di chi si trattasse. La figura
appariva sulla soglia in controluce in modo indistinto, eppure la
lista dei candidati era decisamente breve: poteva essere
l’Inquisitore Mustang o uno dei suoi sottoposti, Jean Havoc, la
guardia che le portava da mangiare, o magari Kain Fury, il suo
giovane segretario.
Il
fatto che qualcuno si occupasse nuovamente di lei la rendeva quasi
sollevata, poiché significava che avrebbe potuto resistere ancora un
poco alla pazzia. Bastava anche solo una parola, un gesto, un
movimento, un qualcosa che le facesse capire di non di essere ancora
arrivata all’Inferno…
La
figura avanzò con passo lento e solenne verso di lei.
«Bene,
bene… Chi è che abbiamo in questa cella? Ho proprio voglia di
conoscere la prigioniera privilegiata che il caro Mustang tiene tutta
per sé. Avanti, sono curioso, venite fuori, signorina.»
Era
una voce affilata che Riza non aveva mai sentito. Colta da un’ansia
improvvisa rimase in silenzio, schiacciata contro la parete. Non
presagiva nulla di buono da quell’uomo che non conosceva, il suo
timbro vocale non era per nulla rassicurante, anzi, le faceva venire
i brividi. Ingoiò il nodo che aveva in gola e decise in ogni caso
che doveva dimostrarsi forte e risoluta come al solito. Non era
Mustang, era vero però non sapeva cosa volesse da lei. Magari era
davvero un altro inquisitore solo curioso di vederla, dato che poteva
immaginare da sola quanto la sua situazione fosse atipica.
Si
schiarì la voce arrochita dai lunghi silenzi che l’accompagnavano
in quelle giornate, tuttavia non si espose e rimase nella posizione
rannicchiata in cui era.
«Sono
Riza Hawkeye… Chi siete? Cosa volete da me? Vi ha mandato Mustang?»
«Penso
che non siate nella posizione adeguata per poter pormi in modo tanto
prepotente delle domande, non credete anche voi? Comunque, oggi sono
particolarmente di buon umore, quindi mi presento: mi chiamo Kimblee,
Zolf Kimblee per l’esattezza. E no, non sono stato mandato da
Mustang. Diciamo che sono un suo pari, e mi chiedevo come mai
circolassero tutte queste voci tra le guardie sul fatto che ci fosse
una prigioniera che era riuscita in qualche modo a convincere Mustang
a non farle subire alcun interrogatorio… E’ vero che il nostro
amico tratta con i guanti la maggior parte dei suoi prigionieri, ma
da qui a trattarli come principesse… Mi chiedevo, gli avete fatto
un qualche sortilegio? Si sarà invaghito di voi?»
Riza
era alquanto scossa
e confusa, quella non sembrava particolarmente un trattamento da
principesse e ancor meno si sentiva privilegiata. Era abituata a
stare all’addiaccio la notte e il giorno, vivendo libera e vagando
dove più le conveniva. Un animo come il suo non era fatto per essere
contenuto in quella putrida e oscura gabbia dimenticata da tutti. Se
quella non era la soglia della miseria, cos’erano davvero capaci di
fare lì dentro? Avrebbe quasi preferito affogare dalla pazzia che
prima stava tanto temendo, piuttosto che sperimentarsi con quel
dubbio di sofferenza lacerante. La figura indistinta le metteva
timore, il suo tono studiato e persuasivo non promettevano niente di
buono e quasi sentiva i suoi occhi puntati su di lei, nel disperato
tentativo di oltrepassare quella coltre di tenebre con lo sguardo e
di vederla. Voleva guardare il suo volto circonfuso da pazzia, voleva
i suoi occhi piangere lacrime di sangue, voleva compiacersi nello
scrutare il suo corpo genuflesso in avanti, sfinito dalle torture.
Quello sguardo sadico, pronto a trovare i punti deboli delle persone,
era terrorizzante e Riza, pur temendolo, rimase rannicchiata al suo
posto.
Non
seppe dove riuscì a trovare il coraggio di ribattere a quella
presenza lugubre, per quanto la banalità e la timidezza della
risposta fosse evidente. Il semplice fatto di riuscire a contrastare
quell’uomo era un’impresa notevole.
«Non
so di cosa stiate parlando.»
Le
labbra di Kimblee si contrassero in un sorriso feroce, quante volte
aveva sentito quella frase e quante volte era riuscito a far morire
quella affermazione sulle labbra del condannato. Sapeva essere molto
persuasivo e quando la sua furia dilagava niente riusciva a frenarlo.
Aveva solo il desiderio innato di continuare a ferire, dilaniare,
bruciare e far agonizzare. Quello era il nutrimento della sua anima,
quello era il desiderio che gli permetteva di vivere. Stava giusto
per far fuoriuscire quell’indole implacabile, quando sentì quella
voce.
«Cosa
succede qui?» Passi scanditi e regolari lungo il corridoio, la voce
calma e il volto impassibile. Mustang procedeva incurante
dell’oscurità, guardando e affrontando con lo sguardo Kimblee.
Quest’ultimo non riuscì a trattenersi dal sorridere.
«La
tua colombella è in pericolo e giungi a salvarla, Mustang?
Ammirevole!»
Mustang
per tutta risposta si avvicinò a Riza e prendendola per i capelli,
le intimò di alzarsi. Non vi era cortesia nei suoi modi, né pietà
nel suo sguardo. «I miei metodi d’inquisizione non ti riguardano,
Kimblee. Sono libero di agire come più mi piace, psicologicamente o
fisicamente. Non credo di essere mai venuto a insegnarti il mestiere.
Ritorna dal tuo eretico.»
Il
suo volto duro, contratto in una maschera di calma irosa non era uno
spettacolo di tutti i giorni. Kimblee stesso era un po’ sorpreso da
quel gesto ma non dimostrava di non compiacersene. La sfida lo
stimolava.
I
due inquisitori si fissarono per qualche istante che pareva eterno,
sotto la luce soffusa delle lanterne che continuava a penetrare
insistentemente nella cella. L’aria era carica di tensione. Gli
occhi di Kimblee erano taglienti come le sue parole e il suo sorriso
sarcastico e spietato.
Riza
finalmente riusciva
a scorgerlo, anche se a fatica, concentrata com’era a stringere con
le mani i polsi di Mustang sulla sua nuca, in un disperato tentativo
di allentare quella presa ferrea sui suoi capelli. Il dolore acuto le
faceva lacrimare involontariamente gli occhi, non riusciva a smettere
di gemere. Se avesse continuata a strattonarla in quel modo le
avrebbe strappato il cuoio capelluto.
«Hai
deciso improvvisamente di fare il duro? Sono quasi commosso…»
«Ti
ho già detto che non sono affari tuoi. Occupati dei tuoi imputati,
sparisci.»
«Certo,
come desideri… Ma sappi che vi tengo d’occhio, tu, il tuo
gruppetto di fedeli sottoposti e questa bella signorina… Non vorrei
mai essere costretto a rivelare a Bradley che gli occhi dolci della
tua prigioniera ti hanno reso… Inadeguato, diciamo. Confesso
che sarebbe comunque interessante per me il caso di una strega che
sia riuscita a far invaghire il pio Mustang. Potrebbe essere proprio
stimolante, un caso simile non mi è mai capitato, me lo accollerei
volentieri.»
«Vattene.»
Il
sibilo minaccioso di Mustang avrebbe fatto deglutire intimorito
chiunque… Chiunque tranne Kimblee. L’inquisitore continuava a
sorridere malignamente, divertito dalle reazioni che aveva suscitato
nel collega.
«Come
vuoi… A presto.»
Se
molta gente temeva King Bradley, si poteva dire che altrettanta
avesse il terrore anche di Zolf Kimblee. Non perdeva mai la calma, ma
con i suoi metodi riusciva a far confessare qualsiasi cosa a chiunque
grazie alla sua subdola ferocia. Era pericoloso perché non aveva
alcun tipo di reverenza, non lo faceva per nessuno scopo in
particolare se non quello di compiacere il proprio ego pervertito.
Non temeva niente e nessuno, non credeva in nulla nel suo intimo, e
l’unico motivo che lo aveva spinto verso la carriera inquisitoria
era la possibilità di divertirsi impunemente al piccolo costo di far
finta di credere in qualcosa di superiore. Non esisteva altro dio al
di fuori di se stesso, per lui. La sua superbia e tracotanza
non aveva mai incontrato nessun ira divina e proprio questo lo
rendeva così sprezzante verso quella religione. Era un mero mezzo di
paura di cui il più forte si avvaleva per sopravvivere e lui voleva
essere il più forte, senza dubbio era dalla parte del vincitore. Non
si sarebbe fermato davanti a niente e nessuno, senza che l’etica o
la pietà lo ostacolassero: erano concetti così lontani da lui da
essergli estranei. Se ne andò quindi con quell’eleganza che gli
era tipica, senza che quel cambiamento repentino di Mustang lo
irritasse. Era piacevole, era buffo osservare come quel lavoro
trasformasse la gente, come la rendesse così poco umana e
caritatevole. Nemmeno Mustang poteva sopportare quella pressione e
lui sarebbe precipitato nella violenza, ne era sicuro. Aveva provato
a opporsi a quella morsa, ma non poteva fare evidentemente niente per
fermare quel flusso, e la sua indole sarebbe precipitata ancora più
in basso, spezzata e affranta. Kimblee a stento riusciva a frenare
quella risata sadica e sprezzante che si manifestava a più riprese
sulle sue labbra, che colorava i suoi occhi iniettati di sangue e
accendeva il volto dal divertimento. La sua figura di perse in quegli
oscuri meandri, presto la sua ira sarebbe ricaduta sullo Sfortunato e
nessun Dio avrebbe potuto salvarlo.
Mustang
dal canto suo era irriconoscibile. Era precipitato nel lato della sua
indole in cui dimostrava la sua arditezza e il suo poco controllo.
Era stato un incosciente, uno stupido idiota. Già attirava
l’attenzione di mezza inquisizione per le sue pratiche poco severe,
se non si voleva far scoprire doveva decisamente invertire la sua
rotta. Ora a pagarne le conseguenze sarebbe stata quella donna che
teneva ancora per i capelli. A differenza di qualsiasi altra era
stupita, era gemente, ma dimostrava una forza fuori dal comune…
Tuttavia lui non poteva sottrarsi al suo incarico e per mettere
definitivamente quelle voci a tacere doveva fare ciò che andava
fatto. La trascinò senza alcuna pietà ma ogni suo singhiozzo, ogni
sua protesta per lui era una pugnalata al cuore. Sentiva il suo
essere sgretolarsi di fronte a quella violenza, sentiva il suo cuore
infrangersi in quel dolore che stava impartendo. Avrebbe voluto
smettere, avrebbe voluto evitare quella farsa – che tanto farsa non
era – ma non poteva opporsi a quegli sguardi vigili, a quella
presenza costante. Ciò che poteva fare era soltanto salvare il
salvabile e avrebbe dovuto compiere il tutto senza che nessuno si
avvedesse di niente, senza che si sospettasse minimamente di lui. Non
poteva rischiare, un passo falso di troppo e avrebbe mandato tutto a
monte. Bastava poco e Kimblee avrebbe attuato le sue minacce. Poteva
farlo, non aveva dubbi, lo conosceva troppo bene.
Continuò
a trascinarla fin fuori dalla cella, un po’ a fatica perché lei
opponeva una forte ed ostinata resistenza.
Solitamente
gli inquisitori non si sporcavano le mani in quel modo, avevano un
boia a cui si affidavano, che faceva il lavoro sporco per loro. In
quel momento lui non aveva il tempo di mandarne a chiamare uno,
doveva semplicemente distogliere le attenzioni dal suo atipico
operato, fare in modo che sembrasse davvero convinto nel suo voler
estorcere ad ogni costo una confessione a quella ragazza. Il tempo
che aveva per pensare ad un piano per salvarla stava via via
scemando, e lui nemmeno se ne era accorto. Non aveva trovato nessuna
prova che potesse scagionarla dalle accuse, tutto remava contro di
lei. Era obbligato a prendersi altro tempo, anche se questo voleva
dire fare qualcosa di orribile.
Nel
corridoio della prigione, i singulti della ragazza riecheggiavano. I
condannati nelle celle stavano in silenzio cercando di far finta di
nulla, di non ascoltare. Era sempre così, ogni volta che il
miserabile di turno veniva preso e portato via.
Per
Riza il tempo sembrava non finire mai. Continuava a rimanere
aggrappata alle braccia dell’uomo per reggersi finché non fu
scaraventata a terra. Cadde di peso supina, e fortunatamente i suoi
riflessi furono abbastanza pronti da permetterle di attutire
l’impatto con le mani. I palmi le si graffiarono sulla fredda
pietra del pavimento. Tra le dita di Mustang erano rimaste impigliate
delle ciocche di capelli.
Lui
non voleva farle nulla, e mentalmente le chiedeva perdono, in modo
disperato. Se solo lei avesse potuto capire.
Riza
invece si voltò su
se stessa arrabattandosi in velocità nella sua veste lacera, che le
cadeva da tutte le parti e scopriva le sue nudità. Le ferite sulle
mani bruciavano, eppure cercò di non darlo a vedere, occupata
com’era a coprirsi. Già non era in grado di trattenere le lacrime,
che sgorgavano ormai senza controllo sulle sue gote. Non avrebbe
lasciato a quell’uomo la soddisfazione di vedere il suo corpo
fresco e giovane, proprio no. Lo fissò con lo sguardo più rancoroso
che potesse fare in quegli istanti, mentre tremava di rabbia e di
paura. Si sentiva così ingenua ad aver pensato per qualche tempo che
volesse davvero aiutarla, che fosse un uomo tutto sommato giusto e
che l’avesse capita…
«Potete
farmi quello che volete! Non vi dirò mai niente! Mai! Fatemi pure
uccidere da quel Kimblee! Per me sarà solo una liberazione! Mi avete
già torturato abbastanza!»
«Non
hai alcuna idea di cosa sia la tortura. Il problema è che io sono
nei guai adesso, quindi non ho altra scelta. Devi confessare, Riza! O
lo fai di tua spontanea volontà o te lo farò fare io stesso con le
mie mani, senza nemmeno un boia!»
«Non
risponderò a niente! Io sono una persona devota, non mentirò mai!»
Riza
era disperata ed era
completamente indignata dalle parole di Mustang. Erano quasi
caritatevoli, come se fosse dalla sua parte. La verità era che lui
l’aveva gettata in quella cella a marcire per un fatto che non
aveva commesso, l’aveva trascinata con violenza, minacciandola
deliberatamente davanti a quel Kimblee e adesso faceva finta di stare
dalla sua parte per estorcerle false verità. Non avrebbe parlato,
non avrebbe lasciato che quell’uomo la potesse spogliare della sua
rispettabilità e della sua innocenza. Poteva anche torturarla e
strapparle via quegli stracci che ostinatamente si sforzava di tenere
su di sé per nascondersi ma non poteva privarla della sua moralità,
non glielo avrebbe permesso ed era decisa in questo. Poteva solo
immaginare cosa le aspettava ma non aveva alcuna intenzione di
cedere.
Roy
la guardò, lì gettata in quell’angolo. Non aveva alcun desiderio
di infliggere quelle pene, non aveva alcuna voglia ma non aveva
scelta. Non aveva alcuna intenzione di ferire quella flebile carne,
non voleva macchiarsi di quel sangue innocente. Ma perché doveva
avere più pietà di lei che di tanti altri innocenti che erano morti
nello stesso identico modo? Quella rabbia che lo aveva invaso vedendo
Kimblee lo aveva gettato in un gorgo senza fine, poiché
evidentemente quell’uomo aveva anche influenze molto negative. Era
stato assalito da quella rabbia repressa che ormai lo perseguitava da
tanto tempo. Vedendo tutta quella violenza e quelle torture stava
iniziando davvero a perdere la testa e smarrire se stesso. Se
soltanto avesse davvero ferito Riza, sapeva che avrebbe consumato
irrimediabilmente il suo animo.
Come
in un sogno estremamente vivido, quasi incosciente di ciò che
faceva, alzò di peso la ragazza. Non voleva, non poteva ferirla
eppure lentamente, evitando di farle troppo male e eludendo i punti
vitali prese a fare il suo lavoro. Ogni volta che avvertiva un suo
gemito, ogni volta che sfiorava la sua carne, ogni volta che sentiva
quel fremito e ribrezzo di pura violenza investirlo, tremava. Era
completamente travolto da diversi sentimenti, e anche se non lo
avrebbe mai ammesso gli sembrava di provare addirittura un certo
piacere. Possibile che il suo confuso stato d’animo lo avesse
gettato fino a quell’estremo? Tuttavia si sentiva stringere
il cuore al suo dolore, sentiva la sua mente inorridire a tutte
quelle azioni. Ma non poteva fermarsi, sentiva gli occhi scrutatori e
attenti di Kimblee su di sé e se soltanto non avesse fatto bene il
suo lavoro non avrebbe mai potuto salvarla – sempre che avesse
trovato un sistema – né salvare il suo posto, la sua vita e la sua
reputazione. Non era per quello che aveva iniziato quel lavoro.
Voleva smettere, smettere di essere così freddo e magari piangere
per ciò che stava facendo. Non era nel suo carattere ma neanche lui
poteva digerire tutto quel sadismo e si sentiva completamente
distrutto dai diversi sentimenti e sensazioni che ormai lo invadevano
e lo dilaniavano.
Riza
nel frattempo
accusava i colpi, uno per uno, affranta, incastrata tra una parete
ruvida di pietra grezza e il corpo del suo assalitore. Nella sua
mente c’era solo un pensiero che cercava di tenersi stretto, per
non cedere, quello di non parlare. Dalle sue labbra spaccate e
sanguinanti sarebbero usciti solo gemiti, se lo promise. Sarebbe
rimasta aggrappata alla sua stessa dignità come un naufrago alla
zattera. No, non gli avrebbe nemmeno dato la soddisfazione di
pregarlo di smettere. Perché a quelle botte poteva resistere, sapeva
che avrebbe potuto farcela, che l’Altissimo le stava dando la forza
di proteggere i propri ideali. Sarebbe morta,
pur di difendere la propria onestà.
Quando
finalmente l’Inquisitore la lasciò andare, Riza si accasciò su se
stessa esausta, scivolando contro il muro. Tremava come una foglia,
ma cercava di mantenere la testa alta, fissando in viso il suo
assalitore, quasi in segno di sfida.
Era
strano. Le sembrava di vedere delle lacrime sulle sue guance, ma
forse erano solo le violenze che aveva ricevuto che la stavano
facendo sragionare.
“Non
dirò nulla, signore… Picchiatemi ancora… Stupratemi…
Bruciatemi pure… Non avrete niente da me, ve lo giuro…”
sussurrò a fatica, quasi sorridendo, prima di perdere i sensi.
Fu
in quel momento che Mustang lo vide. Il sacco lurido con cui la
ragazza era vestita si era strappato sulla schiena a causa
dell’attrito contro la parete. La sua schiena nuda era coperta di
graffi superficiali, ma non solo…
Aveva
una scritta incisa sulla pelle, sopra un disegno stilizzato e quasi
incomprensibile raffigurante un uccello avvolto nelle fiamme, forse
un aquila, che volava verso un sole. Lo si poteva capire a mala pena
poiché la pelle era completamente rovinata da profonde cicatrici,
cicatrici di ustioni ormai rimarginate. Le lettere “tio m
it atis” dovevano una volta formare delle parole che qualcuno
aveva voluto cancellare in quel modo tanto doloroso.
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